«Il potere genera responsabilità sia negli affari internazionali, che negli affari domestici e persino nei propri affari privati. Rifiutare o abdicare queste responsabilità è una forma di abuso di potere»[1]. È con questa breve frase che nel 1968 Irving Kristol riassumeva il senso della missione dei neoconservatori nel forgiare il futuro grandioso dell’America come guida del mondo libero.
Ad un primo fugace sguardo, il neoconservatorismo appare, ancora oggi, come un movimento intellettuale e politico dal perimetro estremamente variabile e indefinito, incapace di darsi una qualsivoglia strutturazione o di agire come effettivo gruppo di pressione, oltreché invariabilmente mutevole nelle simpatie politiche dei suoi esponenti più significativi.
E sebbene a coniare il lemma “neoconservatore” non fu Kristol, ma Michael Harrington all’inizio degli anni Settanta in un articolo intitolato “The Welfare State and Its Neoconservative Critics”, è al primo che si deve il successo del termine.
Nel tentativo di provare a identificare in modo netto un gruppo di intellettuali che pur dichiarandosi liberals (liberali) avevano smesso di riconoscersi nel partito democratico, sempre Kristol era solito definire il neoconservatorismo un «termine descrittivo più che normativo», in grado di cogliere il realismo che regna nel mondo.
Ma procedendo oltre queste brevi premesse etimologiche, se si volesse scendere più nel dettaglio e individuare un aspetto peculiare del neoconservatorismo americano in grado di distinguerlo, ad esempio, dal conservatorismo classico o dal pensiero liberal, si potrebbe cominciare sottolineando l’importanza rivestita nel progetto neoconservatore dall’ideale realizzazione di un nazionalismo universalista e liberale, il quale ha come suo correlato naturale il rigetto di limitazioni alla sovranità degli Stati Uniti, percepiti come il solo egemone benevolo nell’arena caotica delle nazioni ammesse a far parte del gioco liberal-democratico.
Un neoconservatore è dunque un liberal colpito dalla realtà”[2], ovvero una persona con idee progressiste, disposto a dipanare in modo radicale le apparenti contraddizioni che affliggono la società, finendo col proclamarsi profeta, protettore e pacificatore del genere umano.
La genealogia del neoconservatorismo americano
A dispetto della loro missione apparentemente unitaria, il movimento neocon non è mai stata una falange organizzata e impenetrabile pronta a marciare nella stessa direzione in ogni momento. Se si volesse restituire una certa plasticità al fenomeno neoconservatore, l’immagine più adatta potrebbe essere quella di una nebulosa cangiante e difficile da delimitare, posizionata a sua volta all’interno di una galassia in continua espansione.
La prospettiva neocon è espressione dinamica, ma allo stesso tempo sistematica, di una riflessione molto più ampia, che riflette un approccio zetetico, in grado di giudicare il panorama politico, economico e culturale nel suo complesso, tenendo fermi degli immutabili aspetti prescrittivi e ideali.
Tradotto nel linguaggio della politica, tutto ciò significa grossomodo che per i neoconservatori il mantenimento della signoria sulle rappresentazioni, sulla parola, sulla politica e finanche sulla religione, costituisce sempre e comunque il modo migliore per instradare il cammino della propria società decidendo cosa è giusto e cosa è sbagliato.
Sotto il profilo epistemologico, nella logica dei neoconservatori gli interessi collettivi americani assumono il significato di vere e proprie questioni di principio. Politicamente, questo atteggiamento si traduce nella scelta strategica delle élite (in primo luogo conservatrici) di costruire un manufatto politico-ideologico destinato a un consumo simbolico individuale e collettivo, nonché una guida all’azione e un sapere sempre connessi con una visione del mondo che, a suo modo, è produttrice di senso sia per i dominanti che per i dominati.
Dal momento che l’obiettivo non è mai il mero dominio bensì l’egemonia,[3] per i neoconservatori, l’esigenza di attuare un controllo pedagogico sempre più stringente sulla società non può prescindere da un’analisi approfondita del presente, sulla base del passato, nel tentativo di produrre il futuro.
Il neoconservatorismo ha sempre cercato di portare nell’esperienza culturale della società, non solo americana ma anche in quella dei Paesi alleati, una serie di valori, principi e iniziative che predisponessero gli individui a famigliarizzare con una precisa idea di democrazia, quella americana, appunto, senza cadere in falsi sensazionalismi.
All’interno di un movimento estremamente ampio e capillare come la galassia neoconservatrice, quando si tratta di definire una strategia sugli interessi nazionali americani nel mondo si confrontano da sempre diverse anime. Da un lato vi sono i famigerati “falchi”, ovvero i teorici del Pentagono che continuano a predicare il mantra della destabilizzazione del nemico adottando il sistema del fare ‘terra bruciata’ e dell’isolamento internazionale, versione aggiornata del vecchio adagio del Divide et Impera.
