Il confronto fra la Storia e l’attualità è sempre un azzardo se si pretende di stabilire non tanto un nesso causale, logico e cronologico, con gli effetti sortiti da avvenimenti accaduti in precedenza, quanto, semmai, avere la pretesa di far assomigliare il passato col presente al fine di distorcere il primo in favore del secondo, per accomodanti ragioni di propaganda politica.
Eppure, non c’è partito, movimento o ambito culturale e sociale che non sia stato, nel corso della sua esistenza, tentato da questo raffronto, da questa tendenza ad una equipollenza necessaria per creare dei presupposti giustificazionisti rispetto a ciò che, sulla base proprio del passato, si intende fare nella contingenza dell’attualità, del momento presente.
Così, i neofascisti si sono proclamati eredi del mussolinismo di primo modello, dal 1919 in avanti, passando per la più truce torsione repressiva e omicidiaria della repubblichina di Salò. E così, pure, qualcuno ha pensato bene di mettere sullo stesso piano, nel nome della “pacificazione” tanto della memoria quanto delle nazioni che vivono questi contrasti storici, fascismo, nazismo e comunismo.
I fatti non solo diventano materiale plastico da modellare a piacimento, a seconda delle occasioni in cui si trova a dover gestire il potere o a compartecipare a questa gestione, ma, peggio ancora, subiscono quella rivisitazione revisionistica che, se da un lato è malfidata riscrittura della veridicità storica di quanto accaduto, dall’altro è anche il tentativo di appropriarsi di una eredità universale per farne qualcosa di estremamente particolare ed esclusivo.
In questa esclusività finisce col prendere sempre più corpo una tendenza dogmatica che non soltanto non legge criticamente la Storia con la esse maiuscola e, quindi, anche la propria storia dentro la prima, più grande e universale, ma la strumentalizza rendendola alibi per qualsiasi azione uguale e contraria tra il passato orrorifico vissuto e il presente altrettanto orrorifico fatto vivere ad altri popoli.
Se le operazioni di revisionismo storico fatte da certi pseudo-studiosi dell’Olocausto sono naufragate soprattutto grazie alla contronarrazione di veri storici che hanno smontato tutte la falsità scritte e dette sull’inesistenza delle camere a gas nei campi di sterminio del Terzo Reich, oppure sulle ragioni delle morti di massa in altri lager del sistema concentrazionario, e quindi alla vera e propria prova dei fatti le illazioni e le fantasie si sono sciolte come neve al sole, molto più difficile diventa oggi impedire che la storia dello sterminio sia rivendicata come valore morale assoluto.
Ci si intenda: non vi è nulla di male se la più terribile pagina buia della storia dell’umanità diviene esempio, fondazione costante della memoria, alimentazione progressiva di un ricordo del particolare e del tutto che rimandi al raffronto tra l’ieri e l’oggi per evitare che si ripropongano le condizioni affinché un genocidio di così vaste proporzioni possa ripetersi. Questo è ciò che si propone il 27 gennaio di ogni anno la Giornata della Memoria, per l’appunto.
Diverso è, invece, assolutizzare l’Olocausto e farne un pregresso di garanzia per sé stessi, dichiarando che, proprio in virtù del fatto che il proprio popolo ha subito gli orrori del nazismo nel corso della Seconda guerra mondiale, dopo secoli di antisemitismo sparso tra le varie nazioni europee, ad iniziare dalla ghettizzazione fondamentalmente di carattere religioso, qualunque cosa oggi si faccia è sicuro che vada nella direzione del bene e non del male.
Rovesciando questo paradigma, dovremmo pensare che, visto che i tedeschi e gli italiani hanno prodotto le due più feroci dittature del Novecento, xenofobe, razziste, suprematiste e totalitarie in tutto e per tutto, allora qualunque nostra azione di oggi dovrebbe portare lo stigma pregiudiziale, in negativo rispetto a quello che il governo israeliano attribuisce a sé stesso riferendosi all’Olocausto, del sospetto che dietro ogni atto di governi e istituzioni vi sia quell’istinto primordiale malefico.
Non funziona così. Ogni volta che in Occidente si ritiene di poter giustificare qualunque atto di Israele, da almeno sessant’anni a questa parte, invocando la protezione storica dello spettro olocaustico, si fa un cattivo servizio tanto alla storicità del dramma genocidiario del passato quanto all’attualità di un presente in divenire in cui la società israeliana, in effetti, si va costruendo sempre più sulle macerie di un altro popolo.
Macerie morali, materiali, cumuli di cadaveri su cui nessuno Stato può dirsi fiero della propria esistenza.
