Questa crisi ambientale è anche un’emergenza umanitaria che richiede una risposta coordinata a livello internazionale. La crescente povertà spinge le persone a cercare opportunità altrove, contribuendo alle migrazioni. Inoltre, l’importazione di rifiuti da parte dell’Unione Europea aggrava la già fragile condizione sanitaria, aumenta il lavoro minorile e amplifica il dramma umanitario

Paula Jesus

Del Pakistan si sa pochissimo, nessuno ne parla, a nessuno interessa. In questo mondo lontano dai nostri occhi, i bambini non piangono, sono cresciuti nell’austerità di una vita durissima. Un giorno c’è cibo, il giorno dopo può mancare. L’acqua è un bene prezioso, ma troppo spesso imbevibile o insufficiente. In questa realtà, la morte non arriva per fame, ma la malnutrizione si fa strada come un’ombra silenziosa. I bambini e le bambine hanno la terra come compagna di vita, la loro pelle è una mappa di esperienze difficili e logoranti. Piccoli piedi e occhi neri si districano con la stessa destrezza dei gatti randagi tra motorini fumanti, binari ferroviari e fogne all’aperto. Per i poveri del Pakistan non c’è spazio per il patetismo o la compassione, c’è da lavorare, non importa se spaccando le pietre a mani nude o vendendo pneumatici consumati.

Il rumore dei generatori copre il richiamo alla preghiera dei minareti, le emergenze in Pakistan sono tante. Fuori da ogni edificio, dalle case, ai supermercati alle banche il rumore stordente della mancanza di elettricità si amalgama al rumore dei motorini a scoppio, ai venditori ambulanti e alle voci dei suoi tanti abitanti.

Qui tutto è ricoperto di terra, smog e povertà, come una pesante coperta che soffoca molte città pakistane. Le fogne sono all’aperto, l’odore citrico delle acque reflue sale dritto al cervello e costringe a mantenere un ritmo del respiro corto, lento e costante. In questo Paese dell’Asia Meridionale le emergenze sono tante, come tanti sono i bambini e bambine. Innocenti quanto ignari sperimentano il mondo in un ambiente dove la povertà regna sovrana.

Ma perché parlare di questo Paese? Diversi sono i motivi. Secondo Mixed Migrazione Centre e secondo il Ministero del Lavoro italiano la comunità pakistana in Italia è la più grande dell’Unione Europea, subito dopo di noi ci sono la Germania e la Spagna. Il 67,7% dei cittadini pakistani in Italia risiede nel Nord del Paese, in particolare in Lombardia, che accoglie il 31% delle presenze pakistane (in confronto al 26% circa della popolazione non comunitaria nel suo complesso).

Inoltre nel 2004 il Pakistan ha importato 0,1 milioni di tonnellate di rifiuti, nel 2021 è salito preoccupantemente a 1,3 milioni di tonnellate dichiarati, ma nella realtà dei fatti è impossibile censire e calcolare il peso dei rifiuti che il Paese ospita. Questa crescita esponenziale nell’importazione di rifiuti è un indicatore preoccupante da cui trapela la logica del potere da parte dei continenti dove il sistema delle ricchezze viene concentrato. Mentre la Turchia si erge come dominatrice nel settore del rottame di ferro, il Pakistan sta emergendo come un attore chiave che sta tristemente guadagnando terreno nel mercato dei rifiuti.

I membri dell’Unione Europea, tra cui anche l’Italia, stanno esportando i loro rifiuti al di fuori dei confini dell’UE perché in Pakistan non esistono standard ambientali, normative sulla salute umana e tutela dei lavoratori. Paesi come l’Italia scelgono di risparmiare riempendo container di immondizia perché sempre meno costosi in termini di conformità normativa e requisiti. Il problema è che la puzza si sente, anche se rimane lontana dagli occhi dell’Occidente.

Questa dinamica evidenzia la necessità di adottare politiche più sostenibili e di migliorare la gestione dei rifiuti all’interno e all’esterno dell’Unione Europea, al fine di garantire che l’ambiente, la salute umana e i diritti dei lavoratori siano adeguatamente protetti.

L’export di rifiuti da parte dei membri dell’Unione Europea verso paesi in via di sviluppo, come il Pakistan, solleva gravi preoccupazioni, sia a livello etico che umanitario. Questa pratica indica un atteggiamento di indifferenza da parte dell’UE verso le condizioni di vita nei paesi di destinazione, spesso troppo fragili per contrastare le politiche di dominio e violenza.

I bambini mangiano così i resti dell’umanità,  si nutrono prendendo quel che trovano nelle discariche, succhiano i liquidi che rimangono dai cibi consumati dal tempo o mordono i resti delle carcasse di pollo. I loro giochi sono pezzi di polistirolo o vecchi pneumatici.

Le condizioni di vita in Pakistan portano molte persone a cercare opportunità di vita altrove. Alimentando in questo modo la migrazione verso paesi come l’Italia, che ipocritamente crea politiche di respingimento e violenza alle frontiere.

Questo solleva domande importanti sulla responsabilità globale nell’affrontare i problemi ambientali e umanitari. Mentre l’export di rifiuti può ridurre i costi per l’UE, è essenziale considerare il prezzo umano che viene pagato in termini di degrado ambientale, deterioramento delle condizioni di vita e spostamenti di persone in fuga dalla disperazione.

