Apparentemente la protesta degli agricoltori francesi e italiani, nonché di quelli belgi e tedeschi, che assediano le istituzioni comunitarie in merito al problema della coltivabilità dei suoi e delle restrizioni imposte dalla UE in merito, poco ha a che fare con il tema annoso della caccia indiscriminata, di quella che gli amanti dell’uccidere per divertimento chiamano “sport” e che, nelle normative viene benevolmente edulcorata e mitigata nella sua asprezza con terminologie come “protezione della fauna selvatica“.
In un mondo in cui la globalizzazione dei mercati include la crisi altrettanto globale di un ambiente in cui si riversa l’impatto dell’eccesso produttivo, dello sfruttamento di terreni, acque tanto fluviali quanto lacustri e marino-oceaniche, dell’inquinamento atmosferico e dell’impoverimento del sottosuolo e di ogni ecosistema conosciuto, succede che la protesta degli agricoltori non è poi così diversa dalle richieste dei cacciatori di poter sparare sette giorni su sette, senza limitazione di alcun tipo.
Al centro di tutto sta la retrocessione continua che gli Stati mettono in essere riguardo leggi che dovrebbero invece farci avanzare sul piano dello sviluppo di nuovi approcci tra lavoro da un lato e ambiente dall’altro.
Il timore di rovesci elettorali nella prossima tornata delle europee di giugno, sta inducendo tanto i singoli paesi della UE quanto l’Unione stessa a riconsiderare le scadenze date alle aziende agricole per destinare una parte dei loro terreni non più alla coltivazione intensiva ma alla ricrescita naturale di piante, alberi, flora e, perché no, anche fauna.
La protesta degli agricoltori, che per un attimo sembra quella di chi sta per perdere tutto e subito, in realtà è uno scagliarsi contro le timide politiche verdi di una Europa piuttosto in ritardo sulla riconversione ecologica del Vecchio continente, sulla coordinazione tra produzione ed emissioni zero, tra merci che vanno ad inficiare quell’obiettivo molto lontano e che obbediscono alle leggi di un mercato in cui non c’è posto per la transizione tanto declamata e abbracciata un po’ da tutti con un manto di ipocrisia veramente insuperabile.
Pur essendo sempre meno, coloro che uccidono per divertimento, con una profonda venatura di sadismo che non vogliono mai apertamente confessare, e che propinano sempre la solita manfrina sul loro ruolo di tutela dell’ambiente (salvo costringere gli animali a riprodursi per poter essere ammazzati appena il ripopolamento, ad esempio dei cinghiali, è completato), la lobby dei cacciatori è tutt’ora una di quelle che, al pari dei balneari e degli agricoltori, sostiene le forze della destra attualmente al governo.
Ed infatti, le proposte di legge che vorrebbero deregolamentare quasi completamente l’attività venatoria portano sempre le firme di esponenti della Lega.
E’ una battaglia storica del vecchio Carroccio e anche del rovinoso progetto salviniano di conversione del partito che fu di Bossi in una specie di soggetto nazionale mal riuscito, superato oggi ampiamente dal processo involutivo del nazionalismo finto meloniano. Caccia, pesca, agricoltura e sfruttamento delle risorse naturali sono quindi tenuti insieme da un riconoscimento che la politica gli tributa come fondamenti di consenso da cui non si può prescindere.
Il ministro Lollobrigida ha più volte incontrato Coldiretti e Confagricoltura asserendo che tutto ciò che il governo fa, lo fa per proteggere il Made in Italy. Molto patriottico come presupposto di azione dell’esecutivo.
Peccato che poi gran parte dei soldi pubblici, che potrebbero anche essere destinati ad attività produttive che veramente sostengono tanto l’italianità dei prodotti quanto un certo rispetto per l’ambiente e, quindi, per la ricchezza per antonomasia del nostro Paese, vengono utilizzati per grandi opere inutili, per finanziare il riarmo e dare fiato agli sforzi bellici della NATO.
