Quel che stupisce di più, nelle parole profuse dai sostenitori dell’autonomia differenziata, è la loro annebbiante fumosità: si prospettano maggiori competenze, meno centralismo, efficienza, responsabilizzazione degli amministratori, razionalizzazione della spesa. Nessuno, dico nessuno, che ci spieghi, con semplicità, il cuore della questione: perché il ddl Calderoli non farà ulteriormente retrocedere le Regioni meridionali, anzi tutto il contrario. Nessuno, ancora, che ci spieghi, con semplicità, perché questo ddl non aggraverà ulteriormente gli Italiani di tasse e burocrazia. Nessuno che ci spieghi, con semplicità, perché il ddl rafforzerà l’unità del Paese. Potrei andare avanti con le domande. Ma i politici eluderanno le risposte: nella sostanza mentiranno. Mentiranno quelli al governo; e mentiranno quelli all’opposizione perché ometteranno di ricordare che la riforma del titolo V della Costituzione l’hanno voluta e approvata loro quando erano al governo nel 2001.
A fronte di tutto questo, l’altro ieri i parlamentari veneti della Lega hanno sventolato, nel Parlamento italiano, la bandiera di San Marco: ecco il segnale che, con questo ddl, l’Italia sarà più unita; e il Veneto di Zaia, ancora più unito all’Italia.
Zaia. Il Presidente – non Governatore, please – del Veneto si è fatto più volte paladino della sovranità popolare (del popolo veneto), rivendicando di avere con sé i veneti che, con più del 98 % dei votanti, hanno approvato il referendum consultivo sull’autonomia differenziata indetto dalla Regione Veneto nel 2017. A parte che, in quell’occasione, andò a votare (solo) il 57% dei veneti, il quesito proposto era inconsistente: vuoi che al Veneto sia concessa una maggiore e più intensa autonomia? Per chi aveva scelto di votare opporsi sarebbe stato come rifiutare una donazione, meglio una promessa di donazione. Perché, non c’è dubbio, i promotori dell’autonomia differenziata pensano ai vantaggi derivanti ai loro territori e lo stesso pensano una parte cospicua dei residenti in quei territori. E Zaia, corredato di questa dote per i suoi elettori, pensa al (suo) terzo mandato che, poi, per lui sarebbe il quarto; con la possibilità teorica, se venisse abolito il divieto ora esistente, di farsi complessivamente altri tre mandati. In tutto sei mandati. Domando: trent’anni di Presidenza sarebbero congrui in una repubblica democratica? Un’operazione pressoché identica, abolizione del divieto del terzo mandato, è avvenuta in Cina e in Russia, per incoronare i rispettivi Presidenti praticamente a vita.
I nostri politici, se non mentono, non hanno cognizione concreta di quel che vanno affermando; e, in parte, credo sia anche così. Menzogne e ignoranza conducono alla manipolazione di massa di fatti e opinioni. In Verità e politica Hannah Arendt ci aveva avvertito che l’Occidente stava navigando bellamente verso questi lidi; e ci aveva ammonito a fare scudo con l’istruzione. Ma l’istruzione sta diventando una chimera in tutto il nostro Paese. E, se passerà l’autonomia differenziata, ci salverà l’istruzione governata dalle diverse Regioni, che vorranno la primazia delle culture dei propri territori, in scuole e università made in Veneto o in made in Lombardia o made in Emilia-Romagna?
Ma, sostengono dal governo, l’unità è salva perché il ddl Calderoli è in accoppiata con il ddl Casellati. E qui si capisce il progetto ambizioso, criptato ma evidente, e destinato al fallimento, con gravissimo danno per l’Italia. È un progetto sopravvenuto: cioè non è stato pensato ab origine, ma composto in corsa. La Lega, in effetti, batte e ribatte sull’autonomia da anni e anni, dopo avere accantonato il sogno della secessione (freddamente, osserverei, non vi sarebbe stato nulla di male se una parte della penisola, le Regioni più ricche, si fossero staccate, ma sarebbe stato necessario avere forza e consenso per realizzare questa fattualità …). Ma all’autonomia differenziata FdI (o, prima, An e, prima ancora, MSI) mai avevano pensato. Anzi, l’ascendente di FdI, l’MSI nel 1970 aveva votato contro l’attuazione del regionalismo previsto dalla Costituzione del ’48, tanto più contenuto del regionalismo di Calderoli, l’epigono evoluto del secessionismo della prima ora.
E allora? La Meloni ha barattato premierato con l’autonomia differenziata? Può essere. Ma ritengo più probabile che lei pensi di farcela, che si sopravaluti, come più volte ha dimostrato illudendo i suoi fan. Il ragionamento, che dovrebbe aver fatto insieme ai suoi consulenti (tra cui il proteiforme Sabino Cassese), è questo all’incirca: a ben vedere, un ‘ragionamentino’ facile facile quanto fallace.
