Donald Trump durante la campagna elettorale del 2020
Dato troppo presto per sconfitto, sotto il peso delle decine di capi di imputazione che lo sommergono da un lustro a questa parte, Donald Trump è tornato a prendersi la scena delle presidenziali americane nonostante su di lui gravi l’accusa forse più grave per un ex inquilino della Casa Bianca e, peggio ancora, per un neocandidato alla corsa partita con le primarie del Partito repubblicano pochissimi giorni fa.
Chi è addentro alle vicende interne (e non solo) della grande Repubblica stellata, sottolinea che il problema sia di Trump sia di Biden è che, seppur a geometrie variabili nella composizione dell’asse degli scontenti, la maggioranza degli americani non vorrebbe riavere come presidente né l’uno né l’altro.
Ma, pur in questa condizione di ambivalenza abbastanza bizzarra che dovrebbe scongiurare la rielezione del magnate e quella del presidente meno popolare di questi ultimi decenni, alla fine è proprio dal trasversalismo delle posizioni uguali e contrarie che si crea il presupposto, soprattutto numerico, affinché una maggioranza relativa consenta all’uno o all’altro proprio ciò che il senso comune del popolo americano vorrebbe invece evitare.
Se da un lato è vero che Biden è stato attento ai bisogni del mondo del lavoro, è altrettanto vero che non ha dimostrato discontinuità nelle politiche economiche riguardanti un mutamento di passo nella reputazione piuttosto consolidata degli Stati Uniti come ultimo bastione di un imperialismo unilaterale che, ormai, deve prendere atto del mutamento globale e del ritorno di un multipolarismo rinnovato sia dal punto di vista economico-finanziario, sia propriamente geopolitico.
La destra trumpiana, quella che riesce a prevalere nell’opinione pubblica grazie ad una saldatura tra rabbia ed egoismo, tra pregiudizi fintamente anti-casta e altrettanti pregiudizi xenofobi, razzisti, omofobi e tutti volti ad un tradizionalismo conservatore ipernazionalista, non è sufficiente a sé stessa quando parla agli interessi dei grandi gruppi di impresa che, sul fronte repubblicano, infatti, preferirebbero appoggiare (ed in parte lo fanno) l’ex ambasciatrice all’ONU Nikki Haley o Ron DeSantis.
Il risultato davvero glaciale che arriva dalla morsa di gelo dell’Iowa, invece, consegna a Donald Trump una vittoria non inaspettata, ma con qualche novità piuttosto rilevante proprio nella corsa alla candidatura alla presidenza per il Grand Old Party: Haley arriva terza, staccata di oltre cinque punti rispetto a DeSantis, mentre il capo indiscusso dei Make America Great Again può dire di rappresentare oltre il 50% di un elettorato repubblicano che ha fatto del partito qualcosa di davvero molto diverso rispetto al passato.
Non si pensa al tempo in cui erano i democratici a vincere al Sud mentre erano i repubblicani a prevalere al Nord, con posizioni diametralmente opposte nel quinquennio della tremenda guerra civile che divise (e in un certo senso anche oggi divide…) l’America tra capitalisti liberali e latifondisti schiavisti (una semplificazione molto di moda, che non tiene conto delle molte contraddizioni che anche in alcuni stati dell’Unione si registravano riguardo il rapporto con la popolazione di colore).
Semmai si può pensare ad un Partito repubblicano che, pur nella sua propensione conservatrice, aveva sempre rivestito i panni del primato americano nel mondo senza discriminare nessuno all’interno e che, nella dialettica congressuale con i democratici, si distingueva da questi per le posizioni più prettamente liberiste rispetto a quelle liberaldemocratiche e per un utilizzo dello Stato proprio a sostegno del grande capitale, per la risoluzione del maggior numero possibile di interferenze tra interessi pubblici e privati, a tutto vantaggio dei secondi.
Oggi la missione storica del Partito repubblicano è come relegata in un polveroso archivio, obliata e lasciata deperire sotto la grandeur magnificata da Trump per un’America che nega il cambiamento climatico, che applaude il magnate quando parla di deportazione di tutti coloro che non rientrano nei canoni etnico-sociali dell’americano bianco, dello yankee a tutto tondo, e che è certa di ritrovare un ruolo imperialista sul globo cominciando dall’esclusione del ruolo dello Stato in tante faccende prettamente pubbliche.
