Piena occupazione vs stabilità dei prezzi
Secondo la ricostruzione che va per la maggiore, l’Europa unita è nata per assicurare al Vecchio continente un futuro di pace. Ha però visto la luce in un’epoca segnata dalla Guerra fredda, ed è stata pertanto concepita per rinsaldare il fronte dei Paesi capitalisti in lotta contro il blocco socialista. Ciò nonostante, non ha impedito agli Stati di promuovere una precondizione per il mantenimento della pace: una redistribuzione della ricchezza realizzata dai pubblici poteri fuori dal mercato tramite il welfare, e nel mercato con la tutela del lavoro e la piena occupazione.
L’Europa unita, nei suoi primi anni di vita, non era insomma del tutto ostile al compromesso keynesiano. Proprio la piena occupazione veniva del resto menzionata dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea tra gli obiettivi che il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio nazionali doveva perseguire. Questi comprendevano però anche la stabilità dei prezzi e dunque la lotta all’inflazione, ovvero un obiettivo in contrato con la piena occupazione: per perseguirla, occorre sostenere la domanda attraverso l’incremento dei salari ed evitare quindi politiche monetarie destinate a contenere la disponibilità di denaro, richieste invece al fine di promuovere la stabilità dei prezzi.
In tutto questo si pensava che i Paesi partecipanti alla costruzione europea non dovevano limitati a coordinare le loro politiche fiscali e di bilancio, ovvero che le avrebbero prima o poi cedute a Bruxelles. Si pensava poi che questo passaggio avrebbe dovuto accompagnare, se non precedere, la creazione di una politica monetaria comune. Il varo della moneta unica, cioè, doveva essere anticipato dalla scelta circa l’obiettivo di politica fiscale e di bilancio da privilegiare: occorreva decidere se attribuire maggiore importanza alla piena occupazione o alla stabilità dei prezzi, per poi individuare una politica monetaria coerente con un simile proposito.
Nel corso degli anni Ottanta questa tabella di marcia venne stravolta dalla decisione di adottare una politica monetaria comune in assenza di politiche fiscali e di bilancio comuni, e soprattutto di farlo in vista di un obiettivo unico: la stabilità dei prezzi. In questo modo, sebbene le politiche fiscali e di bilancio restano in mano agli Stati membri, si impedisce loro di fatto di perseguire la piena occupazione[1].
L’artefice di una simile trasformazione fu Jacques Delors, che portò prima al fallimento di una esperienza di governo ostile all’ortodossia neoliberale e fu poi ricompensato con la presidenza della Commissione europea: posizione che occupò per ben tre legislature, dal 1985 al 1995. Non parliamo dunque di un illuminato padre dell’Europa unita, bensì del principale responsabile dell’assetto che l’ha condotta a divenire un dispositivo neoliberale irriformabile, incapace di arginare la virulenza dei mercati e il relativo affossamento della partecipazione democratica. Con buona pace di chi reputa che la fase attuale indichi una inversione di tendenza e non invece il definitivo consolidamento dell’assetto edificato da Delors. E soprattutto di chi pensa che la mancanza di una politica fiscale e di bilancio comune sia una anomalia e non un assetto voluto per gli effetti che inevitabilmente produce.
Ministro delle finanze francese
Si diceva dell’esperienza di governo ostile all’ortodossia neoliberale al cui fallimento Delors contribuì in modo fondamentale. Il riferimento è a una vicenda che origina in Francia al principio degli anni Ottanta: quando si avviò la stagione politica di François Mitterrand, Presidente della Repubblica dal 1981 per due settennati.
Questi ispirò la nascita di un primo esecutivo di coalizione presieduto da Pierre Mauroy, a cui presero parte socialisti, sinistra radicale e comunisti, impegnato a realizzare un programma comprendente il rilancio del welfare, il rafforzamento della tutela dei lavoratori, l’incremento dei salari e la nazionalizzazione delle imprese di interesse nazionale operanti in regime di monopolio. La conseguenza fu un aumento dell’inflazione, e con ciò il rischio di pregiudicare la partecipazione francese al Sistema monetario europeo[2], che si volle però contrastare con strumenti incompatibili con l’impeto keynesiano del programma.
