Luca Negrogno

In occasione del centenario della nascita di Giulio Maccacaro, medico tra i fondatori di Medicina Democratica, pubblichiamo la prima parte di questo saggio sulle prospettive politiche delle lotte sociali e il Servizio Sanitario Nazionale

Osservare il Servizio Sanitario Nazionale nel rapporto con le lotte sociali permette di considerarne la nascita, le funzioni e le trasformazioni all’interno di un framework complesso, capace di illuminare le dimensioni materiali, culturali e istituzionali sulle quali è maggiormente necessario intervenire per invertire la rotta della sua destrutturazione. Oggi che «il Ssn si trova al centro della più perfetta delle tempeste, la più grave dalla sua istituzione», come scrivono Chiara Giorgi e Francesco Taroni, la ricerca sul quadro storico e concettuale in cui si sono svolte le lotte necessarie per la sua istituzione, sui controversi processi della sua gestione istituzionale e sugli “assalti” reazionari orientati alla sua distruzione (così li ha recentemente indicati Nerina Dirindin – e noi accettiamo solo momentaneamente tale definizione in quanto rischia di porne l’origine esclusivamente all’esterno del sistema, oscurando quanta parte della destrutturazione reazionaria sia emersa dalle stesse contraddizioni interne della sua lacunosa gestione istituzionale) risulta necessario in primo luogo per evitare che la crisi di questa fondamentale istituzione di civiltà venga avvertita come una imponderabile fatalità, rispetto alla quale sia impossibile, inutile o insensato opporsi.

Obiettivo delle lotte attuali dovrebbe essere infatti rivitalizzare la pensabilità e la credibilità dell’ipotesi di un Servizio Sanitario Nazionale di fronte alle avversità date sia dalla modificazione delle caratteristiche strutturali del contesto sociale (epidemiologiche, demografiche, tecnologiche), sia dalla situazione geopolitica e dalle trasformazioni della governance sovranazionale – con le loro significative conseguenze sulle condizioni macroeconomiche e culturali su cui la possibilità di un servizio sanitario universalistico si basa (la caduta in disgrazia della redistribuzione della ricchezza verso il basso e della tassazione progressiva dei redditi, in primo luogo).

Osservato da una visuale che voglia coglierne l’incrocio strutturale con le lotte sociali, il Servizio Sanitario Nazionale appare come un’istituzione il cui senso è inscritto nelle logiche dell’azione pubblica e risente delle sue trasformazioni. Esso va letto cioè sul terreno di una costante dialettica tra spinte dal basso, rivolte alla socializzazione del lavoro riproduttivo, e tentativi di appropriazione privatistici, la cui interazione e il cui relativo equilibrio danno luogo a processi costituenti –- da cui derivano specifiche configurazioni istituzionali – costantemente contesi tra innovazioni progressiste e resistenze reazionarie. Come hanno messo in luce i recenti lavori di Chiara Giorgi (20212023), il modo in cui si sono evolute la struttura, le funzioni e le articolazioni del servizio sanitario stesso, le diverse composizioni delle soggettività che vi hanno agito, anche all’interno di una dialettica conflittuale, le sintesi momentanee, gli accomodamenti e le divaricazioni venute in essere tra loro, i risultati e i limiti della loro azione (nella mutevolezza dei contesti storici: vale a dire lungo le diverse fasi della sua istituzione, del suo malgoverno, dei suoi svariati tentativi di razionalizzazione) costituiscono un oggetto d’analisi che è necessario delineare unitariamente, al fine di osservare efficacemente gli attuali elementi di crisi e le possibilità di contribuire al loro superamento con l’azione politica.

Il concetto di “azione pubblica”, formulato da Giulio Moini nelle analisi sulla depoliticizzazione che attraversa le democrazie neoliberiste e sugli strumenti attraverso cui l’esercizio di poteri di definizione e regolazione dei rapporti sociali si complessifica in forme multilivello e multistakeholders dopo l’epoca del New Public Management (vale a dire dopo gli anni ‘80), se applicato in tale ambito, può fornire uno strumento di lettura delle lotte sociali capace di tenere conto della attuale difficoltà a sintetizzare le “spinte dal basso” in contenuti, identità e organizzazioni specifiche. Considerando cioè la frammentarietà e il campo variegato di posizionamenti e soggettività di cui ci occupiamo, la commistione – talvolta inestricabile – di spinte emancipatorie e privatistiche nelle innovazioni via via sostenute dai diversi soggetti in campo (partiti, movimenti, società scientifiche, imprese, assicurazioni e fondazioni, ordini professionali, tutto il complesso contesto in cui operano sia la moltitudine sia i violenti processi di espropriazione che le si contrappongono), il concetto di azione pubblica consente di vedere dove, pur nella loro contradditorietà, si annidano le possibili alleanze e le varie resistenze da superare.

In particolare utilizzando il concetto di azione pubblica sia nella lettura storica che nell’analisi dell’attualità è possibile superare i limiti che caratterizzano il  dibattito politico attuale sulla sanità, disarmato nel cogliere in modo processuale come vadano a diversificarsi e a interagire le varie forme di militanza, attivismo, voice e presenza nello spazio pubblico da parte dei soggetti collettivi che oggi portano la maggiore spinta innovativa nel campo delle questioni sanitarie – nella fase in cui ai tradizionali sindacati e partiti si aggiungono vari gruppi professionali e gruppi di utenti, organizzazioni comunitarie e associazioni – protagonisti della trasformazione dell’azione pubblica stessa negli ultimi decenni.