Se il rapporto tra ieri e oggi comportasse necessariamente una correlazione morale e civile, oltre che di consequenzialità dei fatti, ne dovremmo convenire che l’oggettività della Storia dovrebbe fare i conti con una trattazione soggettiva che le impedirebbe di essere descritta per quello che è: il racconto particolareggiato e minuzioso di quello che è accaduto nel passato, per immedesimarci al punto tale da prende ciò che di utile può oggi servire per migliorare i rapporti tra i popoli e, quindi, evitare una coazione a ripetere di tutto ciò che ha frenato il progresso, che ha distrutto invece che costruire.
Se ragionassimo su una schematizzazione davvero acritica della Storia, dovremmo pensare di poter tagliare con l’accetta dell’approssimazione l’ieri nel nome di un oggi sempre più banale. Una banalità che è male, perché il semplificazionismo è superficialità, è guardare senza vedere, è scrutare senza spingersi oltre le apparenze. Se davvero potessimo fare della memoria una variabile dipendente dei nostri sentimenti politici, delle nostre simpatie per queste o quelle culture, finiremmo con l’utilizzare i fatti storici a piacimento.
C’è peggiore revisionismo storico di questa attitudine al trasformare la Storia in una sorta di mercato in cui si selezionano solo i fatti che ci sono utili e ci piacciono e si tralasciano quelli che, invece, ci possono essere di nocumento come cattiva coscienza, come autoanalisi di una consapevolezza che si vuole occultare e tralasciare?
Siccome tra il 1934 e il 1945 tra il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini ed Adolf Hitler intercorsero rapporti amichevoli, si potrebbe da ciò far discendere che tutti i palestinesi sono dei nuovi nazisti oggi?
Così, di per sé, astraendo il tutto dal contesto, isolando una storia dalla Storia, si potrebbe pensare che, siccome nel corso della Seconda guerra mondiale, nel cuore dell’Europa sono stati sterminati sei milioni di ebrei, i loro discendenti di oggi debbano per forza essere tutti immuni da sentimenti politici (e religiosi) autoritari e repressivi?
Purtroppo l’aver subito uno sterminio di massa non è di per sé quella garanzia di irripetibilità, a cominciare dalle coscienze, di pulsioni emotive e di azioni pratiche che siano all’origine di nuove tragedie. Questo perché il mondo in cui viviamo è fatto di potere.
E il potere stabilisce delle gerarchie: l’economia indirizza i governi degli Stati a fare in modo di proteggere adeguatamente i privilegi delle classi dominanti; e le istituzioni, pur dentro un rispetto formale della memoria degli orrori del passato, sono indotte a fare di tutto per mettere in atto queste tutele.
Ciò non assolve la politica dagli intenti genocidiari dell’oggi, così come non può essere assolta se si guarda alle ragioni che hanno permesso ad uno sfaccendato perdigiorno di entrare nella scena della Storia mondiale per il viatico di un movimento nazionalista che dai proclami antisemiti è passato ben presto alla repressione sistemica, al terrore organizzato, alla pianificazione dello sterminio di tutti coloro che reputava “inferiori” rispetto alla superiorità della “razza ariana“.
Necessariamente, a questo punto, tocca mettere in correlazione tanto la questione del potere per il potere quanto quella della gerarchizzazione degli esseri viventi. Può sembrare una cavillosità, un deviare persino dal discorso principale sul rapporto tra antisemitismo, antisionismo di ieri e di oggi, ma la problematica dell’antropocentrismo non è un capriccio moderno che si inserisce nella grande, caotica evoluzione del nuovo millennio.
Il razzismo, di cui l’antisemitismo è espressione, sembrerebbe concernere la sola specie umana. Ed infatti, così è: quando parliamo di razze, noi ci riferiamo a noi stessi, non agli animali (non umani). Per le differenze soprattutto di origine, che danno luogo a diverse pigmentazioni della pelle, a differenti culture religiose, filosofiche, politiche, a tradizioni e costumi disparati, l’identità è divenuta, nel corso dei secoli, un elemento di distinzione e non più di confronto.
Una grande civiltà globalizzatrice, come quella rappresentata dalla Roma dei Cesari, ragionava in termini di utilità soprattutto economica e, quindi, nel vasto impero che abbracciava tre continenti, senatori, comandanti militari e, in particolar modo, i principi le etnie erano considerate naturalmente parte di un mondo complesso e non riducibile alla sola romanità. Perché gli ebrei, invece, divengono un problema per Roma?
Perché lì la rivendicazione nazionalista si fa sentire e pretende quindi di fare di un popolo qualcosa di organizzato esattamente nei termini in cui si era organizzato, molti secoli prima, quello romano dopo la grande pagina di storia etrusca (e cartaginese). Ogni predicazione profetica diventa minaccia per lo Stato dell’Urbe, ed ogni organizzazione armata è sinonimo di quello che noi oggi chiameremmo “terrorismo“.
Al centro di tutto vi sono sempre i rapporti tra inferiorità e superiorità: economica, sociale, culturale. Tra umani che si contendono una sopravvivenza a scapito di altri.
