Raramente un discorso di fine anno dal Quirinale è stato così efficace nel porre l’accento sulla contingenza stringente dei problemi che determinano la crisi plurale di questi tempi: temi civili, sociali, ambientali, economici ed anche di natura politica sono stati trattati dal Presidente della Repubblica con un taglio tutt’altro che retoricamente ecumenico, bensì evidenziando le storture principali di una Italia in cui l’unità viene sempre meno, in cui, insieme alle incertezze per il futuro si legano ovviamente quelle del presente.

In diciassette minuti e mezzo, Mattarella ha sintetizzato una enorme complessità di dinamiche in cui vivono milioni di italiani destinati, ad iniziare proprio da questi primi giorni del 2024, a vedere accresciuta la loro difficoltà nella sopravvivenza quotidiana: il pensionamento del reddito di cittadinanza e l’apertura della stagione dell’ “assegno di inclusione“, che in realtà esclude centinaia di migliaia di poveri considerati “occupabili“, non fa che dimostrare la politica liberista di un governo che va in controtendenza rispetto ai valori richiamati dal Presidente della Repubblica.

Non è una novità che tra principio costituzionale e sua letterale applicazione vi sia un divario sproporzionato rispetto alla stessa idea che possiamo avere di divergenza tra il dire e il fare, per quanto grande la si possa immaginare. Tuttavia, la distanza si è acuita, è aumentata proprio nel corso degli ultimi decenni; è successo quando l’attacco del liberismo si è rivolto, mediante i tentativi di riforma della Costituzione e, quindi, della natura stessa del parlamentarismo repubblicano, al cuore delle istituzioni e, pertanto, all’impianto sociale e civile dello Stato riemerso dalle ceneri del fascismo e della guerra.

Mattarella fa bene a ricordare che i diritti fondamentali, umani, civili e persino sociali sono antecedenti alla Repubblica stessa, alla sua Costituzione, proprio perché entrambe “riconoscono” quei fondamentali di garanzia per tutti i cittadini. Di rado si sottolinea questa evidenza che riguarda non la nascita ma la tutela delle libertà a cui siamo abituati e che sono, pertanto, costantemente in pericolo. Perché a minacciare anzitutto l’uguaglianza, come elemento e fulcro cardine della coscienza, della comunità e della politica nazionale, sono anche le controriforme che hanno avuto ed hanno in animo i governi che si succedono, ma anzitutto sono le politiche economiche.

Di pari passo, l’attacco alla Costituzione si fa più energicamente impetuoso nei momenti di crisi sociale: ecco dove si realizza la saldatura tra progetto eversivo contro l’uguaglianza formale e contro quella sostanziale. Proprio nelle congiunture internazionali che adombrano una condizione di instabilità quasi permanente, di sostanziale incertezza per le classi meno abbienti, per chi vive un disagio prolungato e si affida, mediante il voto, all’ultima speranza possibile che intravede nelle parole sperticate della peggiore propaganda populista e sovranista.

Ed ecco dove la sinistra manca di essere incisiva: nella critica senza se e senza ma di un liberismo che perverte i valori democratici, che vuole trasformare la Repubblica in uno Stato forte del capitale dove i diritti valgono soltanto se hanno un peso sulla bilancia dell’economia di mercato; dove il lavoro ha una funzione esclusivamente come variabile dipendente del e dal profitto e dove la rappresentanza sindacale viene considerata, come a fine ‘800, un accidente da trattare con indifferenza da un lato e repressione dall’altro.

C’è, anche se magari può non apparire molto, una grande dicotomia tra le parole di Mattarella e le pratiche del governo Meloni. Il Presidente, opportunamente, evita di entrare a gamba tesa nella questione delle controriforme costituzionali, di quel premierato e di quella autonomia differenziata che sono disfacimento dell’ordinamento repubblicano e lacerazione dell’unità nazionale nel nome della valorizzazione delle specificità territoriali. Anche perché la riforma Meloni-Casellati, pur negandolo nelle dichiarazioni ufficiali, comprende anche la figura presidenziale nel progetto di ridimensionamento del ruolo del Parlamento.

Mattarella, però, nel suo discorso di fine anno lambisce le questioni appena citate. Lo fa parlando di un ruolo sociale che le organizzazioni civili hanno in seno alla Repubblica: una sorta di complementarità di quelle mansioni che dovrebbero essere svolte dalla politica istituzionale e che, invece, sempre più spesso vengono demandate alla determinazione di associazioni che svolgono volontariato in svariati ambiti. Dall’assistenza dei più deboli al reinserimento sociale, dal sostegno scolastico alla cultura a tutto tondo.

Le manchevolezze del quadro politico sono il pregresso accumulato di una fase compromissoria tra governi, piegati all’interesse privato, e grandi centrali della riorganizzazione dei flussi finanziari continentali e mondiali. I pastrocchi che si sono succeduti quando si è messo mano alla riforma del sistema pensionistico o a quella del mercato del lavoro seguono esattamente la logica di un restringimento tanto dei diritti sociali quanto degli spazi di rivendicazione degli stessi. Non è possibile più pensare ad una sinistra che pretenda di essere ancora tale nel matrimonio tra accettazione delle funzioni del libero mercato e rivendicazione di una nuova stagione di giustizia sociale.

L’incompatibilità tra questi piani dovrebbe essere sempre stata evidente. Così però non è avvenuto, perché la fase governista di una socialdemocrazia tutta italiana (PDS-DS), che potesse aprire i giochi della politica alla formazione anche in Italia di un dualismo tra riformismo e alternativa radicale, è stata davvero breve e non è bastata a trasformare la politica del Paese in una vera alternanza tra forze di progresso e forze di conservazione. Ci trasciniamo appresso l’interpretazione americanista del veltronismo ancora oggi.

