Chi avrà diritto a una pensione tra una settantina d’anni? E chi le pagherà? Previsioni semiserie per tre scenari fantaeconomici, maledettamente ipotizzabili sulla base dei dati disponibili oggi e delle stupide tendenze in atto.
“Avremo mai una pensione?”, ci chiedevamo negli anni Novanta del secolo scorso, spaventati da una serie di riforme a raffica, varate prima da tecnocrati liberisti (di sinistra), poi da una destra che proprio sulle pensioni ha sperimentato la deriva populista. Ambedue decisi a ribaltare un sistema previdenziale considerato insostenibile per le troppe promesse elargite nel passato, per i troppi baby boomers ormai canuti, per i pochi nuovi nati, che hanno permesso all’Italia di essere la più fedele interprete della politica della Cina maoista del figlio unico.
Sulle pensioni si è fatto di tutto, si sono aumentati i contributi, ridotte le pensioni, aumentata drasticamente l’età di pensionamento. Ci si è fatti scrivere intimazioni dall’Europa, si è creato panico sovvertendo diritti acquisiti e scelte programmate, a volte si è fatto il gioco delle tre carte, come nel caso di fondi pensione e del Tfr.
Ma il problema non può dirsi risolto, perché le stesse riforme pensionistiche (assieme alla completa mancanza di una qualche politica industriale) hanno contribuito a zavorrare ulteriormente l’economia italiana, chiudendo gli accessi ai giovani e bloccando l’innovazione, riproponendo un modello di sviluppo che, alla fin fine, è sempre incentrato sulla disponibilità di lavoro non qualificato a basso costo.
Infatti, anche se non cresce più di tanto la spesa pensionistica, se non cresce o, addirittura, si riduce il Pil, come spesso avvenuto nell’ultimo quindicennio, il rapporto fra spesa pensionistica e Pil, l’indicatore cui tutti guardano, non cala, anzi può aumentare, e non di poco.
Così, malgrado tutto, lo spettro del crack dei sistemi pubblici è sempre incombente, mentre le prospettive pensionistiche dei più giovani sono disarmanti, a causa della precarietà e dei bassi salari.
D’altra parte, le diseguaglianze economiche già sono aumentate drasticamente ed alimenteranno l’accentuarsi delle diseguaglianze pensionistiche, di genere e di classe. Da una parte i poveri, i precari, chi non avrà una continuità di lavoro perché magari ha dovuto farsi carico di familiari, destinati a godere di un mero minimo di sopravvivenza; dall’altra coloro che, per tipologia di impiego o ricchezza familiare, potranno garantirsi prestazioni pensionistiche pubbliche e private di livello.
Che succederà nei prossimi anni? Le pensioni pubbliche saranno cancellate, come è successo nella storia con i dinosauri? Sono domande buone per la futurologia, scienza non riconosciuta a livello accademico, ma prospera in diversi think tank. Noi, che non abbiamo una cattedra in questa disciplina e al più usiamo i tarocchi per predire amori e salute, abbiamo provato a disegnare tre scenari per l’Italia, con un approccio semiserio a un problema serissimo.
Primo scenario: abolite le pensioni
Alla fine hanno vinto i negazionisti! Si è stabilito una volta per tutte che le pensioni non sono un diritto naturale e lo Stato non è obbligato a garantirle ai cittadini. La demografia e la tecnologia sono state più forti di qualsiasi politica di giustizia ed eguaglianza. Troppa gente che non lavora e non versa contributi, troppa poca gente che (ancora) lavora, genere animale (non artificiale) destinato all’estinzione! I robot e l’IA reggono ormai i sistemi economici, non scioperano e non pagano tasse e contributi, come, di fatto, le grandi società ipernazionali che li controllano. Dopo qualche decennio di transizione, il sistema previdenziale obbligatorio è stato quindi soppresso, lasciando a ciascuno la scelta del se e come pensare alla propria vecchiaia.
D’altra parte, già dal 2070 l’Italia aveva perso 12 milioni di abitanti, facendo passare la popolazione complessiva a poco più di 45 milioni. Nel 2070 nessuno ricordava più gli anni Sessanta del ‘900, quando il Paese sfornava ogni anno un milione di nuovi nati e ogni famiglia aveva in media 2,7 bambini. Nel 2022 il tasso di fecondità totale era già ridotto a 1,2%, dal 2080 si è scesi ben sotto lo zero virgola.
Per i sistemi previdenziali il problema non riguardava solo le culle e la desertificazione dei paesi, bensì, soprattutto, il “chi paga?”. Nel 2100 lo scenario è diventato devastante, perché è giunto a compimento quello che si era già visto nel 2022: nella maggior parte delle province italiane i pensionati superavano (e di molto) gli attivi e a livello nazionale il rapporto era di 1,4 lavoratori per ogni pensionato.