C’è uno stretto collegamento tra il disastro ambientale e le migrazioni. Le cause principali dell’immigrazione sono scatenate dalla scarsità di risorse, inquinamento dal cambiamento climatico. L’aumento degli eventi meteorologici estremi, come il monsone di questa primavera ha causato devastazioni su larga scala, danneggiando terreni agricoli e infrastrutture, lasciando molte persone in una situazione di grave precarietà economica. La povertà crescente a causa di queste crisi ambientali spinge le persone a cercare opportunità migliori altrove.

Nella maggior parte dei casi, i migranti climatici non sono pienamente consapevoli delle cause del loro disagio. Vedono tali eventi come catastrofi naturali anziché come risultati dei cambiamenti climatici globali. Questa mancanza di consapevolezza può rendere difficile per loro ottenere lo status di rifugiati o il supporto necessario.

Bisogna chiarire che le persone che da cittadini acquistano l’identità di “migranti” compiono un percorso graduale, spostandosi dalle aree rurali alle città o attraverso diversi paesi, come l’Arabia Saudita o il Qatar. In percentuale pochi intraprendono viaggi più lunghi verso l’Europa, benestanti, laureati o professionisti. In ogni caso gli spostamenti sono una risposta diretta alla ricerca di condizioni di vita migliori a causa delle difficoltà ambientali e dell’insicurezza economica nelle loro regioni d’origine. Prendere quindi quel che non si ha e spostarsi. Molti poveri e poverissimi sono nomadi, altri semplicemente si spostano alla ricerca di qualche centesimo in più. Ogni bambino prende suo fratello più piccolo, e il più piccolo quello appena nato. Un po’ come delle matrioske dalla pelle marrone. Camminano a testa alta e con l’orgoglio tipico di quelli consapevoli della propria forza.

Grande parte della popolazione vorrebbe andarsene e abbandonare il Paese che li ha visti nascere, purtroppo però non è semplice per i pakistani. Il paese sta sprofondando, è sufficiente camminare per le strade distrutte, senza nessun parametro di salute ambientale o igienico per rendersi conto della profonda miseria nella quale i pakistani cercano di sopravvivere alla meglio.

Molti Pakistani arrivano in Europa, tra cui in Italia senza corridoi umanitari, per lo più illegalmente: attraverso la Rotta Balcanica o quella del Mediterraneo. Perché? Nell’era della globalizzazione, la libertà di movimento diventa un privilegio legato alla nazionalità, e la forza del passaporto può determinare il destino di intere comunità. Paesi con passaporti deboli diventano terreni fertili per la povertà, discriminazione e migrazioni forzate.

Secondo le statistiche, alcuni dei passaporti più deboli appartengono a nazioni in conflitto o ad alto tasso di povertà. L’Iraq, la Siria, la Somalia, il Pakistan, lo Yemen, la Palestina e il Sudan figurano tra i paesi con la minore forza di passaporto, con possibilità di accesso limitate a circa 40 o meno paesi nel mondo. I flussi migratori illegali diventano una risposta alla limitata libertà di movimento. Laddove i passaporti deboli limitano l’accesso a opportunità e sicurezza, le persone possono essere spinte a rischiare tutto per cercare una via d’uscita.

Nel labirinto complesso delle migrazioni globali, il Pakistan emerge come un paese con una storia intricata di passaporti deboli, povertà endemica e una crescente emergenza climatica. La combinazione di questi fattori crea una tela intricata che spinge molte persone verso vie migratorie difficili e spesso illegali. Il passaporto pakistano, più che un documento di viaggio, si trasforma in una barriera che imprigiona le persone in un ciclo di povertà e migrazioni forzate lo stesso vale per paesi come Iraq, Siria, Somalia, Yemen e Palestina.

L’ecosistema si sgretola sotto il peso della sovrappopolazione e della mancanza di risorse. In questo inferno ambientale, la lotta per la sopravvivenza si intreccia inesorabilmente con la lotta per l’opportunità, mentre il ciclo perpetuo della povertà continua a stringere la sua morsa senza lasciare vie di fuga. I bambini e bambine vivono abbastanza da poter fare altri figli e altri ancora, diventando loro stessi motore d’inquinamento e povertà.

Il rapporto tra il Pakistan e l’Unione Europea, evidenziato dall’importazione di rifiuti, rafforza l’idea di una distribuzione iniqua delle ricchezze globali. Mentre l’Europa cerca di risparmiare, il prezzo umano pagato in termini di degrado ambientale e violazione dei diritti umani è altissimo.

Le migrazioni, sia climatiche che economiche, diventano inevitabili nelle condizioni disastrose create dall’interazione di cambiamenti climatici, inquinamento e povertà sistemica.

L’epicentro di questa crisi può sembrare lontano, ma il suo impatto si estende ben oltre i confini del Pakistan. È un richiamo alla consapevolezza globale, una chiamata all’azione contro l’indifferenza che perpetua sofferenza umana e degrado ambientale. In un mondo interconnesso, la responsabilità è collettiva, e solo attraverso un impegno condiviso possiamo sperare di spezzare il ciclo inumano che continua a stringere la sua morsa.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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