7ottobre 2023 – 7 febbraio 2024. Non sono le date di inizio e fine della guerra tra Hamas ed Israele (e viceversa). Sono le date entro cui collocare gli oltre dodicimila bambini palestinesi uccisi dalle forze armate dello Stato ebraico a cui, proprio in queste ore, è dato l’ordine di marciare senza alcuna tregua su Rafah. Là, al confine con un Egitto in cui si tratta, si media, ma non si arriva a nessun risultato per un cessate il fuoco.
Fallisce anche Antony Blinken, cui Netanyahu risponde che l’unica soluzione possibile su Gaza è la vittoria militare. Usa esattamente queste parole il primo ministro israeliano: significa che la politica del suo governo è una politica votata alla distruzione massiccia di città, strutture e infrastrutture e, naturalmente, di civili, di persone, di palestinesi che fino a pochi mesi fa le abitavano.
Hamas ha la responsabilità dell’orrendo crimine terroristico del 7 ottobre. Israele tutto quello che ne è seguito. Quasi trentamila palestinesi sono rimasti uccisi nel corso dei bombardamenti, sepolti dalle macerie, dilaniati dalle schegge di mortaio, presi in pieno in un ospedale o in un campo profughi dove, almeno si presupponeva, esistesse e valesse ancora un briciolo di zonafranchismo, di rispetto dei diritti umani.
Il governo di Netanyahu e Gantz non contempla alcun diritto per la popolazione palestinese, considerata correa in tutto e per tutto, senza distinzione alcuna tra civili, armati, militanti delle brigate Izz al-Dīn al-Qassām, delle azioni di Hamas. Se si valuta, di più ancora oggi, giorno dopo giorno, la richiesta del Sudafrica davanti al Corte di giustizia dell’ONU, di processare Israele per intenti genocidiari, la fondatezza che se ne ricava, purtroppo, è data dai numeri poco sopra citati.
In un anche involontariamente cinico raffronto meramente numerico tra i morti fatti da Hamas e quelli fatti da Israele, la sproporzione è del tutto evidente ed esponenziale. La popolazione della Striscia di Gaza è in larga parte composta (o sarebbe meglio parlare al passato prossimo…) da giovanissimi. Il 47% degli abitanti di Gaza sono (erano) bambini, ragazzini al di sotto dei quattordici anni di età.
Far bombardare le città della Striscia indiscriminatamente vuol dire voler uccidere una parte di questa popolazione. Ed infatti questo crimine oggi conta le cifre pocanzi scritte che divengono sinonimo di ecatombe, di genocidio, di accanimento contro un popolo intero. Una generazione intera di palestinesi è stata decimata. Dodicimila bambini trucidati dalle armi di Tsahal cosa sono? Un incidente di percorso nelle azioni di guerra?
Israele non tenta nemmeno di giustificarsi: oramai la mattanza è totale. Si colpisce non per distruggere soltanto Hamas, ma per annientare le speranze di vivibilità futura nella Striscia, per spingere i palestinesi ad andarsene e, nonostante le dichiarazioni del governo di Tel Aviv, per militarizzare il lembo di terra raso al suolo e sottrarlo a qualunque ipotetica, futura sovranità dell’ANP.
L’invivibilità nella Striscia di Gaza è un dato talmente acclarato che nessuna parte della comunità internazionale intende controvertire queste che sono descrizioni di uno stato di completo azzeramento dei diritti umani in un contesto di guerra in cui non vale nessun diritto, nessuna legge; dove non c’è nessun luogo in cui ci si possa sottrarre alla furia delle armi e della distruzione che avanza.
La proposta di tregua fatta da Hamas, mediata da Egitto e Qatar, è stata respinta da Netanyahu: prevedeva, in tre fasi, il rilascio dei centotrentacinque ostaggi, parimenti il rilascio di molte centinaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane e un cessate il fuoco di quattro mesi. La risposta dello Stato ebraico è stata: la guerra totale continua fino, appunto, alla vittoria militare.
Striscioni e proteste dei parenti degli ostaggi sono serviti a poco. Il primo ministro prosegue nella sua marcia omicidiaria di massa fino al confine, fino al valico chiuso di Rafah, dove non entrano merci, dove non passa nulla che possa sostenere umanitariamente la sopravvivenza di chi cerca scampo in un pezzetto di terra dove non c’è più rifugio sicuro, dove non c’è un posto in cui si possa sperare di essere al riparo dai colpi di fucile, dalle bombe e dai missili.
Questo è il quadro cronachistico di una guerra che continua a cambiare il volto delle relazioni internazionali, complicando tutta una serie di rapporti politici e commerciali che subiscono delle torsioni per certi versi inaspettate. Tra queste, il sostegno del governo guidato dagli Houthi in Yemen e il loro appoggio ad Hamas esplicitato con gli attacchi alle navi che fanno rotta per lo stretto ormai famoso di Bāb al–Mandab e che costringono i traffici marittimi a fare rotta per il Capo di Buona Speranza.
Tranne quelle russe e cinesi. Il che mette ancora di più in evidenza la polarizzazione delle posizioni internazionali riguardo non solo la guerra in Palestina, bensì tutta una serie di ripercussioni che ne derivano e che si riflettono sia sull’area mediorientale sia sull’Africa quanto sull’Europa. Continenti in cui i conflitti sono aperti, le soluzioni diplomatiche tacciono e il confronto-scontro è sempre più tra Occidente e Resto del Mondo.
