In parallelo con la trattazione nell’aula del senato del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata si sono svolte manifestazioni di protesta in numerose città italiane. Dalle cronache locali traiamo una valutazione generale: molte piazze, poca gente. Il bicchiere è mezzo pieno, o mezzo vuoto?

È giusto dire che sia mezzo vuoto e dobbiamo chiederci perché. Per una parte, la ragione si trova nella ormai ridotta capacità della politica di mobilitare la partecipazione popolare. È lo stesso motivo per cui vediamo che quasi metà del corpo elettorale – e in qualche caso ben oltre la metà – diserta le urne. Ma nella specie troviamo anche ragioni ulteriori, specificamente riferibili al ritardo con cui una sinistra variegata e frantumata ha preso atto della pericolosità del disegno leghista, e per qualche parte ha addirittura fatto proprie le sue lusinghe.

Chi ha partecipato alle manifestazioni è stato poi colpito da una generale assenza dei giovani. Piazze dominate dai capelli brizzolati sono un problema nel problema. Una battaglia contro l’autonomia differenziata trova il suo significato più vero nel rivolgersi a chi avvia oggi il suo percorso di vita.

Qui non si tratta di essere passatisti in cerca di un mondo che non è più. È la scelta – tra quelli possibili – di un futuro da orientare secondo i valori in cui si crede: per noi, eguaglianza, diritti, partecipazione democratica. Bisogna fare di più, nella capacità di mobilitare, spiegare, convincere.

In senato la maggioranza di destra vuole arrivare al voto finale in tempi brevissimi. Lo scenario delle riforme rimane quello della competizione tra la Lega e gli altri partiti della maggioranza in vista dei prossimi turni elettorali (europee e non solo), che si incrocia con vicende interne delle singole formazioni.
Le opposizioni devono essere consapevoli di alcune questioni.

La prima. Il carrozzone delle riforme non si fermerà, e anzi potrà vedere tempi ulteriormente accelerati sia per l’autonomia differenziata, che per il premierato.

La seconda. I tempi saranno determinati dalle problematiche interne alla coalizione di destra.

La terza. Non c’è possibilità di partecipare alla strategia di riforme della maggioranza, che mira a una destrutturazione della Repubblica così come l’abbiamo fin qui conosciuta, e a un rivolgimento radicale.

La quarta. Non basta una strategia parlamentare di contrasto, per i numeri dati alla maggioranza dalla pessima legge elettorale vigente.
La quinta. Bisogna affiancare da subito una più efficace strategia di contrasto nel sociale, nuova nella comunicazione e nella individuazione dei mondi cui fare riferimento. Da questo punto di vista, la Via Maestra costruita intorno alla Cgil può essere uno strumento essenziale.

Nella seduta di mercoledì 17 il ministro Calderoli mi onora di una citazione, volta a dimostrare che nel 2000 non avevo preso le armi contro la riforma del Titolo V della Costituzione. All’epoca, lo stato maggiore del centrosinistra pensava che la riforma avrebbe portato vantaggi al Nord nel voto del 2001. Un drammatico errore, come i fatti dimostrarono. Esistendo ancora partiti degni di questo nome, manifestai tutto il mio dissenso riservatamente nel gruppo dirigente, senza successo.

Ma quel che penso della riforma del Titolo V lo misi agli atti nel 2003, presentando un disegno di legge costituzionale (Atto senato 2507) in cui – oltre a riscrivere in modo radicale il rapporto tra le competenze legislative dello stato e quelle della regione – proponevo la soppressione integrale dell’articolo 116 della Costituzione. Non ho mai cambiato idea. Anzi, l’esperienza del regionalismo dopo la riforma del Titolo V ha solo consolidato le mie convinzioni.

Capisco che il ministro Calderoli voglia far rivivere l’antico sogno leghista. Ha difeso a spada tratta la norma transitoria che nel suo disegno di legge apre la via alle regioni che abbiano già avviato procedure di intesa (leggi Lombardia e Veneto, ed ecco la vera bandierina per le europee). È il primo passo della strategia che vuole «rivoltare il paese come un calzino», secondo il Meloni-pensiero.

Bisogna essere pronti ad alzare il livello di scontro, qui e ora, anche con lo strumento referendario. Meloni sembra cercarlo, comprendendo che non ha modo migliore di legittimare una «sua» Costituzione in presenza del parlamento meno rappresentativo della storia repubblicana. Ma battendoci a fondo nel voto popolare possiamo avere fiducia che a Giorgia Meloni il popolo sovrano toglierà il calzino, e anche le scarpe.

MASSIMO VILLONE

da il manifesto.it

foto: screenshot

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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