Per la Procura di Torino erano vere e proprie torture, per il giudice – almeno in relazione alle condotte contestate all’imputato alla sbarra – solo “comportamenti aggressivi” in cui manca l’elemento della “sadica soddisfazione” per la capacità di “generare sofferenza”. Ma le carte giudiziarie emerse dal processo in corso sulle violenze cui sarebbero stati sottoposti alcuni detenuti nel carcere di Torino raccontano nitidamente come, all’interno del padiglione C dell’istituto penitenziario – dedicato ai responsabili di reati a sfondo sessuale – un clima di “timore e omertà” abbia spianato la strada a innumerevoli episodi di pestaggi, vessazioni e insulti da parte del personale carcerario nei confronti dei reclusi. Che, colpevolmente, non furono denunciati da chi allora era al vertice dell’istituto. L’inchiesta, che conta 25 indagati, a settembre è approdata a un primo verdetto per i tre che hanno scelto il rito abbreviato: l’ex direttore del carcere Luigi Minervini, assolto per favoreggiamento e condannato per omessa denuncia, l’ex comandante di reparto di Polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, assolto per favoreggiamento “perché il fatto non sussiste”, e l’agente Alessandro Apostolico, alla sbarra per aver usato “crudeltà” verso un detenuto e avergli inflitto “violenze gravi” che produssero “acute sofferenze fisiche”, condannato a 9 mesi più 300 euro di multa per abuso di autorità.

Al netto dei risvolti penali della vicenda, le motivazioni della sentenza hanno fatto luce sulla gravità di quanto avvenuto tra le mura del carcere nel periodo compreso tra il 2017 e il 2019. Il gup di Torino Ersilia Palmieri scrive infatti che le vittime hanno descritto “un modus operandi ricorrente: una sorta di ‘battesimo’ una volta che il detenuto fa ingresso in carcere, perpetrato da un gruppo di agenti di Polizia penitenziaria (i quali, dall’agire in gruppo, paiono trarre superiorità e forza e la cui identità spesso ritorna nei vari fatti contestati), con modalità simili”. Nello specifico, si fa riferimento a “insulti e vessazioni continui, schiaffi al volto, calci, pugni alla schiena, sferrati in una stanzetta isolata o durante un percorso obbligato spesso indossando i guanti, pratica utilizzata, evidentemente, per non lasciare tracce evidenti”, nonché a “perquisizioni arbitrarie e violente e a limitazioni arbitrarie dei diritti dei detenuti (ai quali, ad esempio, non viene fornito il materasso per dormire), tutti posti in essere verso i detenuti per reati a sfondo sessuale, o con vittime minorenni”. D’altronde, tra il primo gennaio e il 2 ottobre 2018, nella lista degli “eventi critici” gli infortuni “accidentali” avvenuti nel padiglione C sono stati ben 75 su un totale di 166. “Alcuni agenti del blocco C – viene scritto nella sentenza – utilizzavano quotidianamente modi brutali, quali picchiare i detenuti, dopo averli condotti in una saletta al piano di sotto, eseguire perquisizioni punitive, danneggiare effetti personali, costringere il soggetto a leggere ad alta volte il capo di imputazione per poi deriderlo e insultarlo, ovvero portarlo nei pressi della rotonda del reparto e circondarlo, anche alla presenza dell’ispettore, per intimorirlo e dissuaderlo da eventuali denunce nei loro confronti”.

Su tali episodi, secondo quanto ricostruito dal giudice, non c’erano “margini di discrezionalità” per “la qualità e la quantità dei casi segnalati”, per “la fonte da cui arrivavano”, per “la persistenza nel tempo di criticità anomale legate ad atteggiamenti prevaricatori e aggressivi verso i detenuti”, per “il numero di ‘sinistri accidentali’” e per “l’inefficacia degli strumenti messi in campo”. Eppure, l’ex direttore Domenico Minervini non ha demandato accertamenti all’autorità giudiziaria. Una scelta “consapevole”, scrive il giudice, che fu presumibilmente “dettata dal timore di dover dar conto di un’azione impopolare”. L’intenzione dell’ex numero uno del carcere sarebbe stata infatti quella di non “alterare gli equilibri con la polizia penitenziaria” e non di supportare altri “a eludere le investigazioni”. Secondo il giudice, gli indagati per le violenze ai danni dei detenuti si consideravano detentori di una “patente di ‘giustizieri morali’ violenti, nella certezza dell’impunità”. L’agente Alessandro Apostolico, alla sbarra nel giudizio in abbreviato, ha ad esempio avuto in occasione di un episodio “un comportamento aggressivo e assolutamente arbitrario che va censurato”. Ma, non emergendo “una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza, quanto più l’evidente incapacità di valutare i limiti della propria funzione anche per la scarsa preparazione a trattare con i detenuti”, è stato assolto dal reato di tortura e condannato per abuso di autorità.

[di Stefano Baudino]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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