Il caso di Giovanna Pedretti è un esempio della deriva definitiva del contemporaneo. Siamo un paese fascista, il fascismo è sempre più sottile, livido, infingardo. Suicidio, omicidio, gogna mediatica, accusa di aver strumentalizzato la questione della disabilità. L’ingiustizia di aver devastato psicologicamente un essere umano, al di là dell’errore che possa aver fatto o meno, ora basta con questa intransigenza, con il giudizio implacabile e insindacabile. In ogni caso, scene fasciste le ho viste in altri luoghi con i miei occhi. Io ero con una stampella a cena con amici in sedia a rotelle, e non c’è stato un istante in cui non abbiamo sentito sguardi ostili e pietistici su di noi. Da un anno e mezzo vivo una condizione che mi impone di guardare il mondo da un’altra prospettiva. L’evento è così recente da non farmi ancora accettare questa parola: disabile. Sarebbe una piccola disabilità, certo, mi dicono che non si vede, che sembra abbia preso una storta o mi sia fratturata un piede, in fondo cammino, anche se zoppico un po’. Eppure, cosa è accaduto in un anno e otto mesi? In ospedale, tutti in prima linea. Una volta fuori, il deserto, l’abbandono. Il messaggino del come stai (ma come devo stare?), quando l’unica cosa da fare è andare a incontrare una persona che si ipotizza non stia bene, chiederle se abbia bisogno di qualcosa, proporle di uscire. Ma, si sa, questo non è un paese per disabili. Ma stai benissimo, dai, alla grande, ti stai riprendendo meravigliosamente, andrà sempre meglio, buona guarigione. Una guarigione che durerà tutta la vita, dal momento che il danno è permanente. Questo, simultaneamente alla sparizione. Sparizione del mondo. Avrò un altro spunto, un altro umano inferno su cui indagare. Ma sei tu che devi adeguarti, sei una diversa, non lamentartene, devi dire per favore, scusa, prostrarti ai piedi di un uomo, implorarlo di stare con te, prostrarti ai piedi dei conoscenti, chiedergli se per caso abbiano voglia di trascorrere certi giorni in tua compagnia. Volete l’immagine angelicata del disabile buono e innocente? Non è la realtà! Una persona che fa fatica a fare tutto ciò che per gli altri è scontato, è soprattutto incazzata, non è un angelo, non è un santo o una santa. Io non elemosino attenzioni. Io mi torco dalla nausea. Persone sedicenti normali mi hanno detto che condividere lo spazio con delle persone in carrozzina li impressionava. Un’amica dice: Non riesco a trovare un uomo, mi scrivono dei messaggi, poi dicono di non voler uscire con me, perché sono disabile, perché lo dico, invece bisogna nasconderlo. A me dicono: Tanto ci sono i tuoi, si occupano loro di te. Come se poi fosse facile dividere una casa piccola, per una persona, con un solo bagno con i genitori, dopo quindici anni di vita adulta, autonoma e randagia. E, per inciso, occuparsi dei disabili spetterebbe alla sanità pubblica, al centro per l’autonomia; tutto ciò che pago di tasca mia (taxi, collaboratori domestici) dovrebbe essere gratuito e immediato quando una persona diventa – in qualunque percentuale – disabile. Ma, si sa, in un regime che funzioni, i primi tagli urgenti sono quelli alla sanità pubblica, con la conseguente estromissione di tutte le diversità. Questa modalità dilaga al punto da intridere l’intera mentalità. Il fascismo si esercita in primo luogo sui corpi, conseguenza della fascistizzazione dell’immaginario. È sarcasticamente divertente che nello stesso istante mi sia arrivata la notizia della morte di Giovanna Pedretti e una pubblicità di liposuzione e gluteoplastica. I nostri corpi devono essere disciplinati da un immaginario di acefala perfezione, senza più cura per le individualità, per le differenze che ci rendono umani. Senza più fascino.
Ho pensato fino a ieri, lo penso spesso, che avrei preferito la morte a questa condizione di costante infermità, di mutazione del corpo, di radicale disobbedienza del corpo a qualunque canone. L’idea della morte mi assale apparentemente a causa dei dolori lancinanti che mi assediano da più di un anno e mezzo, ma – in una prospettiva più profonda – non nego che ciò accada anche a causa della trasformazione dell’identità sociale quando sei in uno stato di sofferenza dichiarata. Bisogna soffrire in silenzio. E bisogna accettare tutto. Così, nell’abisso dell’identità sociale, si perde l’identità personale. Non sai più chi sei, non sei più nulla, solo una persona in difficoltà, beh, sì, poverina, in fondo, no? Ti chiedi se hai sbagliato a parlarne, se hai detto qualcosa di sconveniente. Sì, l’ho fatto, ne sono certa, mi sono fotografata ogni giorno in ospedale. Ho sbagliato? Può darsi. Può darsi. Sarebbe stato più affascinante il mistero, il silenzio, lo è sempre. Ma avevo bisogno di farlo. Questa seconda vita inserita nella memoria – e nel rimpianto – della prima è durissima, ma non voglio essere chiamata poverina, non voglio essere messa a tacere, scelgo l’autonomia. Ma come posso uscire serena di casa se a ogni passo il giudizio trafigge più dei dolori articolari? Come posso essere me stessa quando la paranoia dilaga dentro e fuori dai social, e bisogna badare a ogni immagine, a ogni parola per non finire in una qualunque gogna? Le parole sono sempre più politicamente corrette e i comportamenti sempre più escludenti, fascisti. Diversamente abili saranno le vostre idee sulla vita, sui corpi, sul dover essere, che a me personalmente non interessa. M’importa solo il caos, disobbedire a ogni istanza