La stabilità dei prezzi divenne infatti un punto di riferimento per le politiche decise dalla coalizione, che si trovò così nella impossibilità di alimentare politiche di piena occupazione. Fu questo il filo conduttore delle iniziative intraprese dal secondo e soprattutto dal terzo esecutivo presieduto da Mauroy, nel quale Delors, da Ministro delle finanze fin da subito critico con l’approccio keynesiano, si distinse per lo zelo con cui volle imporre la moderazione salariale e limitare la spesa pubblica[3].
Tutto ciò non rilanciò l’economia francese, che risultò anzi afflitta da un impoverimento delle famiglie e da un aumento della disoccupazione, che si volle fronteggiare con ulteriori misure di sapore neoliberale: prima fra tutte il disimpegno economico dello Stato. Delors avrebbe dovuto consolidare la svolta assumendo la carica di Primo ministro, ma la sua carriera politica prese una piega diversa: nel 1985 divenne Presidente della Commissione europea, carica che come abbiamo detto gli fu rinnovata per due volte sino al 1995.
Presidente della Commissione europea
Nel tentare un bilancio di questo decennio, in molti hanno celebrato il contributo di Delors allo sviluppo della costruzione europea esaltando il suo profilo di personalità non ascrivibile al campo dei fautori del laissez faire[4]. Si deve però a Delors il definitivo ancoraggio della costruzione all’ortodossia neoliberale, se non altro per la realizzazione di un presupposto per il suo dilagare: l’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali. Il tutto come primo passo verso il varo di una politica monetaria comune, principale lascito di Delors e la vicenda per cui viene tuttora celebrato come padre della costruzione europea.
Il primo atto politico di Delors al vertice della Commissione fu la redazione del Libro bianco sul «completamento del mercato» che non si definiva più «comune», bensì «interno»: espressione finora utilizzata per il livello nazionale, il cui impiego sottolineava la volontà di «saldare i singoli mercati degli Stati membri». Questo richiedeva di intervenire sulla libera circolazione delle merci, compromessa nel corso degli anni Settanta da politiche nazionali protezionistiche, moltiplicatesi come reazione alla crisi economica e in fin dei conti tollerate dal livello europeo[5]. Richiedeva poi di realizzare finalmente la libera circolazione dei capitali, per la quale bisognava procedere all’«armonizzazione delle disposizioni nazionali che disciplinano l’attività degli intermediari finanziari e dei mercati finanziari». Si doveva infine combattere energicamente le alterazioni della concorrenza e in particolare colpire gli aiuti statali alle imprese «non competitive»[6].
Libera circolazione dei capitali
Il Libro bianco non venne recepito in tutte le sue parti, e tuttavia il suo impianto ha ispirato l’Atto unico europeo del 1986. Questo modificò il Trattato istitutivo della Cee con particolare riferimento alla creazione di «uno spazio senza frontiere nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali» (art. 8A).
Se non altro l’Atto unico, diversamente dal Libro bianco, prendeva in considerazione un sicuro effetto della libera circolazione dei capitali: questa avrebbe inasprito la concorrenza e quindi provocato tensioni che occorreva in qualche modo sopire con strumenti di pacificazione sociale[7]. È sullo sfondo di simili preoccupazioni che si aggiunse al Trattato istitutivo della Cee una disposizione concernente l’impegno della Comunità «a ridurre il divario tra le diverse regioni e il ritardo delle regioni meno favorite» (art. 130A).
Si prescrisse a tal fine l’utilizzo dei Fondi strutturali, concepiti come strumenti di redistribuzione delle risorse[8]. Nel corso degli anni la loro disciplina venne però catturata in un meccanismo definibile in termini di mercato delle riforme: il meccanismo per cui qualsiasi forma di assistenza finanziaria fornita dal livello europea è concepita come contropartita per l’adozione di riforme volte a consolidare l’adesione all’ortodossia neoliberale[9]. Il che è stato poi definitivamente sancito in un regolamento per cui occorre «stabilire un legame più stretto tra politica di coesione e governance economica dell’Unione, onde garantire che l’efficacia della spesa nell’ambito dei Fondi strutturali e di investimento europei si fondi su politiche economiche sane». Il tutto collegato a un sistema sanzionatorio destinato a presidiare questo specifico mercato delle riforme: «se uno Stato membro non dovesse adottare provvedimenti efficaci nel quadro del processo di governance economica, la Commissione dovrebbe presentare una proposta al Consiglio intesa a sospendere, in parte o in tutto, gli impegni o i pagamenti destinati ai programmi in detto Stato membro»[10].