Questa scelta consente di prestare attenzione alle pratiche e ai discorsi dei vari soggetti sul piano concreto delle molteplici ibridazioni, contrattazioni e relazioni trasformative che si generano nell’ambiguità dei processi sociali; nel campo in cui l’azione politica, cioè, oltre a misurarsi sul terreno dell’invenzione di istituzioni, sovrappone e ibrida tra loro le questioni della sussidiarietà, del rapporto tra sociale e politico, della contraddizione tra spinte capitaliste all’innovazione razionalizzatrice e pressioni sociali per il riconoscimento delle differenze e per la riduzione delle disuguaglianze (temi oggi centrali nella declinazione della “community care”: ambivalente oggetto di varie spinte riformatrici dei sistemi sanitari). Attorno a questi ambiti la riflessione politica è caratterizzata da un dibattito spesso rozzamente polarizzato, che non ha sciolto le riserve sulle eventuali possibilità trasformative – in direzione della riqualificazione del pubblico e dell’allargamento dei diritti sociali – che si intravedono nell’azione delle nuove soggettività emergenti (come associazioni di utenti e organizzazioni comunitarie), oltre al qualificare come meri vettori di state making society making neoliberista. Questo frame teorico consente di vedere la qualità delle varie azioni che, nella loro ambivalenza, producono modificazioni istituzionali in quanto generano relazioni aperte e incidono sullo spazio politico.  Solo in tal modo diventa possibile interrogarsi sul ruolo che svolgono nel complessivo equilibrio dell’azione pubblica i nuovi soggetti collettivi come le associazioni di utenti, le organizzazioni comunitarie e le associazioni professionali (spesso portatrici di declinazioni progressiste dei concetti di community primary health care e contestualmente imbricate in forme di lobbying e di azione politica ove insistono anche fondazioni e centri studi ancorate al mondo degli interessi assicurativi e sussidiaristici), fino alla possibilità di leggere l’azione di veri e propri “nuovi corpi intermedi” risultanti da ibride articolazioni tra università, amministrazioni locali, terzo settore e fondazioni (con declinazioni che vanno da i grandi attori del volontariato cattolico fino ai progetti “autogestiti” del mutualismo di base, passando per le svariate esperienze di Forum, gruppi di pressione, Reti nazionali e sovranazionali).

Indagare la natura di queste nuove soggettività che agiscono nell’arena delle mobilitazioni sociali e politiche sulla sanità è possibile anche come riflesso di una adeguata lettura storica del processo di politicizzazione dell’azione pubblica che caratterizzò le fasi seminali del Servizio Sanitario Nazionale.

Proiettare sulle  elaborazioni dell’epoca un framework orientato a leggere la complessità dell’azione pubblica, producendo reciproci rimandi tra l’analisi dell’attualità e la ricostruzione storica, ci consente di porre una sfida necessaria tanto ai sistemi “depoliticizzati” di azione pubblica istituzionale quanto alla stessa azione politica dei nuovi “corpi intermedi” e delle varie soggettività che traggono la loro essenza dalla attuale configurazione della mediazione democratica. Si tratta cioè di considerare come interlocutori e target dell’azione politica quel complesso e variegato mondo che va dagli organi professionali ai movimenti di utenti, dai partiti e i sindacati fino al terzo settore, alle fondazioni e al variegato mondo delle ibridazioni comunitario-istituzionali che insistono nel mondo del welfare – che oggi si dibattono nell’incertezza tra l’opportunità di un’ulteriore torsione neoliberale (esito inevitabile della scelta a vantaggio delle strategie corporative, particolaristiche e privatistiche sempre disponibili) e quella di una decisa sterzata in direzione della ricostruzione del pubblico. Solo sulla base di una lettura politica di questo tipo è possibile svolgere una riflessione adeguata sulle attuali strategie di movimento, alla ricerca di modi efficaci per incidere sull’azione pubblica stessa. In estrema sintesi: posto che il fine politico è chiaro e riguarda la possibilità di esistenza di un Servizio Sanitario Nazionale, bisogna dotarsi di strumenti adeguati a riflettere sulle nostre strategie, le nostre tattiche e le nostre interlocuzioni.

LA STORIA DELLE LOTTE PER IL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE E LA “POLITICA DELLE ALLEANZE”

Chiara Giorgi e Francesco Taroni hanno dato un’utile indicazione sulla natura delle lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale: esse sono state, a partire dai primi anni della Repubblica fino all’approvazione della legge 833 del 1978, inscindibili da una “politica delle alleanze” in cui la componente di movimento – impegnato a rivendicarne e a usarne la dimensione redistributiva sul terreno delle lotte che avvenivano nei luoghi di lavoro e di vita – si saldò a quella tecnica della messa in discussione dell3 professionist3 e a quella istituzionale costituita dagli esperimenti di pianificazione territoriale da parte delle amministrazioni locali progressiste. La critica andò cioè di pari passo con le sperimentazioni amministrative e con le elaborazioni scientifiche: una convergenza di tensioni e fenomeni che permise la strutturazione della più grande conquista di civiltà democratica che abbia caratterizzato il nostro paese.

Scrivono ancora Giorgi e Taroni parlando del SSN: «con ogni evidenza, esso fu espressione di una forte pressione dal basso, delle aspirazioni trasformative del tessuto sociale e degli assetti istituzionali, di pratiche politiche e partecipative inedite, di un fermento intellettuale di ampio respiro. Di qui le peculiari origini «politiche» dell’assetto universalista, pubblico e decentrato del Ssn, il quale rispose a una visione della salute come fatto sociale e politico, a un’impostazione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, alla centralità del momento preventivo e del dato qualitativo, a una organizzazione territoriale, a un impegno diffuso capace di investire anche le questioni legate alle condizioni di lavoro e alla tutela dell’ambiente». Oggi, dopo un lungo trentennio caratterizzato dalla decadenza del concetto di «rischio di popolazione» (vale a dire del legame ontologico ed epistemologico necessario tra salute e condizioni di vita soggettivamente vissute), sintomo di un più generale affermarsi di categorie individualistiche e governamentali nello stesso discorso scientifico della medicina e della sanità pubblica, la prevenzione risulta richiusa in una declinazione solo individuale, focalizzata sui comportamenti soggettivi. Come la sindemia di Covid 19 ha mostrato, l’approccio individualistico attuale risulta incapace di indagare i complessi rapporti tra forme di vita, esposizione al rischio, costruzione collettiva della capacità di “coping” (o si potrebbe dire controllo popolare) rispetto alle nocività. Per questo, concludono l3 due autor3, la ricostruzione di una forma universalistica di sanità pubblica è inscindibile da un più generale processo di «riappropriazione democratica delle condizioni di vita e delle forme di produzione e di socializzazione della ricchezza». Detto in altri termini, «la storia della nascita del Ssn dimostra che gli esperti non bastano»: nella fase attuale in cui la auspicata riforma della sanità territoriale – in assenza di un più generale dibattito sulla ricostruzione di forme di fiscalità progressiva che ricostruiscano le condizioni base dell’universalismo – rischia di tradursi in un mero conteggio tecnicistico di articolazioni di governance e centrali operative, l3 autor3 ci spingono a ricordare che «lo stesso rilancio di un servizio sanitario pubblico, universalista, egualitario, può dipendere da una espansione di quelle istituzioni e servizi collettivi del welfare che sono sia oggetto delle politiche di austerità, sia, tuttavia, terreni cruciali per prefigurare forme più ampie e alternative di organizzazione sociale ed economica». Di conseguenza la possibilità di un rilancio del Servizio Sanitario Nazionale «può infine dipendere da una nuova politica delle alleanze, da una inedita combinazione di lotte e mobilitazioni, da una nuova stagione di diritti sociali, dalla soddisfazione di antichi e nuovi bisogni, da una riscrittura universale e democratica del welfare medesimo».

