Soldati israeliani © Timon Studler/Unsplash
L’agenzia di rating per la prima volta nella storia abbassa la valutazione. E dice che il problema non è solo la guerra, ma l’economia
Michelangelo Fabbrini
Questo articolo è tratto dalla rivista online Alleo.it, che ringraziamo per la gentile concessione.
Mentre aspettiamo l’attacco israeliano a Rafah, il possibile accordo e la tregua entro il 10 marzo, data d’inizio del Ramadan, c’è una notizia che non è arrivata in Italia ma avrebbe dovuto. La settimana scorsa Moody’s ha annunciato l’abbassamento del rating di Israele, con previsione per il futuro (outlook) “negativa”. È una decisione eclatante. È la prima volta dal 1998, da quando il Paese ha iniziato ad essere valutato dalle agenzie internazionali.
I rating d’Israele sono sempre stati pieni di elogi per la forza economica del Paese, la sua eccezionale dinamicità, la popolazione giovane e in crescita, il successo nel ridurre il debito pubblico nel corso degli anni. Ma qualcosa è cambiato. E adesso Moody’s giudica la vulnerabilità del Paese di fronte a un «rischio di evento», compresi i rischi politici interni o geopolitici, e sul futuro.
Secondo l’agenzia, non è garantita una soluzione sostenibile per il conflitto di Israele con Hamas, e la sicurezza della popolazione israeliana è meno consolidata di quanto si pensasse prima dell’attacco di Hamas. «Non c’è alcun accordo su un piano a più lungo termine che ripristini completamente e infine rafforzi la sicurezza per Israele», scrive Moody’s nel suo rapporto
I dati di un economia in crisi
Alcuni numeri ci aiutano a comprendere. A fine gennaio il deficit negli ultimi 12 mesi è balzato al 4,8% del Pil, e si stima che alla fine dell’anno raggiungerà il 6,6%. Dopo lo scoppio della guerra lo spread tra il tasso d’interesse delle obbligazioni israeliane a 10 anni e quelle statunitensi è allargato a decine di punti base. Le stime fiscali, sempre di Moody’s, vedono un aumento a lungo termine delle spese governative, pari ad almeno l’1,4% del Pil. Forse più vicino al 2% se il conflitto continuerà o si intensificherà oltre le attuali aspettative.
Le spese per la difesa in futuro sono sconosciute, ma si stima che cresceranno dello 0,5% del Pil in ciascuno dei prossimi anni. Per contrastare queste difficoltà, la Knesset ha votato un bilancio rivisto con aumento dell’Iva dal 17% al 18% dall’anno prossimo.
Le possibili conseguenze
È presto per determinare le conseguenze finanziarie della riduzione del rating. Moody’s è una delle tre principali agenzie di rating del credito sovrano, e solo quando le altre due, Standard & Poor’s e Fitch, avranno emesso le loro valutazioni sarà più chiaro se sarà davvero cambiata la visione complessiva del Paese. E se i consueti punti di forza d’Israele (la crescita, l’alta tecnologia, la cyber-tecnologia, ecc.) saranno stati messi in secondo piano rispetto ai rischi per la sicurezza.
Anche se le possibili conseguenza di un rating ribassato sono facilmente individuabili: aumento dei tassi d’interesse e quindi più soldi per ripagare il finanziamento del debito pubblico e meno per sanità, istruzione, welfare e investimenti. Aumento dei mutui, degli scoperti di conto corrente, possibile svalutazione dello sheckel, inflazione, tenore di vita più basso.
Ma intanto, dopo che il rating è sempre stato positivo nonostante crisi economiche e sfide difficili per la sicurezza – si pensi alla Seconda Intifada o alla Seconda guerra del Libano – è un colpo all’immagine internazionale d’Israele. Un Paese che adesso deve condividere il nuovo rating con paesi come l’Islanda, la Polonia, la Lituania, Malta, la Slovacchia e le Bermuda. E un rapporto così grave è un colpo alla fiducia nel governo attuale, ovviamente nel Primo Ministro Benjamin Netanyahu e nel Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich.
Non è solo colpa della guerra
Netanyahu contrattacca. E risponde con parole semplici che suonano vere: si sta combattendo una guerra, la guerra è un’impresa costosa che mina la stabilità e aumenta le spese e i debiti, più la guerra si intensifica e si diffonde più il rating si abbassa. «L’economia d’Israele è forte. La riduzione del rating non è legata all’economia, tutto deriva dal fatto che siamo in guerra. Il rating tornerà non appena avremo vinto la guerra, e lo faremo», ha dichiarato.
Semplice e ovvio, sembra vero. Ma il quadro è un altro. Il documento più importante per le agenzie di rating è il bilancio statale, e Moody’s è preoccupata dal rapporto debito/PIl che ha ricominciato a crescere. Questo è il risultato del bilancio 2024 del governo di Netanyahu e Smotrich, che ha creato un disavanzo ampio e pericoloso – il già citato 4,8% che raggiungerà il 6,6% a fine anno. Perché convoglia ingenti somme verso i settori ortodossi e gli insediamenti, e taglia invece riforme e investimenti nelle infrastrutture, necessari per la crescita.
Manca una visione per il futuro
Moody’s intravede un orizzonte tragico per Israele. Non si limita alla situazione economica: rileva l’assenza di una soluzione al conflitto con i palestinesi, i rischi di una guerra con Hezbollah nel nord, il fatto che non esiste ancora un piano per il dopoguerra a Gaza, l’instabilità politica. Accenna al problema demografico derivante dalla crescente popolazione ultraortodossa, che non lavora e non studia materie fondamentali come la matematica e l’inglese, incidendo così sulla produttività e sulla produzione.
Di questo parla un articolo della giornalista Noa Landau su Haaretz secondo la quale nell’azione del governo non esiste una soluzione a lungo termine che ripristini la calma e la sicurezza dopo un colpo di tali proporzioni. Manca qualsiasi visione che non sia guerra perenne.
Vincere e vinceremo, questa è la formula. Anche se non sappiamo cosa questo significhi. «Mi chiedono se vivremo per sempre di spada: la mia risposta è sì», disse Netanyahu alcuni anni fa in una discussione al parlamento. E questa sembra essere la sua sola soluzione per il Paese, conclude Noa Landau. Il risultato è ora il primo declassamento del rating di Israele