BAGHDAD DI ALLORA

Francesco Cecchini

Ad Amal, dottoressa irachena.

Baghdad fu la città dei giardini della Mesopotamia, ora c’è il il parco Al Zawra, molti ettari di verde e uno zoo con tigri, leoni e orsi. Chi arrIva  a Baghdad ha l’impressione di una città vasta e orizzontale, attraversata da un grande fiume. Ha un vecchio centro storico  con portici. Il calore fa si che il cielo non sia mai limpido, ma velato. A volte il vento le porta sabbia da deserti.                                                  Vivo a Baghdad, subito dopo che Saddam Hussein prese il potere. Abito a Baladiyat nella parte est, un quartiere residenziale scita, la strada dove si trova il mio appartamento è alberata. Ogni tanto, verso sera, vado a Abu Nawas Street sulla riva orientale del Tigri per mangiare mazgouf, un pesce del fiume, alla brace e bere arak, un liquore di datteri. Trovo la città non bella, ma attrattiva, con cose da vedere, l’Irak Museum, la tomba, nel cimitero armeno, della regina di Bagdhad, Gerturde Bell, l’elegante quartiere Kerrada con la sua vita, il ponte degli Imam, che collega Adhamiya con Khadhimiya e molte moschee.                        Per lavoro vado a Rutba ai confini con la Giordania, a Derbendi Khan in Kurdistan, a Mosul al nord e ad Al Fao, all’estremo sud del paese sulla riva del Golfo Persico.  In Kurdistan, Derbendi Khan è vicina ,ma anche lontana da Baghdad. Un venerdì vado a Sulimanya, non molto distante. Mentre il lago artificiale della diga e il Diyala River che viene dall’Iran sono circondati da colline verdi la strada che porta a  Sulaymaniyah, meno di un centitaio  chilometri, attraversa un paesaggio arido, incontaminato e color ocra.  Sono ospite di un mio collega kurdo, un geologo, Adan, che viaggia con me. La città è in piano, tutt’intorno un deserto senza sabbia, ma è circondata da catene montuose. Non è caotica o inquinata da grande traffico, è senza servizi pubblici e nei caffè e ristoranti non servono alcolici. Ha una storia di rivolte contro l’Irak. Adan mi dice che il clima è estremo: troppo freddo d’inverno, a volte nevicano grossi fiocchi di neve, e troppo caldo d’estate. Per fortuna siamo in primavera. Vivere a Sulaymaniyah non è sicuramente come vivere a Baghdad o anche a Derbendi Kahn. Quando arriviamo è il primo pomeriggio, la città è vuota e le mosche affollate. Prima di raggiungere la sua casa, Adan mi porta a vedere il lago artificiale Dokan  che lambisce la città. Le acque sono limpide e azzurre, vi sono colline con vegetazione e le sponde sono di roccia dura. La  casa di Adan è grande e antica, un solo piano e in periferia. Anche se non sono più usatI si possono distinguere l’ haram, dove vivevano le donne e il Divan Khaneh, dove il padrone di casa riceveva i visitatori. Ora uomini e donne sono mescolati e liberi, solo i nonni di Adan vestono in maniera tradizionale. Mi offrono te, nessuno parla inglese e Adan traduce saluti e domande. Dormirò nella stanza di Adan dove viene steso un materasso.  La sera, tiepida e secca,  ceniamo all’aperto in un piccolo ristorante quasi in centro; il cibo è curdo e si mangia con le mani, per bere vi sono tazze. Parla quasi sempre Adan, del Kurdistan, del popolo curdo, della loro identità differente da quella degli iracheni, del loro desiderio di indipendenza. Il mattino dopo riprendiamo presto il viaggio di ritorno per essere in tempo al lavoro, ma all’uscita della città veniamo fermati a un posto di blocco dell’esercito iracheno. Nella notte ci sono stati scontri con guerriglieri curdi e non possiamo ritornare soli a Derbendi Khan, dobbiamo aspettare un convolglio militare. Trascorriamo delle ore nell’incertezza. Finalmente arrivano due camion militari, con soldati, diretti a Derbendi Khan. Facciamo il viaggio di ritorno tra i due mezzi. Nell’auto sale un sergente che non parla inglese e Adan finge di essere un italiano, un paio d’ore in silenzio. Arrivati i miltari rinforzano il controllo della diga e di dove si trovano l’ospedale e le abitazioni di alcuni funzionari iracheni. Sul tetto a terrazza dell’albergo dove alloggiamo, il Shalà Merdà hotel, mettono due mitraglitrici. Alcune notti sparano, forse solo per tenerci svegli.                                              