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Dopo più di due mesi di bombardamenti nella Striscia di Gaza, di incursioni dei coloni in Cisgiordania, di attacchi contro le postazioni di Hezbollah e dei Pasdaran in Libano e Siria, dopo oltre ventimila morti palestinesi, più di cinquantamila feriti, la stragrande maggioranza delle case delle città palestinesi rase al suolo, Israele è riuscito nell’orribile intento di far dimenticare i millequattrocento morti del 7 ottobre.
La sproporzione tra quanto accaduto nell’attacco terroristico di Hamas e quanto tutt’ora avviene nel lembo di terra tra il deserto e il Mediterraneo, là al confine con un Egitto che teme la diaspora palestinese nel Sinai, è tale da costringere ad un ridimensionamento involontario della tragedia perpetrata dalle brigate jihadiste, in una conta dei morti che è di per sé stessa cinica e che, quindi, altro non rappresenta se non il frutto avvelenato dell’orrore della guerra.
Parlando alla Knesset alcuni giorni fa, Netanyahu è stato fischiato dai parenti degli ostaggi ancora in mano al movimento islamico nella Striscia. La strategia annunciata sull’operazione di terra non si è prodotta nell’invasione che si temeva avrebbe occupato definitivamente Gaza. La morte è arrivata, ed arriva ogni giorno, dal cielo con bombe così potenti che, per trovarne di uguali, si deve tornare indietro sino alla sporca guerra del Vietnam.
L’ONU, considerata praticamente da Israele una fiancheggiatrice di Hamas, soltanto per il fatto che reclama il cessate il fuoco e la fine dei combattimenti, ha calcolato che nemmeno durante la guerra americana in Afghanistan erano state sganciate così tante bombe come in quella in corso nel territorio occupato palestinese. La catastrofe umanitaria è inoccultabile: un litro di acqua al giorno per ogni abitante di Gaza e Khan Yunis, là nel centro della Striscia dove si sarebbe dovuti essere al sicuro e dove invece missili e bombe colpiscono persino la Mezzaluna Rossa.
Un litro di acqua per lavarsi, bere, cuocere quel poco di cibo che arriva col contagocce dal valico di Rafah. Quando manca l’acqua avanzano le malattie, le epidemie. E’ anche così che si decimano i popoli: sfiancandoli psicologicamente e distruggendone i corpi, mentre tutto intorno non rimangono che macerie. Il futuro di Gaza è ben al di sotto di quei cumuli di sassi, pietre, blocchi di cemento. E’ ancora più giù dei cunicoli scavati da Hamas per entrare e uscire dalla Striscia, per muoversi nella “metropolitana” sotterranea e agire indisturbatamente.
Non c’è futuro per Gaza. Non sembra esserci un futuro nemmeno per il resto della Palestina occupata dallo Stato ebraico. Se persino il Segretario generale dell’ONU viene tacciato di fiancheggiamento del nemico, è del tutto evidente che Israele rifiuta le regole del diritto internazionale e si sovradimensiona e sovraordina a qualunque principio giuridico ed etico universalmente riconosciuto. Per primi i diritti umani. Lo si vede nel momento in cui prende di mira i campi profughi proprio nel giorno di Natale e uccide oltre cento palestinesi.
Lo si rivede quando ordina alla popolazione di disporsi nel centro di Gaza e, immediatamente dopo, bombarda e stermina senza alcuna distinzione tra guerriglieri di Hamas e civili. Il conflitto si è allargato di giorno in giorno, perché Israele ha deciso di fronteggiare la minaccia che gli veniva dai gruppi islamici e che, impedendo la costituzione di uno Stato palestinese, ha alimentato senza soluzione di continuità, esacerbando gli animi, cambiando letteralmente il punto di vista di una buona parte della comunità internazionale nei suoi stessi confronti.
Un elemento che il presidente americano Biden non ha mancato di sottolineare, preoccupandosi appunto del progressivo allontanamento dai margini di confronto con Tel Aviv di importanti Stati che invece gli si erano avvicinati a partire dai “patti di Abramo“. Dunque, all’operazione genocida contro il popolo palestinese, nell’ottica di una stabilizzazione della potenza israeliana nella regione mediorientale, il governo di Netanyahu e Gantz punta a sommarvi una serie di conflitti quasi bilaterali con le formazioni islamico-jihadiste che, è bene notarlo, rimangono parte della complessità del mondo arabo.