Come scrive altrove Chiara Giorgi, «l’ideazione e la nascita del SSN avvalorarono una particolare azione combinata derivante dalle spinte provenienti dalla società, da una inedita politica di alleanze, dal rinnovamento del sistema istituzionale, dal processo di disgelo costituzionale, dalle pressioni del movimento sindacale e dei partiti della sinistra». Infatti «le vicissitudini che portarono alla riforma sanitaria e all’istituzione di quest’ultimo furono il frutto di una particolare sinergia realizzatasi – già a monte dell’approvazione della legge del 1978 – tra le conquiste operaie e sindacali in fabbrica, l’elaborazione delle linee generali della riforma, le pressioni e mobilitazioni portate avanti dalle varie realtà della stagione dei movimenti, i provvedimenti di pianificazione regionale sanitaria, rafforzati dall’istituzione delle Regioni. La stessa iniziativa autonoma di molte Regioni prima della riforma costituì un’anticipazione di molte delle soluzioni adottate dopo la legge n. 833».

Una particolare sensibilità e articolazione tra le lotte dei movimenti sociali di base, le elaborazioni delle nuove soggettività di movimento e le sperimentazioni di vari segmenti istituzionali facilitò questa sinergia: sempre secondo Chiara Giorgi, «i conflitti sorti in quel periodo storico attorno al welfare, le sperimentazioni istituzionali e territoriali di allora riuscirono a prospettarne un nuovo modello, opposto a quello fino ad allora presente, caratterizzato da gravi limiti di copertura, logiche burocratiche, tratti corporativi, occupazionali e discrezionali».

Una particolare congiunzione tra diverse dinamiche contribuì a crearne le premesse: la lotta femminista e del movimento di psichiatria critica, la lunga stagione delle lotte contro la nocività in fabbrica, cifra essenziale del “lungo ‘68” italiano, e la loro successiva articolazione al complesso di temi espresso dalla triade fabbrica-società-territorio, la dialettica esistente tra organizzazioni sindacali e gruppi di base, operanti nelle fabbriche e nei quartieri, la disponibilità di alcune amministrazioni locali a sperimentare articolazioni innovative avanzate in un quadro normativo del quale da lungo tempo si percepiva l‘inadeguatezza, la contestuale disponibilità degli organi statali e di varie forze parlamentari a realizzare forme di razionalizzazione del sistema sanitario esistente, contribuirono a rendere possibile una convergenza di orientamenti e di azioni verso una «riforma difficile da evitare» (Berlinguer).

Se l’emergere delle soggettività e delle pratiche femministe aveva mostrato l’indissolubilità di forme di rivendicazione e di azione autogestionaria – costruendo veri e propri ambiti di servizio, direttamente riconnessi ai nuovi bisogni emergenti e alla lettura politica di essi – la pratica del movimento di psichiatria critica aveva sostenuto l’indissolubilità di scienza e potere, legando alla sperimentazione pratica di alternative istituzionali la credibilità della critica teorica; allo stesso tempo, l’incontro in fabbrica tra autonoma soggettività operaia e tecnici della medicina, della scienza e della psicologia critiche, pronti a mettere in questione “l’uso di classe” della propria disciplina, aveva aperto spazi di partecipazione diretta collettiva immediatamente implicati nella realizzazione di “politiche dal basso”. Come spiegano Giorgi e Pavan, «si trattò insomma di una sorta di doppio gesto. Da un lato, un gesto teso a de-istituzionalizzare le strutture vigenti; dall’altro, un gesto volto a inventare nuove istituzioni capaci di generare «welfare altro», sottratto alle logiche della mercificazione, della burocratizzazione, della delega, del clientelismo, dell’inerzia, della compartimentazione, dell’irresponsabilità».

In questo gesto si realizzò la convergenza tra il posizionamento critico e autocritico delle soggettività tecniche, la contrapposizione dal basso che veniva dalle fabbriche e dai quartieri e la capacità delle organizzazioni politiche di sperimentare sintesi pratiche tra queste diverse spinte.

