Alberto Bradanini
In un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre 2021 in Florida – alla presenza di personalità politiche del fronte trumpista, tra cui H. Brands, D. Blumenthal, G. Schmitt, M. Mazza, J. Bolton e altri – la destra repubblicana era giunta alla conclusione che la strategia cinese di riassorbimento dell’isola non ha nulla di eccentrico o ideologico. Persino un immaginario governo amico degli Stati Uniti metterebbe in cima all’agenda politica il recupero di Taiwan, territorio storicamente cinese, che però si scontra con la maggioranza dei taiwanesi, per ora contraria.
Per la dirigenza del paese, ça va sans dire, la via preferibile dovrebbe essere quella pacifica, consapevole che un ipotetico conflitto con Taiwan avrebbe pesanti riflessi sulla stabilità e la crescita economica, senza contare che le forze armate di Taipei (a prescindere dal possibile intervento americano) renderebbero assai costosa sotto ogni punto di vista un’ipotetica invasione dell’isola.
Le elezioni presidenziali tenutesi a Taiwan il 13 gennaio scorso hanno decretato la vittoria di Lai Ching-te (William Lai), vicepresidente uscente della Repubblica di Cina (è questa la denominazione ufficiale dell’isola). Lai, il cui insediamento è previsto per il 20 maggio, è oggi l’esponente di punta del Partito Democratico Progressista (DPP) che ha governato negli ultimi otto anni.
La presidente uscente, Tsai Ing-wen, prima donna a vincere le elezioni, per di più per due volte consecutive (2016 e 2020), si era dimessa da presidente del partito lo scorso autunno dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. La Tsai non era comunque rieleggibile per limiti di mandato.
Poiché per la legge elettorale taiwanese è dichiarato vincitore chi ottiene anche solo un voto in più degli altri candidati (sistema first-past-the-post), Lai diventa presidente pur raccogliendo solo il 40,05% dei voti, avendo i due avversari ottenuto, rispettivamente, il 33.49% (Hou Yu-ih, attuale sindaco di Taipei, del partito nazionalista, Kuomintang, KMT) e il 26.46% (Ko Wen-je, del Partito Popolare, TPP).
Nel novembre scorso era sembrato che KMT e TPP potessero presentarsi uniti con un ticket condiviso. Le due parti non sono tuttavia riuscite ad accordarsi, perdendo una storica occasione. L’affluenza è stata del 71,86%, (-3,04 % rispetto al 2020) ed è la prima volta dalle elezioni del 2000 che il candidato vincente scende sotto la soglia del 50% dei voti.
Ora, se le elezioni fossero la chiave per sondare la volontà dei taiwanesi di avviarsi verso l’indipendenza, dovrebbe dedursi che tale volontà si è significativamente ridotta rispetto a quattro anni orsono. Lai ha raccolto solo il 40% dei suffragi, contro oltre il 50% di Tsai Ing-wen del 2020, e per di più il suo partito perde la maggioranza in Parlamento, rendendo macchinosa la gestione del paese e ancor più fantasiosa quell’ipotesi d’indipendenza che il DPP, consapevole dei rischi, non aveva preso in seria considerazione nemmeno quando disponeva della maggioranza assoluta in parlamento. Inoltre, prima di procedere su un percorso di tale rilevanza il governo sarebbe tenuto a consultare i 24 milioni di abitanti dell’isola facendo ricorso a un referendum, potenzialmente quanto mai destabilizzante. Se la maggioranza dei taiwanesi è contraria alla riunificazione, essa non è per ciò stesso favorevole a un braccio di ferro con Pechino.
Nel frattempo, all’indomani delle elezioni, l’ex consigliere Usa per la sicurezza nazionale, Stephen Hadley e l’ex vice segretario di stato James Steinberg, – sbarcati[1] a Taiwan con provocatoria tempestività, insieme ad altri ex alti funzionari americani – hanno espresso “le congratulazioni del popolo americano” al presidente eletto, il quale ha replicato[2] di essere grato agli Stati Uniti per il forte sostegno alla democrazia taiwanese per la solida, reciproca partnership.
