Sergio Labate

Forse non bisognerebbe farsi distrarre dai rumori di fondo. Che sono assordanti e maledetti e segnano i tempi. Ma noi dovremmo per prima cosa imparare a stare lì, dentro le cose. C’è una donna e c’è una poliziotta e tra loro c’è un guinzaglio. Fermare le cose e le parole. Fermare l’immagine: c’è una donna incatenata e tenuta al guinzaglio. E ricordare, per esempio la foto celebre di Guantanamo che in un istante frantumò il mito americano della guerra giusta e dell’impero del bene. C’era una donna anche lì – Lynndie England il suo nome – e anche lei teneva al guinzaglio un essere umano.

Non dovrebbe esserci molto altro da dire, in questi casi. Nessuno ha chiesto a Lynndie England chi fosse quell’essere umano trattato come un cane, non importava e non avrebbe cambiato le cose che quella foto con eloquenza tragica mostrava. Poco dovrebbe importarci se si chiama Ilaria Salis, che sia o non sia colpevole, che sia una donna e un’antifascista. È questo ciò che scolpiva l’età dei diritti di cui l’occidente si gloria. C’è un limite invalicabile alla violenza legittima degli Stati, che si chiama dignità. Il fondamento della civiltà che l’Europa fa finta di voler ancora rappresentare e in nome del quale si autoproclama superiore, mentre progetta guerre e affama i propri popoli che pure sostiene di voler proteggere.

Invece non va così. Il rumore di fondo è un vizio troppo assordante e un suono che si ripete troppo spesso, negli ultimi tempi soprattutto. Nell’oscenità della post-verità, la vittima diventa colpevole e la dignità di un essere umano diventa qualcosa che si merita in base ai valori che professa, non per il nudo fatto di essere. E Ilaria Salis ha il torto di essere donna, antifascista, educatrice. Sarebbe anche italiana in effetti, ma poco importa ai sovranisti. La dottrina della doppia verità di Salvini è lo smascheramento della contraddizione di ogni logica nazionalista. Adesso sappiamo che non tutti gli italiani sono tali. I marò lo sono certamente: maschi, con la pistola in mano, rappresentano la nazione che fa la guerra. In quanto italiani non sono colpevoli e non devono essere giudicati all’estero. Mentre Ilaria Salis è antifascista, non ha altri titoli da mostrare come le stellette sulle divise del generale che a Salvini piacciono tanto. Lei è colpevole e merita di essere giudicata dove sta. Certo, la sua colpa non è dimostrata e in ogni caso non meriterebbe certo la tortura, come ogni colpa del resto. Ma questo valeva nell’età dei diritti, non in quella del postfascismo, in cui gli italiani non sono tutti italiani – ma quelli che lo sono, lo sono prima di ogni altra cosa ovviamente – è la colpa che merita tortura è chiara. Ilaria Salis non è italiana perché è antifascista. Il suo crimine non è nient’altro che questo. Il crimine dell’antifascismo, che separa gli italiani dai non italiani, gli innocenti dai colpevoli, soprattutto gli umani dai non umani, coloro che non devono essere picchiati da coloro che possono essere finanche torturati.

So bene che a Ilaria Salis dovremmo la premura di proteggerla dallo scempio elettorale che la tortura due volte. Strumentalizzata dalla Lega per contendere alla Meloni i voti a destra. Ecco che fa la destra al governo: invece di aiutarla la tortura due volte. E lo fa per sacrificarla sull’altare di una politica impotente, incapace di occuparsi del paese reale, pronta a trasformare le europee nell’ennesimo pozzo senza fondo del populismo. So anche bene che il problema è ormai diffuso e non possiamo illuderci di risolverlo liberandoci politicamente di Salvini. Il dramma non è che Salvini dica quelle cose, ma che qualcuno lo ascolti, lo sostenga, trovi del tutto legittime le sue parole al di là di ogni evidenza dei fatti e delle argomentazioni. Da questo punto di vista Salvini è l’effetto perverso dell’inettitudine di una certa sinistra, che ha pensato a un certo punto del secolo scorso di congedare le teorie del conflitto per sostituirle con le etiche della comunicazione. Come se la società fosse davvero plasmata su misura del nostro salotto, in cui placidi versiamo un aperitivo e ci scambiamo argomentazioni razionali. Abbiamo tergiversato e il conflitto è diventato così cruento da precipitare di nuovo nell’abisso dell’inumanità, da cui ci siamo illusi di averlo salvato con la fine del nazismo. Un conflitto così duro che non riusciamo di nuovo a riconoscere l’evidenza di ogni evidenza: che non c’è violenza legittimata a violare la dignità. Guantanamo – non più di qualche decennio fa – non era normale. Adesso è normale pensare che una persona possa meritarsi di essere torturata perché antifascista. Altro che argomentare, la nostra civiltà ha tolto il trucco e mostra il volto feroce della barbarie. Del resto la nostra civiltà è stato anche questo, la barbarie di cui facciamo memoria ogni anno in questi giorni non proveniva da fuori, ma da dentro. Dal suo stesso modo di comprendersi, di pensarsi migliori, di distinguere amici da nemici, umani da inumani, uomini da donne, patrioti da stranieri, ricchi da poveri.

Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo. Non c’è nessuna guerra di civiltà nel fermo immagine che ritrae un essere umano tenuto al guinzaglio da un altro essere umano. C’è una guerra di una civiltà contro se stessa, piuttosto. La condanna senza appello dell’eterna tentazione dell’occidente di essere una civiltà del dominio che si abbellisce e si presenta come una civiltà dei diritti. Oggi quella civiltà dei diritti ha perduto e non sono stati i nemici ad abbatterla, ma noi stessi.

Ricordiamole le parole di tale Andrea Crippa, vice segretario della Lega: «Ogni Paese punisce come vuole e non compete a me giudicare quello che si fa in altri paesi». Mi piacerebbe assistere a un bel dialogo razionale tra Habermas e Crippa. A prenderle sul serio, quelle parole suonano come inquietanti salvacondotti verso ogni crimine della storia. Non tocca a noi giudicare se qualcuno decide di liberarsi dei propri oppositori politici gettandoli da un aereo nel mare, i campi di concentramento, persino i Gulag (ma qui Crippa direbbe certamente che ho frainteso). Non tocca a noi giudicare. Un paese può punire come vuole. Ecco la fine che ha fatto l’Europa razionale e comunicativa dentro cui i benpensanti si sono illusi di vivere, eccola smarrita definitivamente nella follia delle parole di Crippa, nell’orgoglio con cui un paese aderente alla UE difende e protegge i neo-nazisti che celebrano sfacciatamente l’orrore, nella volgarità con cui un ministro della Repubblica italiana decide che il suo nemico è chi non permette ai neo-nazisti di rivendicare la loro storia. Il suo nemico è l’antifascista, perché il suo amico è il fascista. Questo è il crimine di Ilaria Salis. E di tutti noi.

I piromani sanno che per procurare un incendio è necessario accendere più fuochi. Nessuno sa con precisione quand’è che i piccoli fuochi diventino un grande incendio, ma quando succederà, non avremo fatto in tempo ad accorgercene. Penso spesso a quest’immagine che inquieta, mentre assisto con inquietudine all’ingrossarsi ormai quasi quotidiano dell’elenco di eventi che sovvertono l’ordine repubblicano e rovesciano i termini della normalità, criminalizzando l’antifascismo e proteggendo i fascisti. Ecco, forse il gesto di solidarietà più eloquente nei confronti di Ilaria Salis sarebbe fare memoria dei piccoli fuochi che negli ultimi due mesi hanno ingrossato questo lungo elenco.

Non siamo affatto così lontani dall’Ungheria. Anche da noi non c’è soltanto da certificare un aumento della repressione di Stato. Questa repressione sembra ormai esplicitamente a senso unico. Sarebbe ingenuo interpretarla come una svolta securitaria del Governo. Varrebbe per tutti in questo caso. Bisogna chiamarli col proprio nome, questi piccoli fuochi. Sono tutti sintomi di una criminalizzazione dell’antifascismo. È accaduto ciò che molti avevano temuto: che i politici proteggono chi non ha chiuso i propri conti col fascismo e criminalizzano gli antifascisti e gli oppositori. Certo, una differenza ancora c’è tra Orban e Meloni: un Governo che criminalizza l’antifascismo non è solo per questo un governo fascista. Ilaria Salis non viene torturata nelle prigioni italiane, ma in quelle ungheresi. Ma quanto ci vorrà di questo passo a colmare la distanza che resta tra le due cose? Come si fa a capire la differenza tra i piccoli fuochi e il grande incendio? Quando diventa troppo tardi?

Ilaria Salis è un’antifascista. Criminalizzata, torturata e attaccata dal Governo del proprio paese per il solo fatto di essere tale. Per il solo fatto di ricordarci che le nostre democrazie non sono neutre. Non sono uno spazio equidistante tra fascismo e antifascismo. Dove c’è democrazia, non c’è fascismo. Un lungo elenco di piccoli fuochi. Ilaria Salis è un fuoco, lo è il suo guinzaglio che minaccia tutti noi. Dove un governo criminalizza, tortura o non protegge chi difende la democrazia dal fascismo, lì i piccoli fuochi rischiano di accendere un grande incendio. Sta a noi evitarlo, prima che sia troppo tardi

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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