Tale convergenza si nutriva di dialettica critica tra diverse soggettività e diversi posizionamenti. A rileggere oggi i documenti di quella stagione è evidente che, nella grande varietà di forze e soggettività in gioco, si sviluppava un dibattito serrato, caratterizzato da toni fortemente critici. Prendiamo come esempio il rapporto tra comitati di fabbrica legati alla sinistra extraparlamentare e organizzazioni sindacali: recentemente Lorenzo Feltrin nella nota introduttiva alla ripubblicazione di “Contro la nocività: Operaismo ed ecologia nel Lungo ‘68”, opuscolo del Comitato Politico degli Operai di Porto Marghera presentato il 28 febbraio 1971, ha avuto modo di considerare che: «la lettura del ruolo dei sindacati e delle riforme proposta da “Contro la nocività” appare col senno di poi come eccessivamente unilaterale, tant’è vero che oggi ci troviamo a difendere quel che resta del sistema di sanità pubblica a vocazione universale generato dalle lotte degli anni ’70. Anche la critica al “modello operaio” sviluppato da Ivar Oddone e i suoi collaboratori alla Camera del Lavoro di Torino è ingenerosa, nella misura in cui non riconosce il debito dello stesso gruppo operaista di Porto Marghera nei confronti dell’esperienza torinese. Esperienza per molti versi straordinaria, che ebbe poi significativi riscontri in America Latina, influenzando importanti lavori come La salud en la fábrica (Era, 1989) di Asa Cristina Laurell e Mariano Noriega. Ad ogni modo, l’unilateralismo di “Contro la nocività” dev’essere visto alla luce della competizione del gruppo con i sindacati in un contesto di forte assertività dell’autonomia operaia, e non come un dogma con pretese di universalità.» Lotte dei comitati di base, organizzazioni della sinistra istituzionale e sindacati confederali, per quanto in un rapporto dialettico, nutrivano reciprocamente la loro azione, in un processo il cui esito complessivo fu capace di tenere insieme deistituzionalizzazione e istituzione di nuove articolazioni pubbliche. In questa particolare convergenza, ciascuna soggettività implicata agiva entro un posizionamento ambivalente, fluidificato dalla qualità della mobilitazione sociale e disponibile a considerare la novità delle possibili sinergie (anche nell’inevitabilità di scontri e rotture). Il tema stesso della salute e della sua articolazione istituzionale come diritto esigibile (quindi come forma di redistribuzione di plusvalore o di freno imposto a monte alla sua estrazione) e ambito di politiche pubbliche favoriva la articolazione variabile di più livelli di elaborazione, in quanto particolare punto di congiunzione tra la generalità (dello scontro di classe, come si diceva allora, quindi in generale dei temi relativi all’esistenza, alle relazioni sociali, all’ecologia, all’organizzazione della vita in comune) e lo specifico (della scienza medica, dell’organizzazione sanitaria, della oggettivazione tecnica della salute e della malattia).

D’altra parte è importante considerare che le lotte per l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale hanno coinciso con una fase storica caratterizzata della più ampia ambivalenza tra pressione popolare per l’estensione dei diritti e contrazione politica degli spazi di redistribuzione economica – tanto che vari osservatori hanno parlato di una particolarità degli anni ’70 italiani.

Giorgi e Pavan scrivono che «la stessa peculiarità del caso italiano, per cui alcune delle riforme in materia di welfare si realizzarono quando altrove in Europa era cominciata già la fase di riorganizzazione del capitalismo in chiave neoliberale e il modello socialdemocratico entrava in un lungo processo di revisione, conferma la peculiarità del laboratorio italiano degli anni Settanta». Tale ambivalenza veniva letta e in vari modi assunta, anche come finestra politica di possibilità, da ciascuno dei principali soggetti promotori di quella epocale conquista di civiltà. L’oscillazione, nella quale dovevano dibattersi le politiche della sinistra istituzionale, tra innovazione a controllo capitalista e lotta per la realizzazione di riforme radicali orientate alla giustizia sociale era stata efficacemente notata da Giulio Maccacaro nel 1976, quando riconosceva che «l’azione delle organizzazioni della sinistra (pensiamo soprattutto a PCI, CGIL, CISL)» aveva negli anni ‘70 «una caratteristica duplice: 1) da un lato vi è la tendenza a inserirsi, come forza promovente, all’interno dei piani capitalistici per la riforma sanitaria; 2) da un altro lato vi è la spinta a raccogliere e mobilitare esigenze e lotte, dentro e fuori la fabbrica, tali da accrescere, sul tema della salute, la maturità politica e la forza del proletariato, e a fare uscire le rivendicazioni di base dai limiti possibili ai piani di ristrutturazione capitalista». In questa ambivalenza si è giocata una dialettica generale di posizionamenti, critiche, scambi, assemblaggi, da cui derivano le fondamentali conquiste istituzionali e sociali della nostra storia; tornare a leggerne le elaborazioni è necessario per riflettere sulle strategie politiche di oggi.

LE FASI SUCCESSIVE: DISAPPLICAZIONE, DISARTICOLAZIONE, DELEGITTIMAZIONE DELLA SANITÀ PUBBLICA

Se già Medicina Democratica aveva criticato le fasi finali della elaborazione della legge 833 denunciandone la natura di “non riforma” per via dello scarso peso attribuito alla prevenzione, per «la negazione di una reale partecipazione dal basso» (Giorgi, Pavan) e per un’organizzazione che complessivamente comportava «la pubblicizzazione della spesa e non dei servizi e la privatizzazione degli utili e non dei costi», parte del movimento promotore della legge percepiva chiaramente quanto «la riforma segnasse l’inizio di un altrettanto lungo e complesso percorso collettivo (…) volto a esigerne l’applicazione integrale, a prevenire, più che curare, le malattie, a scardinare il vecchio sistema», di cui erano già evidenti le resistenze corporativistiche, tecnicistiche, privatistiche. Se gli anni ’80 hanno visto la larga inadeguatezza dei Governi nel realizzare i veri principi della riforma (tre questioni su tutte: l’inadeguato sviluppo di forme di partecipazione dal basso nella gestione delle Unità Sanitarie Locali; l’insufficiente programmazione – e conseguente lettura razionale dei bisogni e della spesa – esercitata dai ministeri; la mancata armonizzazione tra diversi territori nazionali e tra i principi della legge e i programmi formativi universitari), è con gli anni ‘90 che anche sul piano istituzionale inizia lo smantellamento di quella istituzione inventata, con una vera e propria “controriforma”.