Attaccare Hezbollah o i Pasdaran significa anche aprire un fronte con le forze libanesi e con l’Iran, ma vuol pure dire continuare nell’opera di inimicamento dell’interità di una vasto mondo che va dall’Africa fino all’Asia. La lotta per l’indipendenza palestinese dall’occupazione israeliana, in questo modo, diviene qualcosa di più del conflitto regionale che è sempre stato. Diventa un pezzetto di quella “guerra mondiale” globale che papa Francesco ha evocato spesso quando si è riferito a tante guerre in corso, apparentemente slegate le une della altre soltanto per la distanza geografica che le separa.
Ma, sappiamo, in tempi di esasperata globalizzazione dei mercati, che la molteplice diversità degli interessi che regnano nei poli di condensazione del grande capitale finanziario è anzitutto fondata su scambi di enormi quantità di denaro che passano anche (e soprattutto) dai traffici di armi e dal finanziamento di tante piccole e medie guerre locali che sono i punti di contatto di una ridefinizione della geopolitica planetaria.
Dunque, l’espandersi del conflitto israelo-palestinese è, di per sé, un tassello importante di questa rimodulazione dei poteri globali dentro specifici teatri di guerre che si sono andate sommando nel corso dei decenni. Tipico esempio ne è proprio il Medio Oriente. Alla storica contrapposizione tra Tel Aviv e OLP prima, ANP poi, si sono aggiunte le guerre tra Iran e Iraq, quelle del Golfo Persico, la guerra tra Ankara e il PKK, quella civile siriana che ha visto l’emergere del fenomeno inquietante dello Stato islamico e, non ultima, la grave questione yemenita.
Non c’è da sorprendersi se Israele approfitta della tragedia palestinese per rimettere ordine, dal suo imperialistico e criminale punto di vista, in una regione che da sempre gli è ostile. Se tracciassimo qui ed ora una linea di continuità tra i conflitti arabo-israeliani del secondo dopoguerra mondiale e quanto sta avvenendo oggi, potremmo quanto meno renderci conto che non è stato fatto, in particolare da parte israeliana, nulla, se non con il compromesso di Oslo tra Rabin e Arafat, per iniziare un cammino di pacificazione storica tra due popoli, tra molte genti.
Chi oggi teme che il conflitto si possa espandere dovrebbe riflettere sul fatto che, molto probabilmente, il conflitto si è già tanto, tanto esteso. Il controllo dello stretto del Mar Rosso da parte dei ribelli yemeniti Houthi è un fulcro di destabilizzazione davvero globale: molte rotte commerciali di grande importanza oggi deviano verso Capo di Buona Speranza, allungando i loro viaggi di due settimane, raggiungendo i porti europei circumnavigando l’Africa come ai tempi di Magellano.
Gli Stati Uniti hanno risposto a questa minaccia con una coalizione che si è data un nome importante: “Prosperity Guardian“, il guardiano, lo scudo della prosperità. Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia, Bahrein, Canada, Seychelles e Grecia hanno aderito, mentre l’Italia ufficialmente è – per così dire – un’osservatrice permanente. Anche questa operazione non fa che dimostrare la polarizzazione del conflitto globale che continuiamo a negare: Est russo contro Occidente atlantico in Ucraina; Medio Oriente, paesi arabi e africani contro sempre un Occidente di cui Israele è la base colonizzatrice.
Governo e militari israeliani sostengono, quindi, di aver attaccato chi li ha attaccati e di aver tenuto fuori, per ora, dal conflitto solo uno dei loro mortali nemici. Non lo citano apertamente, ma si tratta dell’Iran. Chiunque sa, a partire da Joe Biden, che se la guerra coinvolgesse direttamente Teheran, non si tratterebbe più di Tel Aviv contro Gaza, ma di Israele contro davvero quasi tutto il mondo arabo.
Del resto, l’assassinio del generale Sayyed Razi Mousavi, uno dei consiglieri più esperti dei Pasdaran nella Siria di Assad, dove sono – tra l’altro – presenti anche basi russe sulla costa e nell’immediato interno, ha fatto fare in queste ore un salto di pericolosissima qualità esponenziale del conflitto. Gli ayatollah non possono rimanere passivi davanti a questa aggressione che, a differenza di molte altre già portate avanti da Israele contro basi ed esponenti di Hezbollah, alleati tanto dell’Iran quanto di Hamas, è stata apertamente rivendicata da Tzahal.
