Luciano Canfora nel testo redatto con Eric Hobsbawn all’insegna di “Marx e i suoi scolari” traccia una identità del PCI che, secondo l’autore, nonostante il “legame di ferro” intrattenuto a lungo con l’Unione Sovietica, si collocò in sostanza sul fronte riformista, fautore del sistema parlamentare : tanto è vero che “si possono trovare analogie tra la prospettiva delineata da Togliatti nei primi anni’60 e il programma di Bad Godesberg adottato dalla socialdemocrazia tedesca nel 1959″.
Un’affermazione, quella di Canfora, che riafferra uno dei corni di un antico dilemma che ha percorso la sinistra fino alla soglia della caduta del Muro di Berlino e portato fin dentro alla svolta della Bolognina allorquando l’ala “migliorista” (sorta sulla base delle indicazioni di Amendola proprio all’inizio degli anni’60) spingeva perché la trasformazione del Partito alla fine confluisse proprio nell’ipotesi socialdemocratica.
L’ipotesi di approdo alla socialdemocrazia (tenuto conto che il PCI era già entrato nell’Internazionale Socialista) fu respinta, prima di tutto per ragioni di politica interna (il quasi contemporaneo crollo del PSI craxiano a seguito della questione morale) e più in generale per ragioni di analisi complessiva elaborate sulla base di un sostanziale accettazione del concetto di “fine della storia” in quel momento presentato da Francis Fukuyama e di conseguenza aderendo a una ricerca ritenuta più aperta in campo “liberal”, della quale si era fatto protagonista una parte del movimento progressista degli USA (che finì con il rappresentare un riferimento per molti degli epigoni della svolta della Bolognina)
Il confronto con l’ipotesi “socialdemocratica” si era già avviato ancora presente Togliatti e molti, a questo proposito fanno riferimento al convegno del 1962 organizzato dall’Istituto Gramsci sul tema “Tendenze del capitalismo italiano” laddove si misurarono posizioni divergenti (arrivate così senza riduzione degli angoli al Comitato Centrale del 26 ottobre 1965, preparatorio del primo congresso del post-togliattismo) : l’oggetto del contendere era rappresentato dall’analisi del punto di innovazione del capitalismo italiano, che Amendola non riconosceva insistendo sull’idea del paese arretrato proprio dal punto di vista capitalistico. La sinistra del partito invece sosteneva come le linee del conflitto si sarebbero spostate sempre più in contesti caratterizzati da modernità, quindi, in primo luogo le grandi fabbriche; per questo motivo era necessario non giocare di sponda con il centrosinistra ma preparare le condizioni per un nuovo meccanismo di accumulazione delle ricchezze, un modello alternativo di sviluppo economico e sociale nella prefigurazione di un socialismo “diverso” sia dal modello sovietico sia da quello socialdemocratico dei “30 gloriosi”. Modello socialdemocratico che stava esaurendo anch’esso la spinta propulsiva come si sarebbe presto visto al momento della caduta del sistema di Bretton Woods , dello shock petrolifero dell’inverno 73-74, del ritardo nell’individuare (nonostante le sollecitazioni di Willy Brandt) come la contraddizione centro/periferia si traducesse ormai in nord/sud.
Questo quadro riferito a 50 anni fa permane, non troppo paradossalmente, in una sua attualità perché , in condizioni affatto diverse da allora, ripropone la necessità di uscita dalla sfera politicista nella quale – fin dal tempo appena ricordato – è immersa la sinistra italiana.
Il punto che accomuna la fase fin qui descritta e risalente agli anno’60-’70 e l’attualità è quello della ricerca sul come affrontare le nuove forme di accumulazione della ricchezza derivanti dallo sfruttamento insieme del territorio, della donna e dell’uomo (in una necessaria riproposizione costante di una modernità del confronto di genere), della tecnologia.
Appaiono arretrate sia le forme di redistribuzione e di welfare di stampo socialdemocratico, sia i meccanismi di rappresentanza della democrazia liberale.
In una fase in cui la crescita delle disuguaglianze si pone prioritariamente sul piano delle dinamiche transnazionali portate fino al limite dello scontro bellico e la declinazione dei sistemi politici appare tendere verso la concentrazione del potere in senso autoritario, liberalismo e socialdemocrazia se intendono aprire un dialogo riformistico debbono tenere conto di alcuni elementi:
a) la radicalità delle contraddizioni in atto che richiede altrettanta radicalità nelle proposizioni politiche;
b) l’esigenza di una ricerca sul “come” concretamente i nodi possono essere affrontati sul terreno della redistribuzione sociale della ricchezza prodotta dagli “over the top” che dominano la transizione digitale, comprendendo anche l’analisi della produzione di ricchezza che accompagnerà l’ascesa dell’AI. Naturalmente parte di questa redistribuzione della ricchezza dovrebbe essere orientata ad affrontare l’altra transizione epocale quella ecologica e questo richiederà una forte capacità di governo e la costruzione di adeguata soggettività politica;
c) l’elemento sul quale liberalismo e socialdemocrazia (nella loro accezione novecentesca) appaiono ormai base teorica insufficiente al riguardo delle contraddizioni della nuova modernità risiede proprio nella esigenza di elaborazione di un’alternativa per la quale non basta il tradizionale concetto di compromesso politico ma l’elaborazione di una rinnovata concezione dell’egemonia. Si presenta così una evidente difficoltà considerata l’evidenza del superamento dei modelli fin qui portati avanti sul piano di una relazione nazionale/internazionale che deve essere profondamente ripensata a partire dalla rifondazione/ristrutturazione degli organismi sovranazionali. Una ristrutturazione che dovrà essere eseguita in funzione di impedire il vero e proprio salto all’indietro rappresentato dal riproporsi di una “logica dei blocchi” questa volta tra Occidente e BRICS aggregati attorno all’espansione cinese e indiana (paesi enormi portatori di differenti modelli politici).