Accanto ai falchi convivono, più o meno pacificamente, quei neoconservatori che interpretano la lotta americana nel mondo contro le autocrazie e i regimi come una missione animata da altissimi ideali di libertà e uguaglianza, gli stessi che hanno reso possibile l’esperimento democratico americano nel corso della storia. Infine, tra i due estremi c’è una terza schiera, quella dei cosiddetti “realisti politici”, che guardano all’afflato ideale della lotta americana semplicemente come a uno strumento attraverso il quale l’impero americano può continuare a prosperare.
I sostenitori di questa posizione non considerano necessariamente gli Stati Uniti come il “poliziotto del pianeta” ma implicitamente ammettono che nel momento in cui il sistema-mondo, nato con la globalizzazione a trazione americana, sia sotto attacco, gli Usa devono intervenire per ristabilire l’equilibrio, essendo de facto l’unica nazione in grado di assolvere tale compito[4].
Ad avvalorare la tesi di questo gruppo di “moderati” concorrerebbe l’esperienza ricavabile niente meno che dalle due guerre mondiali: in quel frangente della storia, l’isolazionismo democratico statunitense dovette cambiar pelle per necessità e gli Stati Uniti si ritrovarono “costretti” a imbracciare le armi per risolvere un problema creato dagli europei e divenuto poi ingestibile.
L’ossessione dei neocon: esportare la democrazia americana nel mondo
I neoconservatori americani iniziarono ad occuparsi stabilmente di affari esteri dopo la pubblicazione di un articolo del 1979 della politologa della Georgetown University, Jane J, Kirkpatrick[5] in cui si criticava aspramente la politica estera statunitense dell’amministrazione Carter.
Nel suo articolo, Kirckpatrick metteva in evidenza come alcune decisioni prese a Washington rappresentassero, agli occhi della galassia neocon, una resa incondizionata di fronte alla politica espansionistica dell’Unione sovietica.
La futura delegata dell’Amministrazione Reagan alle Nazioni Unite era preoccupata per il grande immobilismo americano in politica estera e invitava la politica statunitense ad intervenire in modo più energico in difesa di quei principi di libertà e democrazia che avevano permesso agli Stati Uniti di diventare la più florida democrazia del mondo. Le critiche sollevate dall’articolo di Kirckpatrick ebbero il merito – o demerito a seconda della prospettiva dalla quale si decide di guardare – di sviluppare il dibattito sulle reali possibilità di ricreare l’esperimento democratico americano al fuori dei confini nazionali.
La riflessione venne approfondita negli ambienti neoconservatori che posero, tuttavia, la questione in termini nettamente diversi; il punto cruciale non era comprendere se esportare o meno il modello democratico americano nel mondo, ma trovare il modo di far attecchire soltanto quegli aspetti della democrazia liberale (legati all’economia e alla cultura) funzionali a salvaguardare gli interessi americani nei luoghi del pianeta dove fino a quel momento erano prevalse forme di governo particolarmente gradite alla Casa Bianca.
Il tema dell’esportabilità dell’atteggiamento democratico nel mondo senza la democrazia infervorò il dibattito nella politica americana per tutto il ventennio successivo arrivando sino ai fatti dell’11 settembre 2001 nel momento di massima ascesa dei neocon. Dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti – diventati nel frattempo l’unica superpotenza e soggetto della storia – si ritrovarono a dover fare i conti con responsabilità nuove che richiedevano soluzioni alternative in un momento in cui davvero la Storia dava l’impressione di essersi fermata a Washington.
In questo clima di grandi stravolgimenti, la necessità, non più eludibile per i neoconservatori, di stabilire un nuovo metron da parte dell’unica potenza egemone rimasta sul pianeta, partorirà una riaffermazione dell’eccezionalismo americano ammantato di nuove istanze universalistiche. La lotta del democratico occidente contro il famigerato axis of evil (asse del male), termine usato per la prima volta dal presidente statunitense George W. Bush nell’annuale messaggio sullo Stato dell’Unione del gennaio del 2002 e creato nella fucina del neoconservatorismo più oltranzista, diventerà il nuovo obiettivo da portare a termine.
Ma la pretesa vecchia e arrogante di riplasmare l’ordine globale riaffermando insieme il primato dell’America come ‘nazione indispensabile’ – attraverso presupposti e logiche binarie ormai fuori tempo massimo – si rivelerà egualmente inefficace in uno scenario geopolitico totalmente trasfigurato.
L’attentato dell’11 settembre e la successiva invasione dell’Afghanistan, seguita da quella dell’Iraq, nel 2003, impartiranno agli Stati Uniti una lezione durissima sul tema dell’esportabilità preconfezionata dei valori occidentali in giro per il mondo. Se, infatti, nel teatro geopolitico post-Guerra Fredda, gli Usa non avevano faticato più del previsto a mantenere fermo il timone del mondo coltivando la libertà economica in un sistema ancorato all’idea di un’occidente globalizzatore e dispensatore di libertà, con l’avvento del terrorismo islamista la situazione era mutata drasticamente.
Vent’anni di fallimentare guerra al terrorismo, dimostreranno che i principi democratici ritenuti strumentali al consolidamento del dominio americano, se impiantati artificialmente in un ambiente profondamente estraneo a quello nel quale sono nati e si sono consolidati, possono diventare pericolosamente disfunzionali e persino ritorcersi contro i loro stessi creatori.