Seguiamo la narrazione di Chiara Giorgi sugli effetti della legge n. 502 del 30 dicembre 1992 promossa dal Ministro della Salute De Lorenzo: «l’aziendalizzazione della gestione trasformò le USL da organizzazioni gestite dai Comuni ad aziende pubbliche controllate dalle Regioni (ASL) e previde la possibilità di scorporare gli ospedali dalla gestione diretta delle ASL, costituendoli in Aziende ospedaliere autonome, permettendo così la realizzazione della separazione fra compratori e produttori di prestazioni. La Lombardia (e non solo) fece largamente ricorso a questo strumento per caratterizzare la propria identità in competizione con le altre Regioni e con il Governo centrale, minando alcuni dei principi fondamentali della legge del 1978. A sua volta, la nuova regionalizzazione del sistema venne motivata sulla base dei principi del federalismo, ma ebbe l’effetto di irrigidire il vincolo di bilancio delle Regioni rispetto alla spesa sanitaria, in quanto trasferì loro la responsabilità di far fronte con risorse proprie a eventuali eccessi di spesa oltre ai trasferimenti statali, in cambio di più ampie competenze sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi». Se già «il decreto correttivo Ciampi-Garavaglia emanato nel 1993 eliminò l’apertura alla privatizzazione del finanziamento», la stagione dei governi di centro-sinistra tentò di correggere le più gravi distorsioni della prima controriforma, con esiti sui quali ancora oggi la lettura non è univoca. Sempre secondo Giorgi «la riforma introdotta da Rosy Bindi (…) segnò una discontinuità rispetto ai provvedimenti del 1992 e si inserì in un contesto di forte scontro tra sostenitori di privatizzazione della sanità (tradotta nella possibilità per i cittadini di uscire dal SSN, nello sviluppo di fondi sanitari integrativi, nella privatizzazione degli ospedali, nella concorrenza tra fornitori pubblici e privati) e difensori del SSN», tuttavia le presenza di forti spinte (anche nel centro-sinistra) subalterne all’egemonia neoliberista, i cambiamenti nella governance (soprattutto nell’ambito del rapporto centro-periferia) e l’assenza di una relazione articolata con i movimenti di base su questo tema resero i risultati di quella stagione parziali e insufficienti.

In particolare nell’ambito dei rapporti tra centro e regioni i problemi erano sorti a partire dagli anni ‘80, quando era diventata evidente la «”discrasia” esistente tra un accentramento delle entrate e un decentramento delle spese» (Taroni citato da Giorgi). Sempre secondo Chiara Giorgi, a partire dagli anni ‘80 si affermò «la progressiva dissociazione tra politiche nazionali e politiche regionali, la tardissima approvazione del Piano sanitario nazionale, che predisposto nel 1979 avverrà solo nel 1994, la conseguente mancanza di un coordinamento e di indirizzi nazionali, la “sfasatura” tra il cammino espansivo intrapreso dalle Regioni e le subentrate rigide politiche di contenimento della spesa pubblica e sociale. I rapporti tra livello nazionale e regionale rimasero dunque problematici anche dal punto di vista del controllo della spesa sanitaria, realizzato soprattutto con le leggi di bilancio annuali del governo nazionale, senza un coordinamento sistematico con le Regioni».

Le Regioni, tra cui c’erano stati alcuni importanti centri propulsori della riforma, che avevano elaborato leggi locali innovative prima della stessa 833, iniziarono a essere protagoniste di forme di allocazione di risorse rispondenti a principi produttivistici e particolaristici; dai “laboratori di democrazia” (Giorgi) degli anni ‘70 si passò a modelli di gestione sempre più computazionali e oggettivistici, accentuati dal corporativismo professionale e, in tempi più recenti, dalla sproporzionata crescita territoriale delle aziende sanitarie, «sotto la pressione del neo-centralismo regionale e dell’autonomia aziendale» affermatesi negli anni ‘90. Come spiega Francesco Taroni ne “Il volo del calabrone. 40 anni di Servizio sanitario nazionale» (Il Pensiero scientifico, Roma, 2019), gli interventi nazionali (come la creazione della categoria dei servizi «ad elevata integrazione sociale e sanitaria» della riforma Bindi del 1999 e la successiva legge n. 328/2000 «per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali»), e le iniziative regionali per potenziare il ruolo dei distretti sanitari «sono nel tempo risultate efficaci»: alla gestione manageriale delle risorse facevano infatti da contraltare sempre più gravemente la dissoluzione del momento preventivo e della sua articolazione territoriale, il prestazionismo basato sulla remunerazione, l’enfasi sugli ospedali di grandi dimensioni. Con l’aggravarsi della crisi del 2008, il definanziamento pubblico e il crescente peso (anche regolativo) del privato, queste tendenze hanno raggiunto un livello di complessiva insostenibilità, emersa in particolare durante il biennio pandemico.