La prima avvisaglia del pericolo data dal risultato dell’Iowa attende ora i successivi sviluppi: il banco di prova che tutti aspettano, con trepidazione molti, con timore altrettanti, è lo svolgimento delle primarie in Carolina del Sud. Il primo Stato secessionista ai tempi della guerra, un ginepraio di posizioni politiche che fanno il paio e, a volte, invece stupiscono nel rapportarsi con l’elemento etnico, con la maggiore presenza di abitanti di colore rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione.
Mentre a Charleston, sulla costa, i neri hanno sempre votato democratico, i bianchi hanno sostenuto Obama e Biden solo in parte. La differenza la si nota mano a mano che ci si sposta nell’analisi dei dati elettorali che riguardano Columbia, Florence, Grenville e Rock Hill.
Mano a mano che si allontana dai tradizionali luoghi di approdo delle rotte schiaviste di un tempo, a poco a poco che ci si inoltra nella campagna e nella collina, le preferenze conservatrici aumentano e, oggi, Trump resta anche qui il candidato preferito dalla middle class.
Quello che un tempo era il bastione del Partito repubblicano, oggi è una roccaforte dei MAGA, del movimento che non prescinde dal conservatorismo di un tempo ma che, al contrario, ne fa il trampolino di lancio per una nuova stagione dell’identità politica, sociale, civile e morale di una America che pensa anzitutto a sé stessa.
Una buona parte dell’elettorato che è pronto a sostenere colui che ha incitato all’assalto di Capitol Hill per sovvertire il risultato elettorale nel gennaio 2021, ritiene di dover lottare contro quel fronte del male rappresentato dai marxisti, dagli omosessuali, dai democratici e dai teorici del gender fluid.
A questo schema precostituito di trivialità retriva, di vera e propria banalità antiargomentativa, corrisponde la narrazione di una nazione minacciata internamente da un progressismo dissolutore degli antichi valori costituenti, di un impero finito nel fango, di una enormità fattasi minimale, incapace di rivendicare il suo posto nella globalizzazione che avanza e che vede sempre più concorrenti molto energici e potenti sulla scena della modernità.
A pensarla così è certamente una buona parte di coloro che non vedevano e non hanno visto nell’amministrazione Biden una inversione di rotta rispetto al passato e che, quindi, Trump ha facile gioco nel definire come il peggio del peggio per l’interesse americano. Anzitutto per questo.
Dalla Nuova Zelanda all’Argentina, da alcuni paesi africani ad altri europei, la destra ultraliberista finge di essere patriotticamente interessata al bene comune e sociale, mentre non fa che sostenere la piena libertà di azione per il liberismo che dalla fase ordoliberale passa a quella dell’anarco-capitalismo alla Milei.
Se davanti ai fatti di Capitol Hill la reazione era stata, soprattutto da parte di una fetta di trumpiani, l’abbandono al suo destino del presidente-eversore sconfitto, oggi è davvero difficile poter considerare gli equilibri di forza elettorale di allora come anche qualcosa di soltanto avvicinabile alla situazione completamente mutata della stretta attualità dell’anno presidenziale 2024.
Donald Trump, così, può giocarsi la carta della legittimità senza contraddire alcun principio, sapendo di avere dalla sua anche la maggioranza della Corte Suprema (sei giudici su nove sono di smaccata fede conservatrice e di smaccata simpatia per il MAGA).
Se vincerà le primarie repubblicane in Carolina del Sud, la strada verso la candidatura alla presidenza sarà spalancata, mentre sull’altro fronte, la proposta democratica di riproposizione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, potrà avere una possibilità di affermarsi nel novembre prossimo soltanto come unica possibilità di evitamento dell’autoritarismo trumpiano, della minaccia di uno stravolgimento dell’identità liberale e democratica del Grande Paese.
Il voto giovanile, in questo caso, dicono molti analisti, farà la differenza tra Trump e Biden. O, per meglio dire, farà una delle differenze che, siccome è sempre la somma che fa il totale, determinerà la vittoria di Joe su Donald. Non è un mistero, infatti, che una buona fetta di studenti universitari sia orientata a preferire una politica governativa più sociale, interessata alla tutela del mondo del lavoro e della conoscenza, alle tematiche ambientali e alla sostenibilità di una vita sempre meno garantita.
Il mondo del fervore religioso, tra gli altri, gioca la sua parte nell’orientamento di un voto che si prospetta come una guerra civile non dichiarata, come qualcosa di mai visto fino ad oggi nell’alternanza tra il partito dell’elefante e quello dell’asinello. Le chiese protestanti sembrerebbero propendere più per Trump, mentre quelle cattoliche per Biden. Ma anche qui è molto complesso poter segnare una linea netta di demarcazione tra culture e tra riferimenti empatici che mettano insieme fede e politica e viceversa.