Il progetto sofocratico dei neoconservatori nell’America di oggi
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni duemila, neoconservatori come Irving Kristol di «The National Interest» e Norman Podhoretz di «Commentary» si sono ritrovati fianco a fianco con la generazione più giovane di pensatori e compagni di viaggio, come William Kristol, gli analisti di politica estera Robert Kagan e Max Boot, lo scrittore di discorsi di G.W. Bush, David Frum, e altri che hanno servito nell’amministrazione del presidente repubblicano.
In anni ancora più recenti, molti esponenti del fronte neoconservatore hanno deciso di formare un fronte comune per boicottare il fenomeno Donald Trump. Nel 2018, William Kristol, che era stato affiliato con i repubblicani per decenni, ha lanciato una nuova pubblicazione, The Bulwark, uno spazio per i conservatori moderati anti-Trump, invidiando nel democratico Joe Biden ‘la semplice risposta’ per sconfiggere il più grande pericolo che potesse capitare all’America e agli americani.
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha rappresentato un durissimo colpo per i neoconservatori. Nell’amplificare le già numerose fratture sociali, etniche e culturali presenti nella società americana, il trumpismo ha boicottato il progetto pedagogico neoconservatore, caratterizzato da una forma di nazionalismo solidaristico fortemente incentrato sull’ assimilazione funzionale della popolazione non nativa all’interno del sistema sociale e produttivo statunitense, indispensabile per ampliare i ranghi delle proprie forze armate. Ma a far storcere il naso ai conservatori è stata soprattutto l’idea trumpiana di voler ridurre l’impegno militare degli Usa in politica estera, vanificando l’atteggiamento di imperial overstretch (estensione dell’impero americano oltre le capacità militari ed economiche) portato avanti da George W. Bush.
L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, nel 2020, ha sancito un cambio di passo netto. L’intesa tra i falchi neoconservatori repubblicani e l’entourage del nuovo presidente si è rafforzata a partire dal recupero di una mentalità ferocemente interventista su scala globale, improntata sul concetto, ormai collaudato, delle “Wars of choice” (guerre necessarie)[6]. Tra le tante convergenze politiche e strategiche, l’amministrazione Biden e i neoconservatori condividono inoltre una marcata russofobia, idealmente contrapposta alla sinofobia e islamofobia del fronte repubblicano monopolizzato da Trump.
L’establishment statunitense non ha mai perdonato al presidente Vladimir Putin la svolta autoritaria impressa al Paese dopo il crollo dell’URSS, accusandolo di voler porre in atto un progetto politico in aperta continuità con il passato. L’accusa mossa da Washington a Mosca è diventata negli anni una vera e propria ossessione che ha trovato nei neoconservatori dei validissimi alleati mai sazi di dispensare consigli utili per indebolire il vecchio nemico.
In verità, però, se si osserva con attenzione, la persistente interferenza dei neoconservatori nell’attuale politica estera degli Stati Uniti rappresenta l’ennesimo goffo tentativo di secolarizzare il dominio americano nel mondo alle condizioni imposte da coloro che hanno sempre creduto di detenerne la potestà esclusiva. L’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 e lo scoppio di una nuova guerra nella Striscia di Gaza sono la plastica dimostrazione che la pax americana inizia a scricchiolare un po’ dappertutto e la “Fine della Storia” sia oramai una reliquia del passato, un mito geopolitico non più operativo.
Nel corso di oltre tre decenni, i neoconservatori hanno costruito le loro fortune sulla difesa strumentale e capziosa dell’autoproclamato diritto storico delle nazioni sovrane a possedere uno spazio che per definizione è esclusivo e non condivisibile, salvo però dimostrarsi straordinariamente indulgenti verso gli “errori” commessi dagli americani nelle violazioni di questo sacrosanto diritto.
Sebbene questo processo decisionale unilaterale sia stato l’elemento caratterizzante della politica estera di Washington per decenni, è bene non dimenticare mai che alla rimozione, spesso, si accompagna l’apocalittica. In un periodo della Storia in cui la minaccia dell’estinzione nucleare rischia di non essere più tabù, dalle parti di Washington farebbero bene a valutare più accuratamente il potere relativo e le posizioni dei paesi presenti sullo scenario scenario globale piuttosto che continuare a riporre cieca fiducia nel desueto bestiario ideologico dei neoconservatori.
- Cfr. Ibidem.
- Cfr. M. Domenichelli, Gli Intellettuali e la cultura neoconservatrice negli Stati Uniti, in «Allegoria» (J.Q. Wilson, 1982) (Kirckpatrick, 1979; Kristol W. , 1995) (Wulzer, 2018) (Malvezzi, 2006), XIX, 56, 2007, pp. 158-176.
- F. Felice, Prospettiva «Neocon». Capitalismo, Democrazia, valori nel mondo unipolare, Rubettino, 2005, pp. 40-45.
- J.J. Kirckpatrick, Dictatoriship and double standards, in «Commentary Magazine», 1979.
- Cfr. R. Haass, Revisiting America’s Wars of choice in Iraq, in «Project Syndicate», marzo 2023.