Umberto Vincenti
Il Presidente del Veneto ci stava lavorando da tempo, forse da anni. Desidera più di tutto continuare a fare il piccolo principe nella sua regione, il Veneto, che lui pensa sia la migliore d’Italia, anzi, di gran lunga, migliore dell’Italia. Per la verità, di ciò sono convinti parecchi veneti, specie quelli del ceto imprenditoriale, all’unisono con Zaia che, contraccambia, tutelandoli. Non pochi quelli a cui non dispiacerebbe staccarsi dall’Italia; e che, però, non hanno poi il coraggio dei Baschi e così si accontentano di battersi, con Luca, per ottenere, via governo Meloni, l’autonomia così detta differenziata, in realtà molto di più, una semi-secessione, consentita, non dimentichiamocelo, dalla sinistra (ora) PD, che ha adulterato il disegno costituzionale con la riforma del titolo V.
Ci sono di mezzo avidità, prese in giro, illusioni; e, per il Presidente, una smodata ambitio, cioè piacere e gusto del potere: un potere che, in sede regionale, dev’essere tanto gratificante al punto da orientare Zaia per la permanenza for ever in Veneto, snobbando incarichi nazionali, anche di primo piano. Evidentemente, questo il calcolo, si conta di più a Venezia che a Roma.
Il progetto Zaia parte dal territorio e passa attraverso un confronto tra i partiti di governo; l’obiettivo è la sua generalizzazione nel Paese attraverso una legge romano-italica per essere restituito al territorio di partenza (la terra veneta) quale realtà normativa senza alternative. Attenzione, però! A questo marchingegno non sono ostili taluni del PD, anzi si può giurare che non sia ostile nemmeno una buona parte del PD: leggere le chiare dichiarazioni di De Luca, comprendere le felpate interpretazioni di Bonaccini.
Dimensione locale, si è detto. Qui è la storia di Luca Zaia che rivela le sue reali intenzioni. Zaia ricopre la carica di Vicepresidente della Regione Veneto dal 2005 al 2008, quando Presidente era Giancarlo Galan. Dal 2010 è ininterrottamente Presidente (e lo sarà certamente fino al 2025). Ma nel 2004 una legge statale aveva demandato alle Regioni di disciplinare (con legge) i casi di ineleggibilità alla carica di Presidente, imponendo di prevedere per essa il divieto del terzo mandato. Almeno secondo i giudici, il divieto non si sarebbe, però, potuto ritenere immediatamente operativo, occorrendo una legge regionale che, recependolo, ne sancisse il vigore effettivo. Un pasticcio, insomma (c’è forse da stupirsi?). In Veneto, però, Luca Zaia obbediva a Roma, facendo votare, nel 2012, dal suo Consiglio una legge che accoglieva il principio statale e vietava di ricandidarsi alla carica di Presidente della Regione «chi ha già ricoperto ininterrottamente tale carica per due mandati consecutivi».
Zaia ora ci ha ripensato; si deve essere reso conto di aver commesso un errore per la sua carriera. Si trattava di trovare un modo per uscirne. Il più facile, probabilmente l’unico, era di sorvolare sulla legge da lui voluta per sostenere semplicemente che mantenere il divieto del terzo mandato equivaleva a dare dei babbei ai veneti perché esso avrebbe finito con il farli sentire come degli idioti incapaci di scegliere liberamente la persona da loro ritenuta più giusta. Ma allora che pensava Zaia della sua gente nel 2012?
Passiamo alla dimensione nazionale. Non credo che valga la pena di spendere parole sul mercato delle candidature regionali che la maggioranza ha inaugurato in questi giorni: l’ipotesi in tavola è la permuta Solinas verso Zaia. Ma questa è la politica italiana, signori! E sarà sempre peggio. Piuttosto il caso Zaia va oltre i confini veneti e l’ambitio dell’uomo-Presidente. È come una cartina al tornasole degli assetti costituzionali italiani: vediamo.