Di sicuro si possono rilevare delle tendenze, ma l’incertezza del quadro mondiale, le influenze che anche la politica estera ha sul voto americano, rendono tutto molto più incerto, indefinito e indefinibile.
Di sicuro, al momento, vi sono soltanto l’unica candidatura democratica nella figura di un ottuagenario presidente percepito come debole sia politicamente sia fisicamente e, di contro, il suo avversario che indossa i cappellini sportivi, la cravatta rossa e che tuona contro il completo fallimento del duo Biden-Harris.
In una dimensione dai contorni quasi distopici, in una America solcata dalle tante diseguaglianze che non sono state riformate e ridotte in questi ultimi quattro anni di presidenza democratica, la speranza che Biden può avere è quella – molto argutamente descritta in alcuni articoli di giornale – di divenire nel corso di questi mesi “il secondo uomo più detestato dagli americani“.
Trump punta ad un rafforzamento dei poteri presidenziali, ad una sua elevazione al di sopra del Congresso che, secondo la Costituzione, è e rimane la più alta espressione della sovranità popolare. Il progetto eversivo riguarda anzitutto l’affermazione di un modello di società in cui a dominare sia la sola variabile del mercato e in cui lo Stato non rappresenti niente altro se non una appendice dipendente tanto dalle fluttuazioni borsistiche quanto dalla volontà del Presidente-Padrone-Dittatore.
Non è improprio utilizzare quest’ultimo termine, anche se può sembrarlo oggi, perché la dittatura, come la democrazia, è una protagonista delle vite di interi popoli nel mondo attuale.
Si esprime in molte forme, in diverse figure istituzionali e, se si facesse un calcolo della popolazione globale che vive sotto regimi considerati democratici rispetto a altri considerati invece autoritari, si potrebbe facilmente desumere che la maggioranza degli otto miliardi di esseri umani è governata da autocrati piuttosto che da persone elette in un contesto pienamente pluralista.
L’argomento è spinoso, perché investe certamente le convinzioni politiche, sociali, culturali e morali di ognuno di noi.
Ma grosso modo, concordando sul fatto che una democrazia è anzitutto un equilibrio tra i poteri dello Stato, una prevalenza del parlamentarismo (o del congressismo, come nel caso americano) rispetto al potere esecutivo e presidenziale, e il rispetto pieno di qualunque opinione e critica, unitamente ad un tasso di giustizia sociale che non può essere secondario in questa valutazione, si può dire che meno del 10% degli abitanti del pianeta sia abituato a vivere in una democrazia.
Dunque, la domanda è: gli Stati Uniti d’America sono, fatte queste considerazioni, una democrazia pienamente tale, compiuta e consolidata? Se riteniamo il liberismo un pericolo per la stabilità dei diritti tanto sociali quanto civili, la risposta che viene da dare è: no. Gli USA sono una democrazia capitalistica, un regime che obbedisce alle leggi del mercato e che, quindi, risponde anzitutto all’economia dominante, alla classe imprenditoriale e all’affarismo finanziario delle proprie leggi e delle proprie regole.
Il Novecento non ci ha lasciato soltanto l’eredità del dilemma tra coniugabilità della democrazia con il socialismo. Ci ha lasciato anche la strettissima attualità del problema di una ingestibilità della società mediante una condivisione valoriale e pratica tra forma democratica e sostanza liberista. L’autoritarismo è la conseguenza di un irrisolto rapporto dicotomico tra uguaglianza enunciata e una sua resa pratica mai veramente attuata.
I fenomeni eversivi alla Donald Trump riescono a fare breccia in queste contraddizioni che sono insuperabili se non con una nuova stagione di riforme su vasta scala che mettano mano ai diritti sociali e sostengano quelli civili e umani.
Mancando sul primo punto, anche gli altri, di conseguenza, non trovano una afferenza con le tribolazioni di decine di milioni di americani passati per la pandemia, per le restrizioni economiche e, ora, per le nuove avventure di guerra: dall’Ucraina al Medio Oriente.
L’instabilità statunitense parla al cosiddetto “mondo occidentale” per intero e mostra la crisi del modello democratico davanti al completo vuoto della banalità del male che si rinvigorisce nei comizi del magnate spericolato, di quello che, ad ogni costo, va evitato come nuovo presidente della Repubblica stellata.
MARCO SFERINI