Non è neppure solo questione di statistiche. Nella società invecchiata, quote di lavoro sempre crescenti sono state assorbite dalla cura alla persona. È scattata la caccia all’attivo. I cittadini in grado di lavorare sono stati sequestrati da speciali squadre di blade runner con il compito di requisire l’attivo per strapparlo alla produzione manifatturiera e destinarlo al grande girone dell’assistenza degli anziani.
In Italia, nel 2099, sono scesi in piazza tutti. In centinaia di migliaia per chiedere l’abolizione del sistema pensionistico post-pubblico introdotto nel 2034, a prezzo di un’ulteriore aumento sui contributi e della drastica riduzione delle pensioni in essere, sul modello del sistema privato a capitalizzazione delle “Amministrazioni di Fondi Pensionistici” introdotto già nel 1981 in Cile dal dittatore Pinochet. Come in Cile, anche in Italia, il sistema dei fondi privati sembrava avere accumulato risorse importanti dagli investimenti sulle Borse mondiali, ma non è poi stato in grado di garantire pensioni decenti: la ricchezza accumulata si è rivelata solo carta e lo Stato è più volte dovuto intervenire. Unici a non scendere in piazza, gli appartenenti alle Forze Armate, le forze di polizia e i titolari di cariche pubbliche, i quali nella riforma del 2100, come già prima in quella del 2034, hanno mantenuto, anzi rafforzandolo, il regime di pensione pubblica.
Secondo scenario: le pensioni come assegni per l’alzheimer
Alla fine l’Italia ce l’ha fatta! La decisione di aumentare l’età di pensionamento in linea con la speranza di vita non solo ha stabilizzato il rapporto fra attivi e pensionati, ma ha permesso di disporre di manodopera in quantità.
Sembra lontano un secolo il primo ventennio di applicazione, ancora troppo sofferta, di una misura che pur, fin dall’inizio, ha restituito all’Italia il ruolo di leader mondiale dell’età di pensionamento e ne fa, sempre di più, un modello per l’Europa tutta! La logica lapalissiana del “se vivi di più, più devi lavorare” si è ormai affermata come dato di fatto, e la semplificazione normativa che, a partire dal 2032, ha previsto l’aumento forfettario dell’età di pensionamento di 2 mesi l’anno, ha dato certezza ai lavoratori.
L’età minima di pensionamento ha ormai raggiunto gli 80 anni di età, a condizione, naturalmente, di avere lavorato e contribuito per i 60 anni di lavoro standard. Ma anche per coloro che, per indolenza o per le vicissitudini della vita, non avessero raggiunto i requisiti minimi, la flessibilità del sistema permette di godere di una pensione, pur minima, al raggiungimento degli 85 anni.
Il sistema produttivo si è adeguato con grande efficienza alle nuove caratteristiche del mercato del lavoro, che sta mostrando inaspettati aspetti positivi, che vanno ben al di là di quell’invecchiamento attivo tanto decantato in origine. Ben più importante si è dimostrato, a conti fatti, il drastico calo, ormai da 30 anni, delle assenze e dei congedi per maternità/paternità. D’altra parte, anche i permessi per assistenza agli anziani continuano a mostrare un calo importante, inizialmente non previsto, anno dopo anno e alla fine interpretato dall’Istat, che ha mostrato come, avendo ormai l’età di pensionamento ben superato quella a cui sempre più spesso si manifesta l’alzheimer, i primi anni nel nuovo stato coincidono con periodi di attività, cosicché il trattamento avviene direttamente on the job.
Non c’è neppure troppo da stupirsi, perché è la natura stessa di molti dei nuovi lavori, che hanno così copiosamente assorbito il personale liberato dall’innovazione tecnologica (tutti concentrati nei servizi alla persona e nell’assistenza agli anziani, spesso ripetitivi e mai informatizzati), a creare un utile ponte fra stato di occupazione e riposo. L’individuo può arrivare a passare, senza soluzione di continuità, dallo stato di assistente a quello di assistito, sovente senza neanche dover cambiare sede, con evidenti sinergie ed economicità.
Vero è che negli ultimi 15 anni tali circostanze hanno drasticamente ridotto la domanda interna di viaggi e turismo, ma tale domanda, peraltro troppo soventemente rivolta verso lidi e città estere, sarebbe calata comunque, perché l’Italia ha affermato con forza il suo modello competitivo di bassi salari. D’altra parte, la crescita del settore turistico continua ad essere alimentata dalla domanda estera, sempre più attratta dall’arte e dalla storia italiane, dal cibo e dai bassi prezzi. Tali fattori permettono oggi al nostro Paese di sfruttare appieno la presenza, negli altri Stati, di sistemi economici e pensionistici ben più arretrati del nostro, nei quali, ancora, masse ingenti di individui, dotati di pensioni, redditi da lavoro o rendite personali, dilapidano le ricchezze proprie e nazionali in attività ricreative di scarso valore sociale.