Se Zaia – per la gioia di De Luca e di Bonaccini – può impunemente dire e disdire secondo i suoi commoda, è perché la Costituzione è silente sulla questione del divieto del terzo mandato per le cariche di vertice, a cominciare da quelle a livello statale. Un silenzio incomprensibile. Non voglio appesantire il discorso richiamando la storia del pensiero repubblicano e alcune esperienze costituzionali fondanti (passate e presenti). Basta dire che il divieto è sempre stato ritenuto consustanziale a un regime autenticamente repubblicano e democratico: una necessità logica imposta dalla congruenza con il principio della sovranità popolare. La ragione dell’odium verso il divieto si rivela facilmente, connaturata com’è all’antropologia delle persone che ambiscono al potere. A stare ai vertici costoro si insuperbiscono e si convincono di appartenere a una specie umana diversa da quella dei loro concittadini. Ci si potrebbe affidare alla loro buona volontà se fosse diffusa, e realmente accettata, un’etica pubblica repubblicana. I nostri costituenti devono averci contato. Ma le cose vanno, e sono andate, diversamente; e allora il diritto era ed è l’unico antidoto da mettere in campo. La nostra Costituzione non l’ha fatto: il doppio mandato di Napolitano e poi di Mattarella (dopo sette anni di primo mandato) dovrebbe farci riflettere.
Si potrebbe allargare il campo e domandarsi se poi sia vero che le costituzioni scritte siano un bene: la nostra, per di più, è rigida, per cui modificarla è parecchio complicato. Ma la vita oggi corre a una velocità che non è quella degli illuministi settecenteschi; e nemmeno dei costituenti italiani del 1946/47. D’altronde, la Roma repubblicana (piaccia o no, è ancora il paradigma o l’archetipo) non aveva una costituzione scritta; né ce l’ha oggi l’Inghilterra. Il che non significa che noi dobbiamo cancellare il testo del ’48 e consegnarci alla legislazione tout court. Però dobbiamo aver la consapevolezza che anche da ciò Zaia trae vantaggio: se nulla dice la Costituzione, ogni altra legge, che pur incida sugli assetti fondanti del potere in sede nazionale o locale, può ben essere approvata a maggioranza semplice. Ma una legge sul divieto del terzo mandato o il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata, sono davvero leggi come qualunque altra? O, piuttosto, sono leggi sostanzialmente costituzionali? Risponderei di sì; però formalmente, ed è quel che da noi conta, esse valgono come una legge sull’impianto di riscaldamento nei condomini.
In tutto ciò c’è qualcosa che non funziona. Il divieto del terzo mandato, come insegna l’esempio di George Washington che non volle ricandidarsi dopo due mandati, più di tutto serve a spezzare il circuito del potere che inevitabilmente si crea attorno a chi lo occupi per tanto tempo: dietro Zaia, ci sono i suoi che ci perderebbero più di lui qualora non fosse rieletto. Non è un caso che la proposta dell’abolizione del divieto sia di un deputato della Lega nonché segretario del partito in Veneto.
Coerentemente con questi (poveri) contesti, il ddl Casellati, che pur vorrebbe stravolgere l’equilibrio dei poteri (quei pochi che l’UE ci consente), si astiene dall’introdurre il divieto del terzo mandato. Nessuna delle opposizioni si è sollevata per quest’omissione; c’è da giurare che, in punto, vi è come una tacita conventio. A chi comanda non piace passare la mano: si sta là e si cerca di star là inventandosi, cioè mentendo, che è solo per l’interesse comune. Non credo, tuttavia, che i cittadini la pensino allo stesso modo, almeno quando si tratti dei dirigenti politici. Sarebbe tempo di interrogarli direttamente: si appassionerebbero, parteciperebbero, potrebbe rinascere la politica vera.
Per tante ragioni vi è bisogno di riformare la Costituzione del ’48. Tuttavia l’art. 138, che regola la procedura di revisione, sembra adatto a modifiche non sostanziali, ma marginali o di dettaglio. Per far di più e meglio, perché non chiamare il popolo ad eleggere una nuova assemblea costituente? Giusto come nel 1946. Sto sognando anch’io. Ma la realtà è che la cristallizzazione, a cui siamo costretti, ci costa e ci costerà molto. Quelli che sono al potere fanno di tutto per addormentarci: non sarà per sempre. La storia ce lo conferma.