Tutto sta in quella frase: «Non svilire queste occasioni», risposta ad un cronista che gli chiedeva se, in occasione della visita al Memoriale della Shoah a Milano, davanti a quel binario numero 21 da cui partivano i treni con tutti coloro che erano destinati ai campi di prigionia e di sterminio nazisti, lui, il Presidente del Senato della Repubblica Italiana, Ignazio La Russa, si fosse sentito in quel contesto “un po’ antifascista“.
Già di per sé è abbastanza evidente la contraddizione che sta a monte di tutto questo: dovrebbe essere naturalmente costituzionale, moralemente etico, politicamente conseguente che ogni cittadino sia antifascista, visto che il fascismo ha distrutto la comunità nazionale, ha privilegiato i doveri rispetto ai diritti, ha represso qualunque forma di dissenso, ha trascinato l’Italia in una dittatura ventennale e in un lustro di guerra che l’hanno devastata.
Prima ancora che obbedire alla logica della valutazione storico-politica, ogni italiana ed ogni italiano dovrebbero dirsi antifascisti per contrarietà nei confronti dei totalitarismi, per adesione convinta ai princìpi democratici, per fedeltà vera a quel repubblicanesimo laico che si esprime nella dilaettica libera delle posizioni e che oggi permette anche ai neo/postfascisti di potersi esprimere in quanto tali, in aperta contraddizione con i loro stessi disvalori.
Ed invece, siccome la distopia non è una espressione meramente artistica che si fantastizza nell’onirismo cinematografico, nell’incoscienza introspettiva di un sogno che si affianca alla realtà, ci ritroviamo nel 2024 con un governo in cui il partito di maggioranza è un soggetto politico postfascista, che nel simbolo ha la fiamma tricolore del vecchio MSI, che, nel solco di quella storia, ammette una innovazione ma soltanto per potersi fregiare del titolo di neo-conservatore e neo-nazionalista.
Poiché il parallelismo degli universi italiani non conosce confini dell’assurdo, da un po’ di tempo a questa parte, almeno da quando Fratelli d’Italia è passata da opposizione a partito di governo, ci costringiamo – perché sappiamo già il carattere altamente retorico di queste domande – a chiedere agli esponenti più di spicco, tra cui il Presidente del Senato, se sono antifascisti, se cioè, al di là del galateo istituzionale e di una ripetuta adesione al democraticismo moderno, si riconoscono pienamente nei valori che ispirano la Costituzione e la Repubblica.
Sarebbe un enorme, gigantesco paradosso, una iperbole non solo lessicale ma prima di tutto concettuale, se non ci trovassimo davanti a persone che sono rientrate nel contesto politico italiano passando per un viatico prima stretto e poi sempre più agevole, in cui l’originaria matrice neofascista del MSI è divenuta postfascista con Alleanza Nazionale, con la svolta di Fiuggi e con, quindi, la storicizzazione del fascismo e il transito ad una destra che, pur guardando a quel modello di legge, forza, ordine, Stato, si è resa compatibile con l’oggi.
Laddove l’oggi è rappresentato dalla convergenza tra liberismo economico e liberalismo politico, a tutto svantaggio del secondo che è finito, nel corso dell’era berlusconiana, per essere sempre più compresso dalle ragioni di un pragmatismo rispondente esclusivamente alle esigenze del mercato e della sostenibilità di una struttura ricchissima di contraddizioni antisociali.
La destra postfascista, quindi, è divenuta, in concorrenza con una sinistra che si è centrizzata e ha scordato volutamente i propri punti di riferimento, la propria classe.
Se oggi discutiamo della contraddizione tra il non dirsi ed essere antifascisti e il ricoprire la seconda carica istituzionale della Repubblica, è anche perché lo sdoganamento del neofascismo travestito da postfascismo è potuto avvenire grazie ad una indulgenza plenaria elargita da un ceto medio e da una borghesia moderni pronti a scegliere tra una garanzia politica apertamente di destra, conservatrice e reazionaria, ma in grado di interpretare – dopo anni ed anni di apprendistato berlusconiano – e un centrosinistra alla disperata ricerca di un orizzonte governista.