Terzo scenario: le pensioni pagate dagli immigrati
Gli statisti italiani degli anni 20, da Calderoli a Lollobrigida, da Salvini a Meloni, sono stati dimenticati e non vengono citati neppure nei libri di storia (che non sono più cartacei). Il muro della fobia dell’immigrato è caduto da tempo. Tutte le società sono ibride e multiculturali. L’arrivo di donne e uomini dai Paesi stranieri e il contributo riproduttivo di questi nuovi italiani, si sono dimostrati decisivi, anche se inizialmente insufficienti, per sostenere i traballanti architravi del welfare nazionale.
Secondo i calcoli del 2024 del documento base delle scelte di politica economica, il Documento di Economia e Finanza (in sigla Def), la presenza degli immigrati in Italia avrebbe dovuto aumentare in misura considerevole per tenere a bada il disavanzo e il rapporto tra spese e Pil. I politici di allora, sostenuti da schiere di tecnocrati preoccupati di mantenere il proprio posto di lavoro insidiato dagli algoritmi dei sistemi di IA, ormai erano rassegnati a dare per scontato un aumento del debito pubblico e del deficit. Bisognava correre ai ripari, ma come fare?
Fu così che un tecnocrate particolarmente intraprendente decise di farsi aiutare dall’IA che produsse e introdusse questa frase (e queste cifre) nel documento ufficiale del ministero dell’Economia. “Si osserva un impatto particolarmente rilevante, in quanto, data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l’effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro. Il rapporto debito/PIL nei due scenari alternativi a fine periodo arriva a variare rispetto allo scenario di riferimento di oltre 30 punti percentuali”. Tradotto per i non addetti ai lavori: se il flusso di immigrati fosse aumentato del 33% rispetto al ritmo normale, nel 2070 il debito pubblico sarebbe stato più basso di almeno 30 punti rispetto al Pil (cioè circa 135% anziché 165%). Se invece il flusso di immigrati avesse subito un calo o un freno politico del 33%, nel 2070 il debito sarebbe aumentato di oltre 30 punti sul Pil (cioè dal 165% a circa il 200%).
Lo scenario era chiaro, i numeri trasmettevano un messaggio inequivocabile, ma sarebbe stato necessario convincere i decisori politici e l’opinione pubblica, visto che il livello di integrazione degli immigrati non era percepito in modo omogeneo, troppe paure, troppi pregiudizi. In una ricerca diffusa dal partito degli xenofobi risultava che il 64 % degli italiani riteneva ci fosse un pessimo livello di integrazione. Per il 78% l’integrazione era totalmente assente in relazione alla partecipazione alla vita culturale e addirittura per l’86% se si passava a parlare della partecipazione alla vita pubblica o politica. Gli italiani erano poi (stiamo parlando ancora del secondo decennio del nuovo millennio) totalmente divisi sulla questione dello ius soli: solo il 53% era favorevole all’attribuzione della cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia.
Ma la storia procede a prescindere. E dal 2024 al 2100 si è messa a correre. Già nel 2050 la popolazione mondiale aveva raggiunto i 9,7 miliardi, 11,2 miliardi nel 2100, con un baricentro che si era ormai spostato: mentre la vecchia Europa era diventata sempre più vecchia, metà della crescita della popolazione mondiale si era ormai concentrata in una manciata di Paesi: India, Nigeria, Pakistan, Repubblica del Congo, Etiopia, Tanzania, Indonesia, Uganda. Tra i Paesi che una volta si chiamavano “occidentali”, solo gli Stati Uniti avrebbero continuano a dare un loro piccolo contributo all’aumento delle culle. Già nel 2050 il continente africano era diventato il responsabile di più della metà della crescita della popolazione mondiale.
Chi avrebbe pagato le pensioni in Italia nel 2100 in assenza di immigrati? I nostalgici delle politiche xenofobe proposero un ultimo disperato tentativo di evitare in extremis di dare così tanta importanza agli immigrati: pagare le pensioni non più con i contributi dei lavoratori ancora in attività (ormai praticamente azzerati), ma con le tasse di tutti. Insomma un nuovo Patto tra italiani-italiani. Furono arrestati e trasferiti in Africa, mentre l’approvazione, nello stesso anno, della “Legge sulla sospensione del diritto di voto per gli evasori non di necessità” privava gli xenofobi della loro più rilevante base di consenso elettorale