Complessivamente si può dire con Giovanni Berlinguer che nel decennio immediatamente successivo all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale «i Governi» non furono «all’altezza delle leggi che il Parlamento approva»; nei tre decenni seguenti, contestualmente con un contraccolpo che attraversò tutto l’Occidente, «le elaborazioni progressiste in campo internazionale, culminate con le dichiarazioni egualitarie e sociali di Alma Ata (1978) sottoscritte da OMS e Unicef, furono immediatamente negate da una reazione che investì il mondo istituzionale e trovò immediata alleanza in gran parte dell’università, la quale era rimasta in tutto il mondo un ambito di resistenza al cambiamento, pronto a farsi centro della reazione». Come scrive nel 1988 Franca Ongaro Basaglia (in  “Tutela, diritti e disuguaglianza dei bisogni”, di Franca Ongaro Basaglia, in “Psichiatria Tossicodipendenze Perizia. Ricerche su forme di tutela, diritti, modelli di servizio”, a cura di Maria Grazia Giannichedda e Franca Ongaro Basaglia, Franco Angeli, Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato, 1987), «i movimenti che, in Italia, avevano incominciato, negli anni ‘70, a produrre nuovi saperi collettivi sul terreno della salute (quello dei lavoratori nelle fabbriche e quello delle donne) non hanno superato la fase di espansione del movimento e non hanno resistito al riflusso, prevalentemente perché i pochi tecnici che operavano al loro interno, da ruoli di scarso potere, non sono riusciti a far breccia nell’assetto istituzionale della medicina, con il risultato che queste critiche e queste esperienze si riducono spesso a petizioni di principio che non trovano realizzazione pratica (vedi il controllo ambientale come prevenzione delle malattie da lavoro che ancora si accetta di monetizzare, o le rivendicazioni da parte delle donne del fatto che aborto e parto non sono malattie ma esperienze di vita, da vivere come tali). Sono convinta, invece, che se non si entra in conflitto con questa cultura, così come è stato fatto nell’ambito della psichiatria, e non si fa breccia al suo interno, essa risulterà sempre vincente nella definizione di salute e malattia». Negli stessi anni così si esprime Marcello Cini (in “Attualità dell’opera e del pensiero di Giulio A. Maccacaro. Costruzione della scienza del lavoro della salute dell’ambiente salubre”, a cura del Centro per la Salute “Giulio A. Maccacaro” – Castellanza, 1988,Cooperativa Centro per la Salute “Giulio A. Maccacaro” s.r.l. editore), considerando i limiti nell’applicazione delle riforme degli anni ‘70: «gli sforzi di trasferire all’esterno le conoscenze, le situazioni, le esperienze dei gruppi operai più avanzati sono falliti non soltanto per gli sfavorevoli rapporti di forza sul terreno dello scontro sociale e politico, ma anche per gravi difetti di comprensione di quali siano i concreti canali di mediazione fra le spinte attive nel tessuto sociale le sedi che assicurano la produzione e la socializzazione del sapere tecnico-scientifico. Detto in altre parole, non è che fosse sbagliata l’intuizione che la scienza e la tecnologia sono attività le cui regole, finalità e modalità sono contrattate nel terreno sociale. Era invece sbagliata l’identificazione degli interlocutori, la scelta delle procedure, l’oggetto della contrattazione. Insomma, non avevamo una teoria affidabile della non-neutralità della scienza».

Disapplicazione dei principi ispiratori, disarticolazione delle strutture di governo, delegittimazione nei rapporti tra istituzioni e popolazione hanno contribuito a ridurre il valore della Sanità Pubblica nella consapevolezza collettiva, oltre che nei programmi dei partiti e nelle azioni delle amministrazioni. Il fatto che i recenti anni pandemici non abbiano trovato una risposta adeguata in termini di mobilitazione politica e sociale sta anche a dimostrare la scarsa dimestichezza con una tematica che non è più oggetto di formulazione collettiva, di cui non si colgono più (se non in modo confuso o reazionario) la natura pubblica e le sue implicazioni di possibile strumento politico per ridefinire la qualità e l’orientamento della produzione, delle relazioni, della vita in comune tra le specie e con l’ecosistema. ù

Affrontare da questo punto di vista un’analisi degli attuali problemi su cui intervenire può portarci a riformulare possibili strategie di risposta politica, cogliendo i limiti delle letture esistenti nelle possibili mobilitazioni a sostegno del Servizio Sanitario Nazionale.

LE DISTORSIONI DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE EMERSE DALLA SINDEMIA

Nell’analisi delle attuali condizioni del Servizio Sanitario Nazionale Francesca Coin (in “Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita”, 2023, Einaudi) ha recentemente mostrato come le condizioni di disinvestimento progettuale, organizzativo e di senso sulla sanità pubblica si siano tradotte in un complessivo processo espulsivo autogestito dal personale stesso, descritto dall’autrice all’interno di quel più generale movimento definito delle “grandi dimissioni”. Come scrive in un commento al libro Cristina Morini, «nel caso del settore sanitario, il vettore dell’immedesimazione, il professionalismo, il vincolo etico, sacrificale, “a fare il bene” che impregna molti mestieri connessi alla cura non bastano più a reggere burnout, stress lavorativo, conflitto tra lavoro e vita privata. La pandemia ha scoperchiato la situazione di forte crisi attraversata dalla sanità pubblica». Francesca Coin identifica il disagio nel mondo del lavoro e la dismissione delle forme di regolazione e sicurezza collettive ad esso storicamente legate come parte di un più globale piano neoliberista di cui oggi, in assenza di conflitto, cogliamo l’inveramento “solo” al livello soggettivo, sotto forma di malessere esistenziale e relazionale. Per quanto tale concetto sia efficace soprattutto come metafora e come sintesi evocativa – capace anche di restituire l’agency delle soggettività coinvolte – e non come preciso indicatore di un referente oggettivo, la narrazione delle “grandi dimissioni in uscita dal Servizio Sanitario Nazionale” è una delle più potenti restituzioni oggi disponibili della crisi della sanità pubblica: l’approccio di Francesca Coin ci sembra particolarmente importante perché, in mancanza di contesti di elaborazione collettiva e politica di questi temi – che ne consentano anche una sensata misurazione oggettiva – ci permette di focalizzare le dimensioni della crisi laddove oggi è insieme maggiormente possibile e urgente intervenire, vale a dire nella dimensione delle soggettività che ne attraversano il campo. Consapevoli della necessità di ricostruire un piano di mobilitazione sociale e politica per difendere e rilanciare l’idea e la pratica di una sanità pubblica universale, svolgeremo qui un’analisi delle debolezze che oggi con tale necessità si scontrano. Come scrive nell’esergo di uno dei paragrafi della sezione dedicata alla sanità Nye Bevan citato da Francesca Coin, «il Servizio Sanitario Nazionale durerà finché ci saranno persone disposte a lottare per esso»: proviamo qui ad approfondire la sua intuizione, di uno sguardo “soggettivistico” sulla crisi della sanità, collegandola anche all’ambito delle debolezze politiche che oggi mettono a rischio la sua possibilità di esistere.

