L’approvazione al Senato del disegno di legge Calderoli che stabilisce le procedure per la concessione alle Regioni dell’autonomia differenziata in tutte e 23 le materie astrattamente consentite dalla improvvida riforma del titolo quinto della Costituzione è solo il primo passaggio di un percorso che si preannuncia lungo e tormentato, malgrado la coesione bulgara della maggioranza. Ci deve essere la seconda lettura alla Camera; la legge deve essere promulgata dal Presidente della Repubblica (che, qualora esercitasse il potere a lui concesso dall’art. 74 della Costituzione, potrebbe rimandarla alle Camere per una nuova deliberazione); dopo la promulgazione è preannunziata dalle forze politiche d’opposizione (finalmente unite) una campagna per la richiesta del referendum abrogativo; le Regioni controinteressate potrebbero impugnare la legge con ricorso diretto alla Corte costituzionale (come ha messo in luce l’ex presidente della Consulta Ugo de Siervo); in ogni caso, prima della redazione delle intese, sarà necessario approvare, con specifici decreti legislativi da adottare entro 24 mesi, i Livelli essenziali di prestazione (LEP) da garantire su tutto il territorio nazionale; anche decreti, poi, potrebbero essere impugnati da cittadini ed enti con ricorso incidentale alla Corte costituzionale, oppure dalle Regioni con ricorso diretto.
Ma ogni resistenza nelle sedi istituzionali deve essere accompagnata da una crescente mobilitazione popolare. Non è semplice far comprendere l’importanza della posta in gioco e il significato reale dei cambiamenti che si produrranno nella vita della Repubblica. I tecnicismi della materia rendono, infatti, ardua la divulgazione di un progetto di trasformazione di cui è visibile, come in un iceberg, solo la parte che affiora nei provvedimenti consegnati al dibattito parlamentare, mentre rimane ignota la sostanza, cioè il contenuto reale dei poteri, delle funzioni e dei finanziamenti di cui si discute riservatamente nelle segrete stanze.
Basti pensare che esiste un documento del Ministro per gli affari regionali e le autonomie in cui sono indicate 500 funzioni statali trasferibili alle Regioni e che, nella loro bulimia di potere, le Regioni (Veneto e Lombardia) non si autolimitano ma chiedono tutto. In questo modo si andrebbe a una disarticolazione dello Stato con conseguenze dirette sia sulla fruizione dei servizi e dei diritti sociali da parte dei cittadini, sia sulla possibilità della Repubblica di articolare politiche pubbliche in campi vitali per l’economia e la tutela dell’ambiente. La stessa unità culturale e linguistica del popolo italiano costruita faticosamente, attraverso l’istruzione pubblica, a partire dal 1861, verrebbe profondamente compromessa dalla parcellizzazione regionale del sistema educativo.
L’Italia verrebbe spacchettata in tanti mini staterelli e le differenze di tipo economico-sociale fra il Nord e il Sud del paese, lungi dall’essere superate, come pretende l’art. 3, secondo comma, della Costituzione, saranno incrementate e consolidate da un processo che non può più essere revocato. Per questa via trova compimento un progetto portato avanti dalla Lega (Nord) fin dalla sua fondazione, che punta alla secessione delle Regioni del Nord (la cosiddetta Padania). Un progetto che ha abbandonato il suo carattere più eversivo (tipo Jugoslavia), per riemergere sotto forma di una secessione soft, agevolata da un’irresponsabile riforma costituzionale (quella del titolo V della Costituzione) che il centro-sinistra ha voluto imporre con l’illusione di togliere slancio alle istanze leghiste.
Alla base di questo insensato progetto di secessione c’è la volontà di separare il destino delle più ricche regioni del Nord da quello delle più povere regioni del Sud. L’obiettivo è quello di far sì che il gettito dei tributi erariali rimanga quasi totalmente nei territori dove è stato prodotto, così come chiedeva un quesito, bocciato dalla Corte costituzionale, del referendum consultivo indetto dalla Regione Veneto nel 2014. Questa aspirazione si riaffaccia prepotentemente nel progetto di Autonomia differenziata. Secondo la legge Calderoli, infatti, l’autonomia si realizzerà: «attraverso compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale» (art. 5, comma 2). Di conseguenza le Regioni del Sud, con minore capacità fiscale, non potranno partecipare ai “benefici” dell’Autonomia differenziata, per la semplice ragione che, con le risorse maturate sul loro territorio non potrebbero sostenere il finanziamento di ulteriori competenze.
Il sostegno popolare, che permane nelle regioni del Nord per il progetto di secessione attraverso l’autonomia differenziata, si basa sull’illusione che sia possibile separare il destino di una parte del popolo italiano da quello di un’altra parte. È un’illusione puerile e pericolosa. L’illusione di separare i destini dello stesso popolo o di più popoli avvinti nello stesso contesto nazionale ha causato solo conflitti e non ha portato benefici a nessuno. Basti pensare alle vicende dell’ex Jugoslavia o dell’Ucraina. La secessione (anche se soft) dal Sud, non porterà alcun vantaggio agli abitanti delle Regioni del Nord e causerà un ulteriore declino economico poiché impedirà alla Repubblica di realizzare quelle politiche pubbliche nel campo dell’energia, delle infrastrutture, dell’ambiente che sono vitali per lo sviluppo economico e aprirà la strada a una privatizzazione selvaggia del patrimonio e dei beni pubblici connessi alle funzioni trasferite, a detrimento del bene comune.
La prima cosa da fare, dunque, è svelare il carattere falso e ingannevole della prospettiva che possano esistere destini separati da cui potrebbe trarre vantaggio una parte del popolo italiano