– di: Raffaele Oriani
All’annientamento in atto della popolazione di Gaza si accompagna, in Occidente e nel nostro Paese, un atteggiamento dei media subalterno e complice. Lo abbiamo scritto più volte su queste pagine. «Siamo ormai totalmente immersi in un’informazione di guerra priva di qualsivoglia attenzione per la verità e per gli stessi fatti e interessata esclusivamente a favorire la “vittoria” della propria parte. In essa le notizie sono usate come armi, al pari delle bombe e dei proiettili. […] La prima componente di questa informazione drogata è quella dei giornalisti embedded,che procedono al seguito degli eserciti amici. Gli inviati di guerra di un tempo – che, anche con elevati rischi personali, si spostavano sui diversi fronti di combattimento e avevano contatti con tutti i protagonisti (e le vittime) del conflitto in una posizione di (almeno parziale) indipendenza – sono oggi sostituiti da militari di complemento(spesso addirittura vestiti da soldati) che diffondono, presentandole come la “verità”, le notizie confezionate dai loro danti causa (pena, altrimenti, il venir meno dell’accreditamento e il rinvio in patria). Per loro – e per chi recepisce la loro informazione – esiste solo un versante della guerra: l’altro è un indistinto obiettivo da distruggere. La seconda componente è data dalle modalità dell’informazione, anche quando, per l’evolversi del conflitto, i contatti diventano più estesi e l’angolo di visuale più ampio. Si tratta di modalità prossime alla propaganda più che all’informazione. Le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: sulla scena ci sono, come nei film western di un tempo, i “buoni” e i “cattivi” senza alcuna zona grigia; ai primi è dedicata la gran parte dei telegiornali, dei talk show e della carta stampata mentre ai secondi sono riservati, nella migliore delle ipotesi, i titoli di coda; alle vittime della parte amica e ai loro congiunti sono dedicate immagini e interviste (giustamente) accorate, ripetute in maniera ossessiva per giorni e giorni, mentre le vittime dell’altra parte sembrano non avere nomi, case, parenti, amici, e, se compaiono, lo fanno solo in immagini che sfilano rapidamente e in maniera anonima; i morti di una parte sono persone in carne ed ossa mentre quelli dell’altra parte sono numeri (accompagnati spesso da verbi al condizionale o dalla precisazione che si tratta di cifre incontrollate); le case e le città distrutte da una parte sono luoghi di vita, di socialità, di felicità mentre quelle dell’altra parte sono “obiettivi”; i massacri di una parte sono atti di barbarie e terrorismo (come indubbiamente è), mentre quelli dell’altra parte sono manifestazioni di “legittima difesa”, operazioni contro il terrorismo anche quando colpiscono bambini, vecchi, malati, ospedali, scuole, ambulanza, persone in fuga» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/11/20/palestina-40-giorni-dopo-tra-crimini-di-guerra-e-calcoli-geopolitici/). Tutto ciò avviene in un inquietante e diffuso silenzio del mondo del giornalismo. Salvo poche eccezioni. Tra queste quella di Raffaele Oriani, giornalista di la Repubblica, che nei giorni scorsi ha comunicato l’interruzione del suo rapporto di collaborazione con il giornale in segno di polemica con la reticenza dell’informazione nazionale ed europea. Il gesto ha, nel contesto descritto, un che di dirompente (e, non a caso, è stato sostanzialmente ignorata dal nostro circo mediatico). Per questo pubblichiamo di seguito la sua lettera. (la redazione)
Care colleghe e colleghi ci tengo a farvi sapere che a malincuore interrompo la mia collaborazione con il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni ed è sempre un grande onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori.