Prima che Javier Milei diventasse Presidente della Repubblica Argentina, pochi si erano spinti fin dove si è portato lui nella teorizzazione del liberismo a tutto tondo, senza freni e senza regole.
Quello che viene, a ragione, definito “ultraliberismo” è, nelle intenzioni dell’economista che siede alla Casa Rosada, la rivincita di un capitalismo che, pur indietro di trent’anni rispetto ad una sinistra che, moderatamente socialista e democratica o più radicalmente neocomunista lui interpreta e descrive come il diavolo in persona e una “malattia dell’animo“, oggi dovrebbe organizzare una “internazionale dei conservatori“.
Una idea che non dispiace a Giorgia Meloni, a Santiago Abascal e ai tanti leader della destra estrema che occupa posizioni di potere o che sta tentando di occuparle. Milei è il capo di uno Stato eppure sostiene che lo Stato, in quanto tale, è una associazione criminale, fatta da politici che per vocazione, seguendo il preciso intendo dell’istituzione, rubano ai cittadini ogni giorno e senza alcuna remora.
Di contro, i capitalisti, invece, sarebbero la soluzione all’ipeinflazione e all’enorme indebitamento in cui versa l’Argentina.
Volutamente, Milei confonde Stato in quanto istituzione e Stato in quanto potere economico pubblico, così come confonde, sempre intenzionalmente, il ruolo del privato nella società con quello più generale del sistema capitalistico.
La teoria dello Stato come regolatore della vita sociale che, in quanto rappresentante di tutti e, quindi, perseguitore dell’interesse comune e non solo di una parte della nazione, è una figura che non nasce con la critica dell’economia politica marxista. E’ una teorizzazione liberale che, tuttavia, ammette entro il circuito di produzione della ricchezza anche il privato.
Il marxismo, in cui Milei vede – e più che giustamente – il suo peggiore nemico, suppone invece che la soluzione delle contraddizioni sociali la si possa ottenere solamente con un ridimensionamento graduale e progressivo dell’interesse di parte nelle attività economiche e, quindi, in un sempre maggiore ruolo proprio dello Stato che nella proprietà pubblica fonda il suo essere un potere non esclusivo ma inclusivo. Marx, non certo con i toni che utilizza Milei, vede nello Stato e nella gestione governativa dello stesso una espressione della classe dominante.
Quindi anche Marx, e non da meno Engels, considerano l’”estinzione dello Stato” necessaria, ma soltanto nel momento in cui verranno meno quelle clausole di necessità che lo hanno reso imprescindibile fino a quel dato momento.
Una volta superato il sistema classista del profitto e dell’accumulazione del capitale privato, anche la macchina amministrativa sovrastrutturale che sovrintendeva al mantenimento della pace sociale nel nome della preservazione dei privilegi padronali, non avrà praticamente più senso perché non potrà più esercitare il suo ruolo.
“El loco” Milei, invece, il presidente con la motosega in mano che vuole praticamente abolire il pubblico e instaurare il dominio del privato in ogni settore un tempo statale e in ogni ambito economico e produttivo, è, al pari degli altri suoi amici conservatori, reazionari e di destra estrema, un nemico del ruolo sociale delle istituzioni: è questo lo Stato che vuole distruggere.
Lo stato-sociale, lo stato della giustizia sociale: per questo appella i sindacati come “organizzazioni mafiose“, demonizzando il dissenso, chiamando “criminali” gli argentini che lavorano e che si oppongono alle sue politiche devastanti.
Milei ammette che in Argentina il 50% della popolazione sopravvive, in pratica, in una condizione di povertà assoluta. Ammette anche che l’inflazione è sfuggita completamente dal controllo di quello Stato che è, quindi, già stato messo ai margini da un peronismo fintamente democratico, votato al liberismo capitalistico ma, certamente, differente da Milei nell’anatemizzare senza alcun se e senza alcun ma contro lo Stato stesso, in quanto tale.
E’ un po’ la differenza che c’è tra Meloni e Milei: la prima è dichiaratamente nazionalista ma non statalista, il secondo è nazionalista nella misura in cui l’Argentina venga praticamente svenduta al capitale.
Il patriottismo de El loco, dunque, è vincolato ad una trasformazione della Repubblica Argentina in una Proprietà privata Argentina. Quando il presidente parla di “anarco-capitalismo“, lo intende proprio nel senso più deteriore e deleterio dell’assurdo binomio: un capitalismo che possa fare tutto quello che gli pare, senza alcun vincolo in termini di tutela della popolazione, dell’interesse collettivo e comune.
Dai trasporti aerei, navali e terrestri fino alle poste, alla sanità, alla rete idrica: l’ombra della svendita di uno Stato che viene svuotato da dentro, dal ruolo di una presidenza che dovrebbe invece garantirne il buon funzionamento, avanza prepotentemente.
Milei pretende una nazione senza tasse per i privati, senza alcun controllo, mentre letteralmente distrugge ciò che rimaneva a tutela della povera gente che, infatti, inizia a scendere in piazza col sindacato CGT (Confederazione Generale del Lavoro) e a protestare contro un disegno di trasformazione reazionaria che, oltre a tutte le privatizzazioni appena citate, include ovviamente la messa al bando dei diritti che tutelano i lavoratori, ad iniziare da quello di sciopero.
Molti costituzionalisti si sono sollevati contro il mega decreto di Milei, contro la pretesa di intervenire su oltre trecento leggi così da deregolamentare qualunque settore della vita pubblica dell’Argentina. La macchina repressiva si è fatta sentire e, per ammissione degli stessi sindacalisti, mai si era vista tanta polizia nelle strade dai tempi della dittatura di Videla.
Una certa parte della classe dirigente imprenditoriale del paese sudamericano non sembra aver gradito questa ondata di riforme, nonostante vada nella direzione di favorire il solo sistema capitalista. E’ quel, a dire il vero piccolo, settore di medie imprese che non vede nulla di buono nella rottura del patto con il mondo del lavoro.
Ciò che appare realmente avulso dalla stessa realtà, è che Milei sembri non rendersi conto, pure da economista cui si picca di essere, che il sistema capitalistico di per sé non è privo di regole e, quando si è trovato nelle circostanze di spadroneggiare senza queste, ha finito per entrare in una cortocircuitazione esasperante, in una serie di dinamiche contraddittorie che lo hanno impoverito sia per quanto riguarda la capacità di influenzare l’economia locale e globale, sia per quanto concerne la più materiale accumulazione del capitale stesso.
Se Milei avesse letto con meno pregiudizi Marx, avrebbe potuto confrontarsi con due concetti economici che non sono così irrilevanti nella determinazione dei rapporti tra potere e proprietà, quindi tra pubblico e privato. Si tratta della massa del plusvalore e del saggio di profitto.
In pratica, di tutto ciò che diventa ricchezza cumulata e delle condizioni che sono determinanti per l’incentivazione o la disincentivazione di questa produzione profittuale. Marx per primo si è chiesto cosa rendesse i capitalisti più forti e decisi: avere più ricchezza o avere più possibilità di fare ricchezza?
Non esiste una risposta definitiva, nemmeno per gli studiosi che si sono accaniti nel cercare una risposta. Ma, conoscendo un po’ di economia marxiana, si può essere tentati di dire che il Moro ritenesse per i capitalisti molto più determinante per il mantenimento del loro status egemone e dominante la condizione in cui il plusvalore poteva essere creato e custodito, nonché aumentato.
Uno Stato senza struttura sociale e pubblica, come quello teorizzato dall’anarco-capitalismo di Milei, è una minaccia per il capitalismo che, tra le prime preoccupazioni, ha quella di mantenere la calma nel tessuto produttivo.
E di quel tessuto fanno parte anzitutto le lavoratrici e i lavoratori che, per l’appunto, lo Stato dovrebbe preservare dal predominio assoluto della moderna classe borghese, imprenditoriale e finanziaria. Ma, sempre seguendo le analisi scientifiche nel Libro III de “Il Capitale“, troviamo una smentita a quanto abbiamo potuto ritenere come politica di autotutela da parte della classe degli sfruttatori nei confronti della loro ricchezza accumulata.
Se è vero, infatti, che il saggio del plusvalore è una delle bussole con cui il privato gestisce i propri investimenti e cerca di influenzare le politiche di un paese, altresì per Marx è vero, nel momento in cui i capitalisti entrano sulla scena del mercato, puntano a stabilizzare il saggio del profitto.
La competizione interna all’economia privata è tutta fondata sull’accumulazione della ricchezza che, in quanto tale, è sottratta al pubblico, non è quindi un bene comune, qualcosa che lo Stato possa gestire. E, quando anche, secondo il pensiero di Milei, il privato dovesse essere migliore del governo nell’amministrazione e nel sostentamento dei settori fondanti una società, punterebbe soltanto in minima parte a garantire gli interessi sociali e collettivi.
Sempre e soltanto con il fine di stabilizzare una serie di rapporti tra maestranze e proprietà, e nulla di più. In questo, si può in tutta evidenza affermare che, sì, il mileismo è conservatorismo senza alcun dubbio.
Se concedessimo un briciolo di buona fede a Milei, traducendo le sue affermazioni di carattere economico in un supporto vero a quelle più politiche e propagandistiche in cui pretende di essere la soluzione dei problemi del popolo e della povera gente, mettendo al bando la miseria (già sentita anche in Italia questa iperbole maldestra…), dovremmo giungere alla conclusione che la privatizzazione totale dei servizi pubblici e la fine dello Stato in quanto espressione dell’interesse collettivo va nella direzione del livellamento del saggio di profitto.
E dovremmo anche provare a pensare a ciò come a qualcosa di indiscutibilmente buono tanto per il pubblico quanto per il privato. Già questa è una contraddizione in sé e per sé.
Le convergenze tra interesse di tutti e interessi di alcuni sono il frutto dell’incontro di una politica economica socialdemocratica e liberale che ha provato, nel corso dell’ultimo secolo, ad avvicinare gli opposti e che ha fallito tanto nel provare a governare il capitalismo dal punto di vista sovrastrutturale e politico, ridimensionandone gli eccessi, quanto nel sostenere il contenimento dell’immiserimento dei popoli.
Se davvero Milei punta ad un livellamento del saggio di profitto, ad una stabilizzazione, per così dire, dell’assolutismo capitalistico, dovrebbe spiegarci dove è l’equità del libero mercato. Siccome lo Stato è emanazione del dirigismo economico e finanziario, perché si trova dentro la bolla globale del capitale, come può non essere frutto delle politiche economiche liberiste la grande miseria che vive l’Argentina?
Tentare di ricorrere all’argomentazione della fine delle tassazioni inique per tutti è uno strumento populistico di propaganda che può far ottenere milioni di voti nell’immediato ma poi, quando le cose peggiorano, perché inevitabilmente peggiorano, come risponderà Milei al suo popolo?
Imbracciando nuovamente una motosega? Dicendo nuovamente, dopo averlo abbracciato calorosamente, che il pontefice è un imbecille (sono parole di Milei, non nostre)? Oppure accusando la sinistra di essere il male dell’Universo mentre tutte le soluzioni alle ingiustizie starebbero nelle diseguaglianze globali create dal capitalismo fino ad oggi?
Marx ci spiega che il livellamento del saggio di profitto dà seguito a strutture commerciali non giuste, non equilibrate. Dalla circolazione delle merci e dall’accumulazione dei capitali non deriva una stabilità economica per tutti ma, al massimo, solo per i pochi privilegiati che hanno la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Insomma, per dirla in poche parole, lasciato libero da qualunque vincolo (socialdemocratico o liberale) il capitalismo non è capace di autoregolamentarsi perché soggiace a leggi di sviluppo che prescindono da quelle, già di per sé contraddittorie del sistema stesso. La natura degli eventi, tra tutte. Così i più poveri saranno sempre più poveri e più ricchi sempre più ricchi. Anche in Argentina, soprattutto con la deregolamentazione totalizzante de El loco.
Nemmeno gli Stati Uniti d’America, che sono la patria del liberismo moderno, si spingono a questi eccessi di interpretazione assoluta del mercato come unico regolatore di qualunque aspetto della vita degli individui e dei popoli nella loro moderna composizione complessa. La follia di Milei è degna delle sue esternazioni. Ma è una follia lucida, che mira a privilegiare pochissimi e a mantenere in uno stato di dipendenza totale tutti gli altri. Dal profitto, dal privato.
Milei sa che questa posizione oggi è ancora minoritaria. Anche tra i suoi amici di ultra destra sparsi nel mondo, Meloni compresa. Ma punta, con l’”internazionale dei conservatori“, a federare un fronte antisociale planetario, a smussare le divergenze, a compattare populismo, qualunquismo, sovranismo e ultraliberismo. A seconda di come andrà il voto statunitense, questo progetto potrebbe avere una accelerazione improvvisa, ma non inaspettata.
C’è un ultima domanda che viene alla mente e su cui, non sapendo e quindi non potendo dare risposta, lasceremo pendere le considerazioni di chi legge, per così dire, a prescindere da ciò che pensiamo: Milei è la rappresentazione della ingestibilità del capitale in un paese che mostra al mondo come potrebbe essere un domani ovunque, oppure è un gradino ulteriore di aggressività del sistema che non conosce ancora la sua crisi strutturale?
Con questo interrogativo, comunque sia, sarebbe bene fare i conti e sostenere senza indugio alcuno la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori, dei poveri dell’Argentina contro El loco. Contro un ultraliberismo completamente fuori controllo.
MARCO SFERINI