L’impalcatura dei valori sociali è rovinata sempre più in basso e ha trascinato con sé una cultura della solidarietà e dell’uguaglianza che erano e rimangono i pilastri su cui si fonda la Repubblica nata dall’esperienza resistenziale, dalla lotta partigiana, dalla condivisione di popolo di una riscossa dai tratti risorgimentali riemersi dopo la mortificazione monarchica e fascista di valori che erano stati il motore delle esperienze della Roma del 1849, dei tanti moti indipendentisti e sociali e della Spedizione dei Mille.
Se La Russa oggi può evitare di dirsi antifascista, ciò gli è consentito dal fatto che non vi sono conseguenze rispetto a questo comportamento. Chiedere le sue dimissioni è come friggere l’acqua, come cercare di afferrare l’aria. Pura illusione, pura evanescenza, sostanziale inutilità.
E questo non soltanto perché è ovvio che chi si sente ancora parte della storia del MSI e del postfascismo non possa mai fare una professione di adesione all’antifascismo, ma soprattutto perché gli stimoli esterni che potrebbero anche indurlo al ferale passo non sono sufficienti.
Con il passare dei decenni, dopo la fine della cosiddetta “prima repubblica“, quindi dopo la conclusione della lunga fase della ricostruzione del Paese dalle macerie morali e materiali lasciate dalla guerra voluta dal regime di Mussolini, della grande empatia tra ideologie e obiettivi pratici, tra diritti e doveri, tra politica istituzionale e politica sociale, tutto (o quasi) è andato nella direzione della destrutturazione del collettivo, del pubblico, della partecipazione attiva.
La privatizzazione dei grandi gangli economici e produttivi del Paese è andata di pari passo con quella della conoscenza, del sapere, delle garanzie fondamentali per una tutela soprattutto delle decine di milioni di cittadini tutelati da quello che un tempo si poteva definire lo stato-sociale.
Alla socialità di Stato si è andata sostituendo la politica imprenditoriale, quella degli uomini di successo, dei manager, dei nuovi padroni pronti a dimostrare che nella vita la lotta non è di tutte e per tutti, ma di chi ce la fa, di chi si salva. Anche da solo. Soprattutto in competizione con gli altri.
Questa è una concezione individualistica della comunità che, proprio perché tale, la disarticola e la destruttura aprioristicamente. Una concezione che il primo fascismo mussoliniano non avrebbe così platealmente condiviso, come invece hanno fatto i postfascisti usciti dai lavacri termali di Fiuggi.
Soltanto il regime consolidatosi tramite l’appoggio della borghesia imprenditoriale, capace di convincere le masse che era arrivato il momento di un patto interclassista su cui fondare “il secolo d’Italia“, era stato in grado di passare dai “fasci di combattimento“, che conservavano un timido riferimento programmatico alla primitiva esperienza socialista del loro fondatore, alla nuova essenza liberal-conservatrice di un PNF che era divenuto Partito-Stato.
Ottant’anni dopo la caduta della dittatura di Mussolini, gli anticorpi morali, civili, sociali, politici e culturali che l’antifascismo era riusciuto a dare al popolo italiano, affinché potesse guardarsi da una anche timida rivisitazione di quella tragedia nazionale, europea e mondiale, sono stati messi in discussione come ferrovecchio del passato, come intralcio ad una moderna concezione dell’unità nazionale fondata non tanto sul lavoro ma sull’impresa.