Un pomeriggio salendo dalla diga mi rovescio con la jeep e mi ferisco in fronte, appena sopra il sopracciglio. All’ospedale mi cucisce, un paio di punti, una dottoressa, Amal. Le dico che sono italiano e lei mi parla in uno spagnolo stentato. E’ innamorata di un medico cubano che ha lavorato in Iraq e terminata la missione è ritornato all’Avana, dove lei vorrebbe andare. Amal ha circa trent’anni, pelle chiara e capelli corvini . Ha il viso sempre leggermente truccato, rossetto chiaro, sopraciglie e occhi neri, una linea di kohl. Mi dice che in spagnolo il suo nome significa Esperanza. Facciamo amicizia, la visito in ospedale per farmi togliere i punti. Ci vediamo anche a Baghdad, è senza camice bianco, ma con gonna e scarpe con il tacco. Parliamo in spagnolo, il suo povero, il mio un colombiano imparato a Londra. Mi racconta che il padre è comunista, la sorella studia a Mosca e non ritornerà in Irak.  A Baghad, Amal mi porta a vedere un film spagnolo El Relicario ad Al Zawra Cinema in Al Rashid Street, il più vecchio cinema della città, dove proiettano e riproiettano vecchi film, pure stranieri. El Relicario non ha sottotitoli e Amal vuole che le faccia capire i dialoghi. Fallisco, con il mio colombiano non sono in grado di tradurre parola per parola. Le racconto la storia un pò in inglese e un pò in spagnolo. Le dico, anche, che El Relicario è un famoso Paso Doble e Amal mi chiede che cos’è il Paso Doble.                          Un venerdi verso sera vado a Al-Mutanabbi, una via stretta e lunga qualche centinaio di metri con attorno  altre viuzze e stradine.  Vi è il famoso Al Shabandar Cafè, dove uomini fumano il narghilé, bevono caffè alla turca e discutono di ogni cosa, non vi sono donne.  Al-Mutanabbi è la via dei libri. Negozi e bancarelle vendono volumi usati, c’è di tutto. Gettato al suolo vedo in cattive condizioni, sporco, con la copertina stracciata Return to the Marshes di Gavin Young e foto di Nik Wheeler. Delle marshes, le paludi del sud dell’Irak e della sua gente, gli arabi madān, mi aveva parlato Amal. Anni prima aveva lavorato all’ospedale di Bassora e aveva partecipato a un tentativo di vaccinare la gente delle paludi contro la malaria e visitò quei luoghi. Nella sovracopertina leggo le parole che, più o meno, Amal mi aveva detto. “Se il giardino dell’Eden fosse esistito era tra il Tigri e l’Eufrate; e fra questi due fiumi si trova la magnifica e straordinaria terra degli arabi delle Marshes.” Il libraio mi spara un prezzo alto, lo negozio e compro il libro. In un paio di giorni lo leggo e guardo le foto.  Mi viene il desiderio di andarci.                                    Sono ad Al Fao e un giorno di poco lavoro con Alì, interprete e autista, vado a visitare le paludi. Quasi all’uscita di Al Fao quattro ragazze con velo nero fino ai piedi, ma con il viso scoperto si mettono di fronte all’auto,  si portano la mano aperta sopra la bocca e fanno lo yuyu,il grido di gioia delle donne arabe. Alì mi dice che mi hanno visto e piaccio loro. Guidando Alì parla a ruota libera, non riesco a seguirlo. Lo sento pronunciare più volte la parola the ennemy. Gli chiedo se i nemici sono i curdi e Alì mi risponde di no, sono gli iraniani che vivono vicini, sulla altra sponda dello Shat Al Arab.                                