L’antropocentrismo è, anzitutto, la considerazione dell’umanità come una sfera di particolari privilegi esistenziali che prescindono da tutto il resto. Per perpetuarsi, la specie umana ha fatto di tutto: ha asservito tutti gli altri esseri viventi, ha cercato di dominare la natura e, da tutto questo, ha fatto discendere il concetto di dominio come essenziale per l’autoconservazione.
Roma caccia nella diaspora gli ebrei, ne distrugge la civiltà, perché è persuasa che in questo modo vi sarà una minaccia in meno per l’impero. Roma si infiacchirà e cederà all’usura del tempo non a causa dell’ebraismo, ma a causa delle spinte migratorie che proverranno da regioni sempre più inospitali per i popoli dell’Asia e del Medio Oriente. Roma sarà divorata, nella sua espressione culturale e nella strutturazione del suo potere, dal sorgere del Cristianesimo come potere accanto al potere.
Gli esseri umani, quindi, ritenendosi superiori a tutti gli altri esseri viventi, hanno trasfuso questa concezione gerarchica entro la loro stessa specie e hanno, dopo la scoperta del sovraprodotto sociale (quindi la nascita del commercio e la fine del semplice baratto tra i prodotti, divenuti così “merci“), iniziato a garantire per sé stessi quelle ricchezze che altri non avrebbero potuto avere.
Una serie di ragioni economiche, socio-antropologiche e culturali non ha fatto e non fa altro se non essere il punto di caduta perfetto per la continua proposizione del potere alla base di tutto e della ragione stessa del vivere. Oggi Israele, come ha anche ha decretato la Corte di giustizia internazionale dell’Aja, è sospettabile di mettere in pratica un genocidio nei confronti del popolo palestinese, a Gaza come in Cisgiordania, in un vero e proprio regime di apartheid che, infatti, il Sudafrica riconosce come spettro attuale della propria storia passata.
Sembrerebbe un paradosso tra passato e presente, tra memoria e futuro, tra ricordo delle proprie origini in quanto Stato nato dalla tragedia olocaustica novecentesca e stretta attualità di una guerra in cui sono morti già quasi trentamila palestinesi: per la maggior parte donne e bambini…
Sembrerebbe un paradosso e, in effetti, deve esserlo. Ma siamo sicuri che lo sia per Netanyahu, per il governo che presiede e per i comandanti di Tsahal? Facciamoci una domanda molto ingenua, facendo finta di non aver scritto niente fino ad ora: perché gli ebrei, proprio perché hanno subìto l’orrore della Shoah ieri, e gli israeliani che hanno subito l’altro orrore, quello dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, invece di cercare una soluzione pacifica al conflitto con i palestinesi, ne provocano la distruzione sistematica?
E’ davvero una domanda ingenua se si pensa di rispondere con gli strumenti del confronto storico che si citava all’inizio di queste righe. Se si ci può permettere di ritenere che basti un confronto con quello che i propri genitori e nonni hanno dovuto passare sotto la furia sterminatrice hitleriana per creare un sussulto nelle coscienze della classe politica che fermi improvvisamente la guerra e faccia tacere cannoni, mitragliatrici, bombe e droni.
Possiamo adire a tutte le sentenze della Storia possibili, ma perché questa possa essere maestra – ricordava Alessandro Barbero – serve qualcuno che sia disposto ad imparare.
E, caso mai qualcuno fosse anche così in buona fede da cercare di evitare gli errori del passato su di sé, come interprete moderno di quello che i propri avi hanno patito nell’Europa della prima metà del Novecento, saprebbe sottrarsi completamente alla miriade di interessi economici e finanziari che lo tirerebbero per la giacca una volta alla guida di un governo?
Di sicuro è difficile poter essere completamente indipendenti dalle influenze strutturali del capitalismo liberista. Ma questo non ha come conseguenze il fare la guerra sempre e comunque. E, in particolare, non determina che un governo debba intestardirsi ad eliminare i palestinesi per garantire ai propri cittadini un futuro in una terra che non è mai stata soltanto degli ebrei e non è mai stata nemmeno soltanto degli arabi.
Se oggi qualcuno domandasse qual è il migliore tributo che possiamo rendere alla memoria di tutte le vittime dello sterminio nazista e fascista, è probabile che la risposta più consona possa essere: non fare agli altri quelli che altri hanno fatto ai tuoi parenti. Ieri ed oggi. Non ripetere quell’orrore. Ma costruisci le fondamenta per una convivenza, pur nella diversità culturale, sociale, politica, economica e civile.
E se puoi, inizia a pensare che l’uguaglianza vera la si può rendere concreta soltanto se si mette in discussione qualunque gerarchizzazione dei rapporti tra tutti gli esseri viventi. Non solo tra umani. Ma tra animali e umani, tra questi e la Natura. Ecco il modo migliore per ricordarci di chi è stato vittima di qualunque dittatura, di qualunque teorizzazione e pratica della superiorità degli uni sugli altri.
MARCO SFERINI