Guido Giarelli e Giovanna Vicarelli (Giarelli, Vicarelli 2022, “Libro Bianco. Il servizio sanitario nazionale e la pandemia da Covid 19”, FrancoAngeli) hanno messo in evidenza come la condizione di crisi del servizio sanitario nazionale abbia, oltre a cause strutturali legate ad un preciso disinvestimento politico ed economico, una dimensione culturale e organizzativa che si può leggere attraverso l’opacità delle forme di regolazione, delle prassi e della qualità della loro organizzazione. A partire dalla manifesta insufficienza dei Livelli Essenziali di Assistenza come strumento di tendenziale uniformazione delle prestazioni esigibili – uno dei fenomeni attraverso cui si possono leggere la vaghezza e svuotamento della nozione di “Stato regolatore” in un contesto in cui dominano diversi modelli organizzativi (con una infinita varietà dei processi di integrazione sociosanitaria e la più ampia diversificazione dei rapporti tra ospedale territorio) – l3 due autor3 notano che la sfida attuale, consistente nel legare i processi di territorializzazione della sanità a dimensioni di universalismo, desanitarizzazione dei bisogni sociali, riequilibrio del rapporto ospedale/territorio, sviluppo della promozione della salute, richiede di mettere mano alle distorsioni fondamentali del Servizio. Tali distorsioni (“distributiva”, “culturale”, “strutturale” e “funzionale”) dovrebbero essere affrontate attraverso una serie di linee strategiche: «la focalizzazione sulla salute collettiva, l’ambiente e la promozione della salute; la centralità del territorio e della comunità in una logica di prossimità delle cure; l’integrazione dell’ospedale in una rete modulare di cure; l’innovazione digitale quale strumento di miglioramento della qualità delle cure e di governance sanitaria; un ampliamento della formazione dei professionisti sanitari nella direzione di una costellazione pluralistica di saperi in una prospettiva interdisciplinare e interprofessionale» (Giarelli, Vicarelli 2022).

Non è possibile cioè affrontare il tema delle disuguaglianze di salute – la più evidente negazione attuale dell’universalismo – senza un deciso cambio di marcia capace di saldare uguaglianza, equità e personalizzazione, in modo da costruire «politiche intervento che valutino la posizione degli individui all’interno della gerarchia  sociale», per sostituire una personalizzazione attenta ai determinanti sociali di salute a un «approccio quantitativo e statistico» standardizzante – che ha già mostrato notevolissimi limiti ma che continua a essere corroborato dalle attuali forme di aziendalizzazione.

Su un tema che riteniamo centrale, quello dell’orientamento patogenico del servizio sanitario nazionale, le parole di Giarelli e Vicarelli consentono di «comprendere anche le ragioni ancora molto forti della resistenza al suo superamento. Le caratteristiche principali di tale orientamento sono fondamentalmente tre: 1) una ontologizzazione della malattia, reificata quale oggetto astratto e distaccata dall’esperienza vissuta del malato, scissa dalla sua corporeità; 2) una esternalizzazione della malattia, concepita come risultante dall’attacco di un’entità esterna all’individuo; 3) una individualizzazione della  malattia, considerata quale problema di natura prettamente del singolo individuo con scarsa o nessuna connessione con l’ambiente sociale e naturale esterno». Secondo le parole dell3 autor3, solo pratiche di partecipazione, empowerment, community care, che mettano in primo piano la resilienza collettiva e il capitale sociale portati dall’associazionismo della cittadinanza, se prese in considerazione come fondamentale interlocutore della governance sanitaria, possono costituire uno strumento efficace per un suo superamento, verso la desanitarizzazione dei bisogni.

Sullo stesso tema Gavino Maciocco, focalizzandosi sull’obiettivo della strutturazione di un sistema appropriato di cure primarie, ha mostrato l’indissolubile legame che tiene insieme la formazione dell3 professionist3 e la qualità delle politiche. «Cure primarie significa infatti capacità di cogliere i bisogni di salute del territorio, interagendo con soggettività in un sistema complesso di relazioni. (…) Le scelte di politica sanitaria, la preparazione e la dedizione dei professionisti» sono il principale veicolo di innovazioni organizzative capaci di migliorare la possibilità di intercettare i bisogni. Sono necessari processi di “integrazione orizzontale”, ad esempio team multiprofessionali delle cure primarie, e di «integrazione verticale tra differenti livelli di cura (cure primarie e cure specialistiche) e anche tra differenti livelli istituzionali, ad esempio [con] il coinvolgimento dei Comuni, per garantire la qualità e la continuità dell’assistenza».

Maciocco individua anche due importanti sacche di resistenza a questo tipo di innovazioni: l’università e la logica aziendale. «Anche la formazione universitaria, troppo focalizzata sullo studio delle singole malattie e poco interessata a occuparsi dei problemi delle persone e della complessità dei percorsi assistenziali, rappresenta un serio ostacolo all’innovazione delle cure primarie. In Italia la situazione è ulteriormente aggravata a causa della mancanza – caso quasi unico al mondo – della disciplina accademica della Medicina di famiglia (…)».

Le resistenze ai processi di integrazione e di proattività e all’innovazione delle cure primarie provengono, infine, dal mercato. Il mondo del privato for profit (e anche del privato low profit, ossia del privato sociale) vede nella cronicità una ghiotta occasione di business. Ma è un mondo composto da una miriade di gestori e di erogatori di prestazioni, ognuno dei quali interessato a realizzare la propria parte di utile, dove i concetti di presa in carico e di integrazione sono pressoché sconosciuti.“ Ancora una volta si tratta di andare ad approfondire e ad articolare le prassi e le culture dell’universalismo, in questo caso valorizzando la prossimità come luogo di contrasto alle disuguaglianze come unico veicolo di un reale orientamento all’uguaglianza sostanziale.

Non basta dunque difendere il pubblico ma è necessario innovare le sue logiche, anche osservandone le distorsioni, le insufficienze, le dimensioni di privatismo entrate nel cuore della sua struttura.