Arriviamo alla cittadina di Qurna a una settantina di chilometri da Bassora. Ho letto che nelle vicinanze c’è l’albero di Adamo. Alì non ne sa niente. Prediamo una strada non asfaltatata che porta alle paludi, attorno ci sono campi di riso dopo una decina di chilometri abbandoniamo l’auto Lasciamo  e dopo aver messo degli stivali di gomma, c’è molto fango, proseguiamo a piedi a piedi lungo una strada non asfaltata e fangosa. Da una sponda si vedono delle barche.  Ali, ne chiama una, saluta, salam aleikum, chiede se ci può far fare un  giro in barca. Il barcaliolo risponde che se vogliamo ci può portare fino a Ur.  Nelle marshes non ci sono strade, sentieri, ma vie d’acqua attraverso le quali si può raggiungere tutto quello che c’attorno. Purtroppo non ho tempo. Per un paio d’ore vedo quello che Gavin Young ha raccontato e Nik Wheeler ha fotografato. Un piccolo villaggio costruito parte sull’acqua, case galeggianti parte sulla terra ferma di un’isola, case fatte di canna,  arabi maʿdān che sorridono e salutano, donne che remano o raccolgono canne con mani tatuate, alcune piccole barche che assmigliano a una scoperta nelle rovine di Ur e che è esposta all’Iraq museum di Baghdad. Vedo anche pellicani, cinghiali e bufali.                                                  Lascio l’Iraq nell’ottobre del 1979, la guerra con l’Iran è scoppiata da un mese. Ogni tanto aerei iraniani sorvolano Baghdad, mitragliano e anche gettano bombe. Distruggono un souk coperto vicino a uno dei nostri cantieri.                                            Saluto Amal che mi dice arrivederci, ¡Que tengas buen viaje!, e mi bacia  su una guancia. Con altri italiani e quattro  auto vado a Rutba per raccogliere un collega. Poi si attraversa la frontiera con la Giordania e un deserto di pietre nere.
 In Italia e poi in Perù continuo a informarmi della guerra. Vengo a sapere che ci sono state incursioni iraniane nelle marshes e anche ritorsioni contro i maidan che sunniti come gli iraniani non sono ritenuti affidabili da Saddam Hussein. La palude è stata in parte prosciugata, case di canna distrutte, molte persone deportate nel deserto.  Dopo la guerra del golfo e una rivolta dei sciti Saddam Hussein ha colpito ancora più duramente le paludi e le sue genti. Ma le peggiori notizie arrivano molti anni dopo e non riguardano le marshes, ma Baghdad. L’invasione americana ha ucciso la vita della città, molti ristoranti, caffè o luoghi d’incontro chiusi, parte della città distrutta. Lungo il Tigri è impossibile mangiare mazgouf, bere arak o fumare il narghilé. In Al-Mutanabbi Street molti negozi di libri usati hanno chiuso e i libri che rimangono sono sempre gli stessi. L’Irak museum è stato sacheggiato. Il quartiere di Baladyat è diventato un luogo privilegiato per attentati. I morti, per lo più sciti, considerati eretici e carne da macellare, sono decine e decine. Bombardamenti con razzi Katyuscia, autombe, kamikaze squarciano corpi di uomini, donne, bambini e demoliscono edifici.                                            Sulaymaniyah invece dopo l’invasione americana è stata lasciata in pace dagli iracheni ed è diventata una bella città con alti edifici quasi grattacieli, centri commercili, ristoranti, un teatro e cinema e fa concorrenza a Erbil, la capitale del Kurdistan.                        Da quando ho lasciato l’Iraq ho ricevuto una sola lettera di Amal, che temeva di venir mandata in un ospedale militare vicino al fronte. Dopo più niente. Ogni tanto la penso, se è riuscita a fuggire dall’inferno iracheno e andare a Mosca o all’Avana.

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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