Il postfascismo di oggi è, anzitutto, ruffianeria conservatrice e reazionaria al servizio del liberismo, della società dabbene, di coloro che hanno i soldi ma non ne spendono se non per fare altri soldi e, nel farlo, pretendono anche che lo Stato gli sia garante, li tuteli dalle oscillazioni mercatiste e borsistiche e, quindi, faccia tutta una serie di politiche economiche che non puntano a far diminuire il divario sociale, ma quanto meno a stabilizzarlo, spacciando per riforme i peggiori limiti introdotti per espandere invece i diritti sociali.
L’antifascismo, in quanto essenziale punto di riferimento di un egualitarismo che non può prescindere dall’equipollenza tra i poteri dello Stato e dall’uniformare ogni ambito della Repubblica ai princìpi della democrazia a tutto tondo, è in ovvia contrapposizione tanto alle espressioni antisociali di un liberismo ferocie, quanto a quelle populiste e demagogiche di un postfascismo a cui è irragionevole parlare di abiura di sé stesso e del proprio recente passato.
Vigendo la contraddizione tra il non essere antifascista e il ricoprire cariche istituzionali di altissimo livello, è giusto domandare conto a chi le presiede se davvero si sente parte integrante della Storia italiana dal dopoguerra ad oggi dalla parte della Costituzione senza se e senza ma. La risposta sarà la quintessenza dell’ipocrisia: diranno che condividono i valori della Carta su cui, peraltro, hanno giurato al momento di diventare rappresentati del popolo presso il Parlamento e presso il Governo.
Diranno che la Costituzione va difesa e, nello stesso istante, faranno tutto il possibile per mettere in essere atti politici che creano maggiore diseguaglianza, maggiore iniquità e disagio sociale, pescando voti nei bacini del mondo dell’impresa e, ugualmente, fomentando la rabbia dei più deboli e dei più fragili, dei meno garantiti proprio da loro e – va detto – da una somma di politiche degli anni passati in cui la sinistra e il centrosinistra hanno fatto di tutto per stare lontani dalle lavoratrici e dai lavoratori.
Se oggi manca una cultura antifascista che consenta di rimettere ogni espressione di simpatia verso il regime del criminale Mussolini entro il perimetro dell’indicibilità, dell’indegnità e del tabu civile repubblicano, ciò è possibile per una contingenza di fattori che hanno il loro comune denominatore nell’impoverimento sociale, in quello culturale e in quello morale di una Italia immiserita e trattata come una appendice delle politiche economiche continentali e di oltreoceano.
Quando la disperazione di milioni di persone non trova una risposta nelle forze progressiste, si rivolge di primo acchitto a chi le fa credere, urlando più forte di altri, di aver trovato una soluzione. La storia elettorale degli ultimi vent’anni è stata tutta caratterizzata da esperimenti a cui una larga parte di cittadini, in particolare il ceto medio – basso, si è data scegliendo il politico di turno che sembrava un innovatore o un rivoluzionario rispetto ai fallimentari tentativi di risollevare le sorti del Paese.
Buona parte di questi personaggi, scelti come capipopolo del momento, hanno rappresentato la voglia di discontinuità attraverso una domanda sempre più pressante di sveltimento delle procedure, di semplificazione del contesto istituzionale di elaborazione, formazione e approvazione delle normative. La democrazia è, quindi, stata vissuta come un orpello, un peso da smaltire, un freno alla volontà del fare.
Il decisionismo moderno reclamato dalla popolazione è, a ben vedere, l’antitesi esplicita delle garanzie previste dalla Costituzione per un riemergere dell’uomo o della donna forte al comando. La velocità dei cambiamenti sociali, l’accrescimento della povertà in un contesto globale in continua rivoluzione, ha impresso alla politica una marcia ulteriore, chiedendo di trascurare quelle necessità sostanziali fatte passare come meri formalismi, del tutto superabili.
Il postfascismo delle destre ha avuto buon gioco in tutto questo: ha solleticato le turbolenze emotive della gente, ha vellicato i loro istinti più repressi e ha approfittato dello sdoganamento del neofascismo, iniziato con il reclamare la pacificazione nazionale nel nome dell’uguaglianza dei morti in guerra (“ragazzi di Salò” e partigiani…), per saldare i suoi propositi politici con quelli economici di una classe dirigente, ieri come oggi, incurante della stabilità democratica del Paese.