Così, mentre si inasprisce l’onda omicidiaria della guerra nella Striscia di Gaza, il livello dello scontro regionale e mondiale si alza senza che siano definiti gli obiettivi stessi di questa estensione. Non si vede una fine, perché nemmeno Israele è certo di quale potrà essere la conclusione delle ostilità. Se davvero l’obiettivo fosse stato l’annientamento di Hamas, oggi si può azzardare che questo sia, se non fallito, quanto meno molto al di qua dall’essere raggiunto. Lo si sarebbe potuto raggiungere con una invasione di terra che andasse a cercare casa per casa i leader del movimento islamico?
Sempre più difficile fare ipotesi, visto che ciò cui mirava il governo israeliano era, ed è, l’annientamento della società palestinese, facendone un deserto, costringendo i milioni di abitanti della Striscia a premere verso il valico di Rafah, rimanendo intrappolati tra i bombardamenti, l’inefficienza dell’ONU, la doppiezza americana e i calcoli politici egiziani. Se questo non bastasse a suffragare la tesi dell’espansionismo di Tel Aviv nel territorio occupato palestinese, quanto accade ogni giorno in Cisgiordania dimostra che non c’è nessuna volontà di dialogo con l’ANP, tanto meno con le altre fazioni.
L’implementazione delle sovvenzioni ai coloni, per la costituzione di nuovi insediamenti, e il riconoscimento pure di quelli fino ad oggi considerati dallo stesso governo di Netanyahu come “irregolari” e, quindi, illegali, prova che la politica imperialista è la cifra di questa guerra ricominciata dopo il 7 ottobre, sull’onda della giusta indignazione per la strage compiuta da Hamas.
Adesso, dopo quella che poteva essere considerata la legittima determinazione dello Stato ebraico di reagire all’aggressione puntando ad eliminare o arrestare i comandanti jihadisti, nulla è più giustificabile, comprensibile, ammissibile. Ventimila e più morti sono il dramma di una storia che si ripete da settant’anni, di un progetto escludente, di una avversione totale contro l’ipotesi della convivenza tra israeliani e palestinesi. Si può davvero pensare di definire democratico uno Stato, un governo, che compie uno sterminio di massa come quello in corso?
Unitamente alla parola “democrazia” si sono scritte pagine di storia che, nel contempo, la negavano vistosamente. I più grandi Stati moderni, con costituzioni dove, per l’appunto, vi era la divisione dei poteri, il riconoscimento dei diritti sociali, civili, con insita una uguaglianza formale che avrebbe dovuto tradursi nella realtà in sostanziale, hanno mosso, nel nome ipocrita della democrazia, le peggiori aggressioni armate contro interi popoli. Abbiamo sempre chiamato tutto questo con due nomi tra loro complementari: colonialismo prima, imperialismo poi.
Quello israeliano è, infatti, uno Stato che muove dalla colonizzazione all’annessione di terre che la Storia e la comunità internazionale riconoscono al popolo palestinese. La guerra di oggi ha, quindi, tra gli altri suoi obiettivi il contrasto dell’egemonia arabo-islamica, anti-americana e anti-atlantica nel Medio Oriente, quanto la formazione di un Israele senza più il dramma palestinese entro i suoi ampliati confini.
L’unica voce di pace rimane quella del pontefice, oltre a quella del segretario generale dell’ONU. Due posizioni di umano buonsenso e, per questo, inascoltate nel migliore dei casi, apertamente osteggiate come nemiche della pace e della democrazia nel peggiore. La guerra durerà mesi, sostengono i vertici del governo e dell’esercito dello Stato ebraico. C’è da crederci. Perché non si fermeranno fino a che non avranno la certezza di avere reso la situazione di Gaza (e della Cisgiordania) irreversibile.
Fino a che non saranno sicuri che le condizioni trasformate della società palestinese, praticamente annientata, saranno tali da costringere la popolazione ad accettare qualunque forma di governo occupante, qualunque soluzione che contemplerà una nuova forma di colonizzazione e di oppressione. E’ inaccettabile. E per questo la guerra andrà, purtroppo, molto al di là di quelle che sono le previsioni israeliane. Non ci sarà pace in Medio Oriente ancora per tante, troppe generazioni.
MARCO SFERINI