La protesta dei trattori giunti a Bruxelles ha ispirato quella dei produttori lombardi. Le parole d’ordine è: ostacolare la PAC (la politica agricola comunitaria) e il Green Deal. Nessun sogno verde, dunque, nessuna intesa continentale su una gestione del territorio e dei terreni per provare a mettere d’accordo tanto le esigenze del settore quanto quelle di un ambiente per cui si battono i giovani di Ultima Generazione e che, a differenza delle lobby dei trattori, finiscono sotto processo per essersi seduti in terra e aver bloccato il traffico per qualche manciata di minuti.
Le obiezioni sono piuttosto scontate e facili da controbattere: volete mettere chi rischia di perdere una azienda e mandare a casa decine di lavoratori con quegli scansafatiche di ragazze e di ragazzi che non hanno di meglio da fare se non rompere le scatole a chi veramente lavora, a chi veramente produce e fa arricchire il Paese intero?
La retorica delle destre qui va a nozze con gli interessi del tutto particolari di settori che non vogliono nemmeno sentire parlare di una minore e migliore produzione a fronte dello sfruttamento del suolo, delle condizioni vergognose degli allevamenti medio-grandi in cui le condizioni di sopravvivenza degli animali sono, eufemisticamente parlando, indecenti.
Conta solamente l’interesse particolare. La logica dei produttori agricoli è la stessa di quella dei balneari che, pur rivendicando le regole del mercato e della libera concorrenza, le accettano solo se riguardano gli altri. Per sé stessi pretendono proroghe, privilegi chiamati “tutele” e procrastinazioni di situazioni di squilibrio che hanno alterato gli ambienti in cui si tengono quei cicli produttivi che inquinano, impoveriscono gli habitat e ingrassano però le tasche di chi oggi protesta a squarciagola.
Non c’è dubbio che la PAC abbia penalizzato i produttori agricoli più piccoli che hanno tentato di produrre in modo sostenibile.
I cinquantacinque miliardi previsti dal’Unione Europea per le politiche agricole dei Ventisette paesi (la maggior parte, ben nove milioni va alla Francia dove la protesta è più effervesciente e preoccupante per il presidente Macron) sono un pacchetto ingente di finanziamenti per politiche che non incentivano il biologico, che prevedono ancora l’utilizzo di troppi fertilizzanti chimici, che, quindi, trascurano tutta una serie di problematiche in cui il lavoro è protagonista come variabile dipendente dei privilegi delle lobby e del mercato.
Una vera tutela delle lavoratrici e dei lavoratori nelle grandi aziende agricole è pari a al mancato riscontro che se ne ha in settori completamente differenti della produzione: si tratta delle grandi imprese, delle catene di gestione di settori di distribuzione in cui in apparenza l’ambiente non ha alcun ruolo ma che, invece, viene toccato dall’utilizzo del trasporto su gomma piuttosto che su rotaia, dall’inquinamento anche marino a causa dei trasporti navali e di quello dell’aria a causa delle emissioni.
Queste, in particolare, sono un problema dirimente nel settore agricolo.
La quantità di pesticidi e fertilizzanti è una parte rilevante di questo dramma invisibile e che, se si osservano le cartine che rilevano le polveri sottili nell’aria, si potrà evidenziare come focale nella zona della pianura padana. Nei grandi allevamenti intensivi, dove si producono carni lavorate, insaccati, formaggi e latticini, gli escementi di tante centinaia di migliaia di poveri animali crudelmente trattati per accelerare i processi di filiera, sono una delle primissime fonti dell’inquinamento.
Così come lo sono le produzioni di mangimi, la conseguente deforestazione e utilizzazione del suolo al solo scopo di incentivare la produzione massiva di prodotti derivati dall’intensività dell’allevamento stesso.
L’ammoniaca contenuta nell’urea presente nelle feci degli animali è un inquinante che non ha nulla da invidiare a quelli di derivazione chimica. In Giappone stanno studiando un riciclo parziale del letame, depurato e privato della sua tossicità ambientale, ma da noi studi in merito sono ancora a livello accademico e non rientrano nella già citata PAC europea.