Tirando un po’ le somme: non può esserci vero antifascismo senza giustizia sociale, parafrasando Sandro Pertini. Ricordandone l’acutezza del pensiero e la fierezza delle espressioni nel rivendicare per la Repubblica Italiana la vera modernità di una nazione libera da pulsioni autoritarie, ma anche libera da ingiustizie sociali marcatamente tali nel prodursi attraverso compiacenze tra politica e impresa, tra politica e finanza.
Siccome oggi ci consideriamo diseguali con una rassegnazione che mette spavento, è possibile per chi si fa alfiere delle diseguaglianze mettersi a capo anche dei pregiudizi che ne derivano: ideologici, religiosi, sessuali, di genere, etnici. Di qualunque tipo. E’ così che, attraverso un rinnovamento dell’ignoranza diffusa, si costruiscono i nuovi miti che guardano al passato più buio dell’Italia.
E’ così che le giovani generazioni si ispirano ad una serie di preconcetti che si fondano sul nulla ma che pretendono di essere “la spiegazione” al tutto. La comunicazione ossessiva dei social rende tutte e tutti protagonisti per un attimo nella giornata di ciascuno, permettendoci di avere opinioni su qualunque cosa, salvo scoprire di non saperne praticamente niente se non quello che si è sentito dire o letto velocemente.
La mancanza di approfondimento è povertà di domande, è svilimento del dubbio. L’essere sempre certi di qualunque cosa è un atteggiamento di superficialità che rischia di divenire endemica. Si tratta di una spavalderia ottundente, che viene utilizzata proprio da chi è ai vertici delle istituzioni per alimentare tensioni e non consentire la riflessione.
Se, tutto intorno, quello che ti circonda è povertà, disagio, insofferenza, rabbia e frustrazione, rimane poco spazio e poco tempo per poter considerare che si può anche provare a creare una società migliore, meno ingiusta, più democratica ed egualitaria. Chi strillerà più forte avrà la meglio, perché convincerà le masse a pensarsi sempre come singoli individui e non come corpo sociale.
Finché l’ovvio sarà inconsueto, finché l’essere antifascisti dovrà essere oggetto di domande da parte dei giornalisti alle più alte cariche dello Stato, sarà anche normale che un ricchissimo paghi meno tasse e poi venga in televisione a dirci che lui lavora per l’intero Paese, che lui lavora e che noi invece siamo dei fannulloni. Questo è il mondo capovolto.
Questo è il mondo da capovolgere. Liliana Segre ci ha provato. Nell’indurre non il Presidente del Senato, ma Ignazio La Russa in quanto tale, a venire a confronto con una realtà storica che è strettamente attuale proprio nei tanti episodi di recrudescenza di pregiudizi e intolleranze che si manifestano con inaudita violenza. A venire a confronto con sé stesso.
Non è inutile, perché, se non altro, ci dimostra che ancora non si riesce a pronunciare la parola fascismo in quei contesti e, soprattutto, non ci si pensa nemmeno un secondo sul voltare le spalle ai giornalisti quando domandano se qualcosa è cambiato davanti al ricordo di tanto orrore. Se, di fronte a quell’evidenza, uno scatto di coscienza c’è stato, un’autocritica sulla propria vita magari pure.
Niente di tutto questo. Prendiamone atto. Con coscienza, senza minimizzare nulla. Perché non c’è proprio nulla da sottovalutare: a cominciare dall’arroganza, dalla protervia e da una cattiveria che ne deriva e che, oltre ogni considerazione socio-politica qui fatta, è indubbiamente anche un tratto caratteriale molto distintivo di una personalità, pienamente coerente con quelle idee che altro non erano se non dei crimini.
MARCO SFERINI