Un grave errore dare per scontato che al blocco delle destre si potesse opporre qualcosa di altrettanto saldo che, in realtà, metteva insieme storie così differenti da ritrovarsi unite solamente per brevi convergenze elettoralistiche che, alla fine, non avevano altro scopo se non quello di perpetuare l’arrivismo, il potere fine a sé stesso e la personalizzazione di una politica che, invece, avrebbe dovuto essere intesa ancora collettivamente e di massa. Il liberismo aveva, già dal 1989, operato in questo senso, disgregando la partecipazione, favorendo scelte diametralmente opposte, senza terze opzioni.

Il discorso di Mattarella ha, tra gli altri, avuto anche questo pregio: affiancare alla politica tutta una società civile impegnata in un miglioramento della vita popolare, diffusa, senza distinzioni alcune. Dimostrando così che non esiste solamente una disaffezione al voto (sostituito troppo spesso dalle sentenze che si esprimono con troppa facilità sui social o dalle opinioni che si esprimono in mille sondaggi) che sembra non avere un freno nella crisi della democrazia moderna. Esiste soprattutto una voglia di partecipazione attiva, diretta che a cui la Repubblica deve dare una risposta concreta.

Mattarella ci ha più che altro parlato, appunto, della Repubblica e non dello Stato. Una distinzione non di lana caprina. Perché la prima è popolo, comunità, società, aggregazione sentita, cercata e ritrovata. Il secondo è l’architettura che gli si costruisce attorno ma che non deve soffocarla, come troppe volte è accaduto. Pena il venir meno di entrambi, il collassamento non solo dell’insieme delle regole che ci tengono assieme (con tutte le difficoltà storiche ed attuali…) ma in particolar modo dell’idea stessa di nazione e di collettività.

Per dare una giusta dimensione valoriale a quanto detto dal Capo dello Stato due sere fa, basterebbe fare il confronto tra il suo discorso e quello che avrebbero potuto esprimere personalità della destra attualmente al governo. E’ sufficiente immaginarsi il Presidente del Senato al suo posto, oppure un qualche esponente dell’esecutivo per percepire immediatamente il contrasto tra una presa d’atto delle tante problematiche del Paese e dell’unità richiamata da Mattarella (quella della Repubblica anzitutto) e un inno fintamente patriottico, nazionalista, esaltatore della forza piuttosto che della pace.

Non c’è alcun dubbio sul fatto che ogni discorso presidenziale è da ciascuno di noi criticabile in senso propositivo, laddove percepiamo che manchi qualche riferimento, che sia carente di qualche espressione di attenzione verso temi sociali che sono mortificati nella maggior parte dell’anno. Ma è altresì vero che si tratta pur sempre di un discorso di meno di venti minuti e che serve come contenitore di una serie di messaggi che hanno dei referenti ben precisi. Il Presidente parla a tutti noi e, allo stesso tempo, parla alla magistratura, al governo, al parlamento.

Tuttavia, la ritualità simbolica del rivolgersi alla nazione nella notte del 31 dicembre si è sempre più assottigliata in favore di una presa in carico dei grandi problemi globali che ci attanagliano e che non risparmiano l’Italia: l’alluvione in Romagna è stata paradigmatica da questo punto di vista. La questione di Cutro lo è stata altrettanto. Così come lo sono stati i fatti ultimi riguardanti la violenza contro le donne. Non meno importante, ma su un piano decisamente più rinfrancante, anche se la lotta deve continuare, è stata la vittoria dei lavoratori della GKN in tribunale.

L’annullamento dei loro licenziamenti deve parlare al Paese più di qualunque discorso presidenziale. Perché la teorizzazione dell’inefficacia della lotta operaia e del mondo del lavoro in senso lato, è stata qui platealmente smentita. Ma adesso il passo successivo deve essere la pubblicizzazione del sito produttivo, la sua conversione in una fabbrica di interesse strategico nazionale, per garantire a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori un futuro che tutt’ora non hanno. Ecco dove la Repubblica si fonda, ma ecco anche dove lo Stato manca.

Non si fa riferimento alla magistratura, che fa il suo dovere. Semmai al governo. Alle sue inadempienze, alla sua resilienza soltanto in favore dell’impresa e mai del lavoro. Tutto questo si inserisce nel quadro dei tagli alla sanità, nella ulteriore precarizzazione delle esistenze dei più poveri, nel deperimento democratico che può aumentare sull’onda delle controriforme istituzionali e costituzionali. Va, quindi, indubbiamente fatto ricorso a tutte le energie autorganizzative delle associazioni di massa per contrastare questi disegni.

Ma non sarebbe affatto improprio, non sarebbe per niente male se anche la sinistra si riprendesse dal suo torpore e cominciasse a ripensarsi come modello politico di una socialità dispersa, atomizzata, priva di un chiaro referente nelle Camere. Senza un potenziamento partecipativo in questo senso, è difficile poter sostenere che la centralità del Parlamento è e deve essere il cuore della Repubblica. Se la disaffezione al voto dovesse aumentare, avrà un doppio effetto: di limitare il valore della democrazia rappresentativa e di favorire la centralità dell’esecutivo nei progetti presidenzialistici delle destre.

E’ evidente che la maggioranza meloniana intende sostituire alla nostra Costituzione una sua carta in cui ci si discosti il più possibile dall’impianto originario del 1948. La considererebbero anche una rivincita morale su un passato, il loro, condannato dalla Storia. Ma sarebbe, più di tutto, una vera tragedia per questa Italia così claudicante, che entra nel 2024 con tante incertezze, molte bassezze, una incommensurabile mediocrità di Stato, ma forse anche con una voglia di rivincita sociale: della Repubblica e per la Repubblica.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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