Neri e Bifulco hanno mostrato come la sanità sia oggi permeata «profondamente da logiche di mercato – di recente anche nella loro dimensione finanziaria – che ne “mettono a valore”, come si dice oggi, i potenziali di redditività a scapito della sua natura, appunto, di servizio fondamentale» dopo che «in base ai principi del New Public Management, all’interno delle organizzazioni sanitarie pubbliche [si] sono applicati criteri e metodi di gestione derivanti dalle imprese private». Per esempio, «l’Italia è stata tra i primi paesi europei ad adottare, tra il 1995 e il 1998, un sistema di remunerazione tariffaria associato ai Drg, che valorizza la produzione “core” dell’attività ospedaliera, cioè i ricoveri, e rende meno remunerative, di fatto penalizzandole, le attività preventive e quelle con una maggior componente sociale e territoriale anziché ospedaliera». Per quanto il sistema di remunerazione sia stato accolto negli anni ‘90 anche da tecnici di sinistra come strumento all’interno di un complessivo tentativo per razionalizzare, fornire strumenti per sottoporre a controllo pubblico, decostruire privilegi e baronie, tale «sforzo ha mostrato chiari limiti» e le logiche dominanti di “market-making” cui ha dato luogo si possono ormai leggere anche nell’analisi di diversi modelli regionali di sistemi sanitari – anche quelli che hanno preferito la “programmazione negoziata” (come Toscana ed Emilia Romagna) alla costruzione dei “quasi mercati” (Lombardia).

Il tema dell’aziendalizzazione è uno di quelli che richiede maggiore attenzione analitica per gli esiti ambivalenti che ha prodotto «anche nelle Regioni più “virtuose”, dovuti prima di tutto alla compresenza di logiche di azione contraddittorie all’interno delle organizzazioni sanitarie, dove le scelte sono guidate non solo da fattori economici, ma anche politici e sociali. E tuttavia, la logica dell’aziendalizzazione ha avuto un impatto molto forte sul sistema sanitario, con effetti positivi e negativi». In primo luogo la «ricerca di economie di scala nella produzione di servizi, e (…) un’elevata contrazione dei posti letto ospedalieri, [che ha] spesso sguarnito le zone di provincia e le cosiddette “aree interne”, creando diseguaglianze tra i cittadini, ma ha anche privato queste aree di punti di riferimento importanti per l’assistenza sanitaria» anche perchè la “razionalizzazione” prevista non è stata adeguatamente supportata «da un sistema efficace di cure primarie». In generale, contrariamente a quanto sostengono alcuni di coloro che hanno provato ad applicarne i principi regolatori da essa forniti al sistema sanitario, «l’aziendalizzazione ha finito per privilegiare un modello organizzativo basato sulla produzione di prestazioni, portato quindi a concentrarsi sulla malattia e non tanto sulla prevenzione e promozione della salute», anche incidendo negativamente sul «rapporto fra ospedale e territorio».

Neri e Bifulco ricordano che «la territorializzazione è il cuore dell’approccio integrato alla salute sancito dalla riforma del 1978. In quella cornice, essa era intesa non come mera dislocazione della cura ospedaliera sul territorio ma come un cambiamento radicale dei modelli di cura. La ramificazione nel territorio delle funzioni di servizio e di governo ha alle spalle innanzitutto l’approccio dei determinanti sociali di salute, che nel focalizzare le diseguaglianze nella salute della popolazione prende in conto l’intreccio tra dimensione individuale e sociale e il peso di fattori quali il contesto sociale e di policy, le condizioni di vita e di lavoro, i servizi accessibili e disponibili, la posizione socio-economica».

Rilanciare la territorializzazione come strumento fondamentale dell’universalismo richiede quindi oggi un lavoro, politico, culturale, di movimento, transdisciplinare e trasversale a vari settori sociali, capace di farsi carico dei «frames, delle concezioni in tema di salute che sono incorporate nelle architetture organizzative e ne orientano le pratiche quotidiane» poiché «la fragilizzazione del territorio è legata a doppio filo all’avanzata di dinamiche di desocializzazione della salute» che tendono a «forgiare una domanda consumeristica il cui aumento tendenziale vale a giustificare surrettiziamente la scelta di ampliare il sistema di offerta attraverso il privato accreditato» e le prestazioni garantite dai cosiddetti pilastri mutualistici o assicurativi, che contribuiscono a svuotare di senso la leva universalistica della fiscalità progressiva.

In definitiva «il meccanismo domanda-offerta è incoerente con strategie di promozione della salute, che per loro natura dovrebbero interessare prevalentemente la componente territoriale dei servizi»; esso corrobora «la naturalizzazione della domanda di salute, collegata al paradigma del mercato».

La «parabola discendente del territorio nel Servizio sanitario nazionale è il frutto di potenzialità innovative andate sprecate, in particolare per quanto riguarda funzioni di prevenzione e promozione». Solo alcune sparute sperimentazioni, come quella delle microaree, consentono oggi di guardare a formule organizzative capaci di concretizzare l’universalismo articolandone le pratiche al territorio; ma non si è fatto ancora abbastanza per studiarne limiti e implicazioni politiche se, come ha recentemente scritto Nicoletta Dentico citando una anonima dirigente sanitaria dell’Emilia Romagna, non bastano le regolazioni astratte se non si tematizzano le pratiche e le soggettività: «dove trovare le crepe dentro cui insinuarsi – ha chiesto una dirigente dell’Emilia-Romagna – quando il pubblico avrebbe gli strumenti per regolamentare i contratti di committenza con il privato, e invece delega a quest’ultimo la determinazione della tipologia di prestazione da erogare, e il relativo utilizzo del budget?».

Vittorio Agnoletto, con la storica organizzazione Medicina Democratica e una serie di altre organizzazioni politiche e sindacali regionali, ha promosso il referendum abrogativo dell’equiparazione pubblico privato in sanità in Lombardia; con un atto prettamente politico, la maggioranza in Assemblea Legislativa Regionale ha negato la possibilità del referendum, facendo in modo che fosse «tolta ai cittadini la possibilità di scegliere». La lotta ora continua al TAR e nelle piazze: riteniamo un passo nella corretta direzione che il Comitato Promotore sia ampio e raccolga soggetti finalmente convergenti su questo tema: una allusione all’importanza di ricostruire oggi uno spazio ampio di lettura politica che ci permetta di legare teoria, attività di programmazione, pratica clinica, azione collettiva e riflessione sulla soggettività nella progettazione di una lotta, dove oggi sono più necessarie le condizioni istituzionali della sua produzione.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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