Per conto dell’Amministrazione, il portavoce della Casa Bianca – nel ribadire lo spessore dei rapporti con Taiwan, che nei prossimi quattro anni sarà governata dal medesimo partito – ha dichiarato[3] che l’impegno Usa nei riguardi dell’isola resta compatto come la roccia, basato su principi bipartisan e a favore degli amici, parole che fuori dall’usuale ambiguità nascondono l’aspettativa di Washington che l’isola continui a piegarsi agli interessi americani in cambio di un’ipotetica protezione davanti a una minaccia altrettanto ipotetica.
Il segretario di Stato, Antony Blinken, ha elogiato la forza della democrazia taiwanese, mentre dalla Casa Bianca J. Biden, con accenti insolitamente concilianti, ha affermato che Washington non sostiene l’indipendenza dell’isola, in linea con il contenuto dei noti comunicati congiunti che, sulla scorta del riconoscimento dell’esistenza di un’unica Cina, alla fine degli anni ’70 avevano portato all’apertura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.
Sul fronte opposto, la portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino, Mao Ning – giudicando una provocazione la visita a Taiwan di ex alti funzionari Usa a meno di due giorni dalle elezioni – ha riaffermato l’assoluta contrarietà cinese a qualsiasi interferenza su Taiwan, un tema che, come Pechino non si stanca di ripetere, deve considerarsi di esclusiva pertinenza interna.
Intanto, il giorno successivo alla vittoria di Lai, un’altra nazione – Nauru, poco più di 12 mila abitanti, la più piccola al mondo – interrompe le relazioni politiche con Taiwan, che ora è riconosciuta solo da dodici paesi[4], un evento minore, ma che illustra il cambiamento di temperatura strategica nel mondo.
Nel frattempo, in Occidente non s’arresta l’onda mediatica anticinese, guidata dagli Stati Uniti. Una nazione, quest’ultima, di 335 mln di abitanti che non intende affrancarsi dall’irrealistica patologia di voler dominare un pianeta di otto miliardi di individui. Nelle tecniche sotterranee dell’espansionismo Usa – dove lo stato profondo incontra lo stato permanente – la strategia prevalente si concentra oggi sul complesso industriale militare rispetto alle pulsioni neocoloniali della Grande Finanza estrattiva di ricchezze altrui.
Washington continuerà dunque a soffiare sul fuoco di un conflitto Pechino-Taiwan, con l’obiettivo di fermare la locomotiva cinese, che per demografia ed economia costituisce la principale sfida all’egemone unipolare. La strategia americana prevede di replicare il copione prescritto per l’Europa (il conflitto Nato/Usa contro la Russia per interposta Ucraina), utilizzando questa volta le risorse umane e militari di Taiwan, alla luce dell’improponibilità di uno scontro diretto tra due potenze nucleari.
Quanto a Xi Jinping, il suo pensiero su Taiwan riflette le passate raccomandazioni che Deng Xiaoping aveva consegnato alla storia nel lontano 1979. Il Piccolo Timoniere aveva messo in chiaro che la riunificazione della Cina è una missione storica della nazione cinese, condivisa da tutti i suoi figli, suggendo però di liberarsi della retorica della liberazione forzosa. Se in questo momento storico, ragionava Deng, le condizioni politiche non lo consentono, allora la soluzione va lasciata alle future generazioni di leader a Pechino e a Taipei, quando tali condizioni saranno favorevoli.
Nel frattempo, secondo Xi, i compatrioti delle due sponde dello Stretto sono chiamati a lavorare insieme per sconfiggere ogni tentazione indipendentista, assicurare un futuro luminoso al percorso di ringiovanimento della nazione cinese, e tutelare la sovranità e l’integrità territoriale del paese.
Nei trent’anni trascorsi, la dirigenza cinese si è attenuto al cosiddetto Consenso del 1992. In quell’anno, al termine di uno storico incontro a Hong Kong, le parti si erano accordate sull’esistenza di una sola Cina, comprendente il continente e le isole, vale a dire i territori controllati da Pechino e da Taipei. In quell’occasione, però, il tema cruciale della sovranità non fu affrontato, mentre il significato da riservare alla nozione di “una sola Cina” fu lasciato alla libera interpretazione delle parti, nella classica tradizione ossimorica cinese.