A ben vedere un simile esito venne anticipato da una precisazione di Delors, secondo cui «gli strumenti comunitari devono cessare di essere considerati come gli elementi di un sistema di compensazione finanziaria», giacché «sono destinati a svolgere, accanto alle politiche nazionali e regionali e di concerto con le medesime, un ruolo importante per la convergenza delle economie»[11]. Non serve dunque evocare il ruolo di Delors come fautore della moneta unica per documentarne il fervore neoliberale, e più precisamente il ruolo di principale artefice dell’edificazione dell’Europa unita sotto forma di dispositivo neoliberale irriformabile. È sufficiente ricostruire il suo impegno per la realizzazione della libera circolazione dei capitali, ovvero del principale meccanismo volto allo scardinamento del compromesso keynesiano.
Proprio per la tutela di questo compromesso, sul finire della seconda guerra mondiale si era immaginato un ordine economico internazionale fondato sulla libera circolazione delle merci ma non anche dei capitali. Questi ultimi, così si è stabilito nello statuto del Fondo monetario internazionale, devono poter essere controllati dagli Stati (art. 6). E se per rivitalizzare il commercio internazionale, e a monte l’occupazione, fosse stato necessario fornire capitali ai Paesi bisognosi, questo doveva avvenire con prestiti erogati a interessi contenuti e comunque individuati con dinamiche sottratte al mercato: di qui l’istituzione della Banca mondiale[12].
Ebbene, si deve a Delors se questo schema, che ha retto per quarant’anni, è stato affossato. Se gli Stati, in balia della libera circolazione dei capitali, si sono visti costretti a realizzare le sole politiche in grado di attirare gli investitori internazionali: quelle destinate a precarizzare e svalutare il lavoro e ad abbassare la pressione fiscale sulle imprese, con ciò imponendo di affossare il welfare. Si deve a Delors se l’Europa unita è diventato un dispositivo neoliberale irriformabile, radicalmente incompatibile con l’aspirazione a ripristinare il compromesso keynesiano.
[1] A. Somma, L’Unione europea non è un progetto incompleto e neppure riformabile: è un dispositivo neoliberale di successo, in Ragion pratica, 2023, p. 161 ss.
[2] Ad es. G. Mammarella e P. Cacace, Storia e politica dell’Unione europea, Roma e Bari 2008, p. 177 ss.
[3] Per tutti G. Duby, Storia della Francia. I tempi nuovi dal 1852 ai giorni nostri (1991), 3. ed., Milano 1997, p. 1388.
[4] Ad es. J. Gillingham, European Integration 1950–2003: Superstate or New Market Economy?, Cambridge 2003, p. 160.
[5] Il completamento del mercato interno. Libro bianco della commissione per il Consiglio europeo del 14 giugno 1985, Com/85/310 fin.
[6] Ibidem.
[7] H.J. Glaesner, L’Acte unique européen, «Revue du marché commun», 29, 1986, p. 317.
[8] J.-P. Jacqué, L’Acte unique européen, «Revue trimestrielle de droit européen», 22, 1986, p. 602 s.
[9] A. Somma, Il mercato delle riforme. Come l’Europa è divenuta un dispositivo neoliberale irriformabile, in E. Mostacci e A. Somma (a cura di), Dopo le crisi. Dialoghi sul futuro dell’Europa, Roma 2021, p. 229 ss.
[10] Considerando 24 Regolamento recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca del 17 dicembre 2013, 1303/2013/Ue.
[11] Portare l’Atto unico al successo: una nuova frontiera per l’Europa del 18 febbraio 1987, Com/87/100 def.
[12] Ad es. M.A. Clemens e M. Kremer, The new role for the World Bank, in 30 Journal of Economic Perspectives, 2016, p. 53 ss