L’archetipo che i meloniani – e i loro consiglieri a gettone – dovrebbero aver posto a fondamento della commendevole accoppiata Calderoli-Casellati è la Costituzione federale degli Stati Uniti d’America del 1787: un equilibrio sapiente tra Stato centrale e Stati federati. Ai signori del governo italiano questa formula dev’essere apparsa, oltre che qualificatissima, come una specie di grimaldello in grado di farli uscire dal vicolo cieco in cui si erano cacciati. Allora, diamo pure l’autonomia con l’estensione (amplissima) che i territoriali esigono, ma approviamo la riforma costituzionale e dotiamoci finalmente di un Presidente del Consiglio (non premier, please) forte perché investito dal popolo quale è, per esempio, uno come Joe Biden. E qui si sono fermati, i signori del governo. Essendo dei semplici, ragionano semplicisticamente.
La questione, o le questioni, sono costituzionalmente molto complesse. Gli USA sono nati così e sono ancora così. Soprattutto la formula è costituzionalmente non ambigua, ma risponde a un preciso, e collaudato, modello, quello dello Stato federale. Ohio, Nord Carolina, Georgia, Wyoming, California ecc. sono Stati veri e propri. E la Repubblica è appunto una repubblica federale. La nostra è, stando all’inequivocabile dettato dell’art. 5 Cost., «una e indivisibile»: cioè, il modello è antitetico a quello americano. E le Regioni? Sono funzionali alla migliore realizzazione del principio di autonomia locale. Attenzione: non sono Stati federati. La Costituzione dava loro una certa, limitata, potestà legislativa sottoposta, però, al vincolo del rispetto del superiore interesse nazionale e dell’interesse delle altre Regioni. La riforma del titolo V ha spazzato via questo vincolo e ha esteso notevolmente la griglia delle materie su cui le Regioni sono titolate a legiferare; e ha anche previsto (art. 116) che le singole Regioni possano richiedere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», da realizzare entro l’ampio novero delle materie loro assegnate dall’art. 11; e anche relativamente ad alcune delle materie riservate allo Stato dal medesimo articolo.
Al di là delle tecnicalità, tutto ciò significa trasformare di sottecchi le nostre Regioni in Stati federati di una Repubblica che, però, resta «una e indivisibile»: l’esito non sarà, però, un compromesso, ma un pasticcio senza né capo né coda. Un pasticcio che o impoverirà ulteriormente le Regioni del Sud (ipotesi più probabile) o finirà con il costringere a maggiori esborsi i cittadini italiani (perché garantire comunque i livelli essenziali dei diritti civili e sociali su tutto il territorio nazionale costerà tanto e certamente non implementerà l’efficienza dell’amministrazione).
Ci sarà il premier eletto da tutto il popolo italiano, sostengono i signori del governo. Ma questo premier non ha nulla in comune con il Presidente degli USA: comparare le discipline per credere. Non ha nemmeno il divieto del terzo mandato, che caratterizza la Presidenza americana. Soprattutto non ha i poteri del Presidente americano, né vi è un equilibrio costituzionale come negli USA, dove il presidenzialismo è temperato dalle elezioni di mid term che possono mettere di fronte al Presidente, due anni dopo la sua elezione, una maggioranza del Congresso a lui contraria. Quanto a noi, è indubbio che questo agognato premier – che, poi, verificandosi certe circostanze potrebbe non essere neanche quello eletto dal popolo: impossibile negli USA – verrebbe ad indebolire la figura, il ruolo, l’autorevolezza del Presidente della Repubblica. I fautori del ddl Casellati lo negano. Ma non può essere così, per la fattualità del potere, anche in democrazia: il premier di regola avrebbe l’investitura popolare. Ciò arrecherebbe un vulnus mortale o quasi al modello di repubblica parlamentare adottato, a torto o a ragione, dai Costituenti italiani. Anche da questa parte, dunque, una riforma non di dettaglio, ma pesante, realizzata di sottecchi.
Si può? Se vi saranno i numeri, sicuramente. I costi di sistema sarebbero elevatissimi. La Repubblica italiana ne uscirebbe scomposta: le Regioni non più le Regioni di prima (anzi, non più nemmeno Regioni); il Presidente non più il Presidente di prima. Un Presidente depotenziato sarebbe un bene? Certo ne sarebbe minato il vertice dello Stato che, per una strana alchimia, è finora riuscito a comporre, nei limiti del possibile, quel poco di unità nazionale che ci restava: lo dimostra l’alto grado di consenso di cui i nostri Presidenti hanno in genere goduto presso i cittadini.
Al di là di astratte gerarchie e formalismi, entrambe queste riforme (anche il ddl Calderoli, intendo) sono costituzionali e cambieranno profondamente gli assetti del potere pubblico in Italia. Per come sono state concepite e per come sono state casualmente combinate, per l’assenza di reale ponderazione della loro portata, per la faciloneria che le denota, è difficile pensare che possano migliorare l’esistente. Se verranno approvate, c’è solo da sperare che qualcuno reagisca. Le garanzie ci sono: la Corte costituzionale e il corpo elettorale chiamato a referendum popolare. Vediamo che succederà. Ma medio tempore, prima cioè che queste garanzie possano attivarsi e innescare il ripristino della situazione antecedente, è prevedibile che i ddl, divenuti leggi, causeranno disagi e danni da non poco.