Il governo di Netanyahu, nel dibattito interno tra un mantenimento dello status quo ed una evoluzione dello Stato di Israele in una teocrazia visionaria dai connotati fermamente imperialisti, appare diviso, incapace di superare queste contraddizioni insite nella destra israeliana. L’immersione totale nella totalizzazione della guerra, quindi, risulta sempre di più la via di uscita parziale e temporanea ad una resa dei conti tanto da un lato con l’opinione pubblica che depreca la continuazione del conflitto e altrettanto tale dall’altro con il fanatismo sionista.
La distruzione di Gaza e delle altre città della Striscia sono un manifesto di inciviltà che comprende anche la distruzione sociale, civile e culturale del popolo palestinese. Con l’avanzata delle truppe di Tsahal e dell’aviazione di Heyl Ha’Avir, sono state ridotte in macerie anche moschee, monasteri, musei, siti archeologici, scuole, biblioteche e qualunque centro culturale che era patrimonio storico ed attuale dell’identità palestinese in quanto popolo, in quanto società strutturata da secoli e secoli su un determinato territorio.
Quando si parla di “intento genocidiario“, è evidente che si fa principalmente riferimento all’annientamento fisico delle persone. Vi si dovrebbe però includere pure la distruzione senza alcuna riserva di tutto un contorno di vita che era rappresentato da istituzioni civili, laiche e religiose. I palestinesi della Striscia di Gaza, se potranno rimanere in quel lembo di terra, dovranno ricostruire praticamente tutto. Dalle case agli ospedali, dagli edifici pubblici alle scuole, dalle università a quei luoghi in cui la cultura si esprimeva, seppure molto poco liberamente.
Non va meglio in Israele, definito l’unica democrazie mediorientale, un avamposto occidentale entro un contesto orientale e completamente arabeggiante, ma in cui male si tollerano le critiche al governo e in cui gli stessi parenti degli ostaggi di Hamas sono, per le loro richieste di fine della guerra, a rischio di accuse di immoralità, di antisionismo, in quanto il patriottismo nazionalistico viene ormai prima di tutto.
E’ una teorizzazione di uno Stato che si concepisce in quanto tale solamente entro un confine militarizzato, una protezione che non gli viene dal consolidamento della dialettica parlamentare, del rispetto dei diritti di ciascuno e tutti, ma soltanto dall’elevazione dell’ebraismo come cultura dominante e non più come cultura storica di uno Stato moderno, capace di guardare alla tragedia del Novecento come discrimine anche verso le proprie inclinazioni antidemocratiche.
Il punto culturale diventa, in questa complicata interconnessione di posizioni interne ed esterne, uno degli assi su cui verte tanto l’identità civile, politica e sociale dei palestinesi quanto quella degli israeliani. La complessità delle due storie, che tuttavia si compenetrano nel corso dei millenni, è tale che permette, soprattutto ai secondi di riscrivere in chiave revisionista un passato leggendolo e facendolo leggere più dal punto di vista mitologico che storico.
Quando i regni faraonici iniziarono a declinare ed a ritirarsi dalla Siria e, quindi, da quella che sarebbe divenuta la Palestina romana, furono proprio i palestinesi (pare provenienti da Creta) a mettere piede sulle coste a sud della vecchia Fenicia. Gaza, fu una delle città scelte per insediarsi, a metà strada tra due mari e crocevia tra l’Africa e il Medio Oriente. Diedero alla loro città un nome che significava “Forza“. La fortificarono gli assiri, venne difesa contro i persiani e persino in un lungo assedio messo in piedi dal grande Alessandro.
Gaza, storicamente, è, al pari del resto della Palestina, una terra abitata per oltre mille e cinquecento anni dagli arabi e dai palestinesi. Se il governo di Netanyahu intende anche sfidare la Storia oltre alla modernità e alla stretta attualità dell’oggi, troverà, scavando fra le rovine delle città in cui si è insediato il popolo ebraico dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che ben pochi sono i riferimenti geologici che attestano l’esistenza dei grandi regni descritti nella Bibbia.
Di queste grandi civiltà, se davvero sono esistite così come il mito religioso ce le ha tramandate, è rimasto poco e niente. Paiono questioni di lana caprina, mentre si combatte, si muore e si accatastano sempre più macerie. Eppure anche intorno a queste rivendicazioni etno-storiche si costruiscono narrazioni che vorrebbero supportare le ragioni dell’attacco israeliano a Gaza. C’è stato un tempo in cui l’OLP da una parte e Israele dall’altro si volevano reciprocamente annientare. Arafat e Rabin superarono quella dicotomia annichilitrice.
Hamas e Netanyahu sembrano averla ripresa quasi di comune accordo. La grande tragedia che si consuma dal 7 ottobre è il capitolo più sanguinoso di una storia di repressione, di violenza, di colonizzazione spietata, di appropriazione indebita di case, terre, coltivazioni, beni essenziali come l’acqua: tutto a discapito dei palestinesi. In Cisgiordania e a Gaza. Israele era sinonimo di apartheid e imperialismo. Oggi è anche sinonimo di genocidiarietà: dodicimila bambini palestinese sono o non sono una prova dell’accusa mossa dal Sudafrica in merito?
Sono sufficienti ventisettemila morti per poter dire che, muovendo sempre più a sud, nel prossimo attacco a Rafah, dove la condizione umanitaria è catastrofica, Israele spinge i palestinesi fuori dalla Striscia e dalla Storia di quel lembo di terra? Tutto questo è o non è un intento genocidiario? E se non lo è, come lo si potrebbe altrimenti chiamare?
MARCO SFERINI