Tale Consenso, nella sua ambiguità ermeneutica, ha rappresentato per Pechino la base politica delle relazioni con Taiwan, che invece nel 2016, con l’ascesa al governo di Tsai Ing-wen ha deciso di disconoscere aveva il valore delle intese del 1992, investendo su una futura metamorfosi della Cina in un paese a democrazia liberale di stampo occidentale.
Quanto sopra premesso, deve rilevarsi che, rebus sic stantibus, la sola evenienza che oggi potrebbe indurre Pechino a mettere in conto il possibile impiego della forza è costituita da una dichiarazione d’indipendenza da parte di Taiwan. Resta senza risposta, a tale riguardo, la ragione che potrebbe spingere la dirigenza dell’isola su un percorso distruttivo, che includerebbe un blocco navale, bombardamenti e devastazione di territori, infrastrutture, città, con un elevato numero di vittime civili e militari, quando di fatto Taiwan indipendente lo è già. Si tratta dunque di uno scenario ipotizzabile solo se la dirigenza taiwanese dovesse cedere alle lusinghe, pressioni o attività corruttive da parte degli Stati Uniti. Ma sia a Taipei che a Pechino, dove i dirigenti hanno la testa sulle spalle, prevale uno assennato spirito d’attesa, affinché sia la storia a indicare la direzione degli eventi verso un compromesso accettabili dalle due parti.
Nel frattempo, guardando oltre l’orizzonte immediato, Pechino investe su due profili di seduzione: a) i rapporti economici e commerciali, oggi vantaggiosi per Taiwan, surplus commerciale e investimenti importanti nelle due direzioni; b) mantenimento di una proposta che prevede maggiori spazi di autonomia qualora Taipei accettasse la geniale formula di Deng (un Paese, due sistemi), sinora applicata a Hong Kong e Macao, sebbene per il momento senza esito.
Quanto ai tempi della riunificazione, Xi Jinping non ha mai indicare date precise, pur rilevando che la questione non può essere rinviata all’infinito. A tale riguardo, secondo alcune analisi occidentali prive però di evidenze convincenti, il PCC avrebbe fissato al 2049 la data ultima per il riassorbimento dell’isola, lasciando intendere con le buone o le cattive. Gli argomenti a sostegno di questa tesi sarebbero l’accelerazione dei preparativi militari, l’aumento degli investimenti nell’industria delle armi, l’intensificarsi delle attività militari sullo Stretto, le incursioni aeree e l’uso di tecnologie avanzate. Una tesi questa, come rilevato, debole e poco persuasiva. Appena eletto ai vertici del Partito, Xi Jinping nel 2012 aveva invece affermato che i tempi di compimento del sogno della nazione era incentrato su due centenari: a) l’affermarsi in Cina di una società moderatamente agiata entro il centesimo anniversario del PCC (2021); b) il completamento del ringiovanimento nazionale (nozione questa non unanimemente decifrata) entro il centesimo anniversario dalla proclamazione della Repubblica Popolare (2049). Secondo la narrativa occidentale, anche qui priva di validazioni, Pechino farebbe coincidere i tempi della riunificazione con Taiwan con quelli del ringiovanimento nazionale. È invece plausibile che l’esegesi di tale locuzione antiaristotelica – una delle tante cui ricorre la dirigenza cinese – intenda bilanciare la dialettica politica con la flessibilità filosofica. In definitiva, l’assenza di rigidità lessicali o temporali consente al Partito di soprassedere alle sue promesse anche qualora nel 2049 l’obiettivo della riunificazione non sarà raggiunto. Per chiudere, dunque, se sono concepibili le ambizioni di Xi Jinping di passare alla storia quale riunificatore della Cina, va detto che nel 2049, se ancora in vita, egli avrà la veneranda età di novantasei anni, con un’influenza minima dunque su tali complessità.
[1] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3248530/us-group-urges-taiwans-lai-keep-calm-and-carry-cross-strait-status-quo
[2] https://www.aljazeera.com/news/2024/1/15/taiwans-tsai-and-lai-welcome-us-support-as-beijing-fumes-over-election
[3] https://www.state.gov/on-taiwans-election/
[4] Guatemala, Paraguay, Belize, Haiti, Sant Kitts and Nevis, Santa Lucia, San Vincent/Grenadine, isole Marshall, Palau, Tuvalu, Swaziland e la Santa Sede