Se davvero al centro delle proteste degli agricoltori europei vi fosse un vero interesse nella coniugazione tra lavoro e ambiente, una delle prime rivendicazioni che dovrebbero esigere sarebbe la conversione delle produzioni in senso biologico. I costi sarebbero eccessivi soltanto se fossero alcuni paesi ad introdurle (come del resto avviene oggi e ognuno può constatare andando al supermercato e raffrontando i prezzi da prodotti “normali” e prodotti etichettati come “biologici“).
Ma esiste una scelta da fare tra l’andare verso una transizione davvero ecologica delle produzioni oppure prorogare e prorogare le lacunose norme esistenti?
Dal punto di vista tanto degli agricoltori, quanto dei balneari e, perché no, anche dei cacciatori, gli effetti delle mancate acquisizioni di nuove normative a tutela radicale dell’ambiente si faranno sentire molto in là col tempo. Come dire: saranno problemi (per non usare francesismi poco eleganti) di chi verrà dopo di noi. Un egoismo che è connaturato alle leggi del mercato e che, in questo senso, è comprensibile ma non giustificabile.
Che sia così da sempre sta nel DNA del sistema. Che si debba cambiare tutto questo è, oggettivamente, imprescindibile e improcrastinabile.
La PAC chiede oggi agli agricoltori europei di destinare soltanto il 4% dei loro terreni a riconversione boschiva, sottraendoli alle coltivazioni. Una percentuale bassissima rispetto ai piani del WWF che individua almeno nel 10% la porzione di aree ad interesse ecologico per invertire la rotta disastrosa di questa produzione intensiva devastante, premiando quei produttori che si impegneranno in progetti di questo tenore.
La ristrutturazione delle filiere zootecniche dovrebbe essere una delle proprità dei progetti nazionali di attuazione della PAC comunitaria. Un impegno che nessun governo fino ad oggi ha preso e, per questo, le ragioni della piccola e media agricoltura si mescolano alle contraddizioni che si trascina appresso un settore che finisce con l’avere ragione sul terreno occupazionale e torto su quello dell’impatto ambientale.
Se almeno si preservassero i boschi dalle attività venatorie, si eviterebbe di veder morire ogni anno una parte importante di natura, una popolazione faunistica che è peculiarità di un ecosistema in cui tutto si tiene; non è vero che la caccia è preservazione dell’ambiente. E’ un crudele, sadico divertimento dai tratti del primitivismo che oggi possiamo abbandonare definitivamente. C’è stato un tempo in cui, per giustificare la cosidetta “caccia selettiva” si portava ad esempio l’equilibrio tra specie diverse entro un medesimo habitat.
Così, prescindendo dal rispetto per l’esistenza di qualunque vita, di qualunque essere vivente, antropocentricamente, dal punto di vista esclusivamente dis-umano, si era deciso che lo scoiattolo grigio e quello rosso, nello specifico nel territorio regionale ligure, nella loro competizione (?) per la sopravvivenza, fossero una minaccia vicendevole. E’ solo un esempio, ma può rendere bene quale tipo di attitudine abbiano tanto le istituzioni quanto le diverse categorie produttive nel più dinamico e variegato mondo delle biodiversità ecosistemiche.
Pretendere un giusto, differente trattamento economico da parte dei governi nazionali e da parte della Commissione europea riguardo le produzioni agricole è logico e opportuno. Ma non si potrà mai definire tutto questo un atto rivendicativo a fini sociali ed ambientali senza che ci si sganci dal modello attuale di gestione tanto delle aziende sul piano amministrativo quanto su quello proprio della composizione della filiera. Il giusto prezzo per gli agricoltori deve poter comprendere il rispetto tanto dell’ambiente quanto della vita degli animali.
Un’economia che continui a pensare alla produzione di ortaggi e carni in modo intensivo è destinata a fallire nel suo contesto propriamente settoriale, così come nel più ampio ambito economico nazionale ed europeo. Chi guida i trattori verso Bruxelles, Parigi, Strasburgo o Roma, dovrebbe riflettere su tutto ciò.
MARCO SFERINI