Una premessa è d’obbligo: in linea di principio, le proteste degli agricoltori – e, in generale, del settore primario – non si contrappongono alle istanze ambientaliste e all’agenda Green della Commissione europea. Non c’è conflitto, non c’è polarizzazione. Piuttosto, potrebbe delinearsi una naturale integrazione tra le istanze e le rivendicazioni che provengono dai campi agricoli e dagli allevamenti e le politiche di riconversione energetica e di tutela dell’ambiente. Non si deve quindi strumentalizzare una protesta legittima al fine di inquinarne i pozzi da cui prende vitalità.
Seppur in un contesto profondamente eterogeneo, gli agricoltori europei convergono verso un diffuso malcontento e una profonda insoddisfazione verso le politiche europee del settore, che vengono declinate nella c.dd. PAC, ossia nella Politica Agricola Comune. L’insoddisfazione, peraltro, emerge da una considerazione di contesto: il comparto agricolo è stato relegato ad un ruolo di gregario, marginale, non più per l’appunto “primario”. Il problema è quindi, in primo luogo, culturale. L’uomo medio europeo, che frequenta luoghi urbanizzati, spesso non è consapevole del cibo che assume, né tantomeno della filiera agro-alimentare che ci sta dietro. Il consumismo è anche questo: consumare senza sapere né conoscere l’intero ciclo di vita dei prodotti. L’abbandono delle campagne e della vita contadina ha sicuramente consegnato uno stile di vita più agevole e agiato, ma ha allontanato le persone da quel rapporto privilegiato con la terra e la natura, i cui relativi prodotti non sono più intesi nel loro significato originario, ma come mera merce di scambio.
Proprio dalle origini culturali ed economiche deve partire qualsiasi riflessione sulle proteste contadine delle ultime settimane: da un lato, lo scollamento tra i dibattiti politici, le tribune mediatiche e la dura vita dei campi e, dall’altro, il contrasto tra la mentalità consumistica e capitalistica e la necessità di una maggiore consapevolezza e conoscenza dell’intera filiera agro- alimentare.
In questo contesto culturale di fondo, ad orientare le scelte del consumatore è, quasi esclusivamente, il prezzo. I prodotti agricoli vengono in effetti percepiti e scambiati come commodity, ossia materie prime prive di significative differenze qualitative.
A ben vedere, però, i prodotti agricoli non sono tutti uguali: un pomodoro non vale l’altro, un olio d’oliva non è uguale ad un altro e così via. In particolare, nel mercato agroalimentare mondiale sussistono importanti differenze negli standard di produzione, nelle tecniche agricole adottate, nei pesticidi e diserbanti utilizzati, nella distanza tra il luogo di produzione e di consumo (e, dunque, nella freschezza del prodotto) etc. Queste differenze, com’è ovvio, influiscono sulla qualità finale del prodotto agricolo che arriva al consumatore. Alcuni di questi fattori sono soggetti, in parte, alla libera discrezione dell’agricoltore e, in altra parte, poste dal contesto ambientale, colturale e di mercato in cui ci si trova ad operare. Altre, però, sono imposte all’agricoltore come obblighi di fare (o non fare) per la tutela di specifici interessi pubblici o collettivi, quali la tutela dell’ambiente e della biodiversità o della salute alimentare. Nel caso degli agricoltori europei, tali obblighi sono posti, in larga parte, dalla Politica Agricola Comune della UE e hanno un notevole impatto sui costi di produzioni e sulle rese dei terreni.
Per questo le proteste dei trattori di questi giorni rivendicano un “giusto prezzo” per i prodotti agricoli europei: un “giusto prezzo” che riconosca le differenze qualitative e incorpori e i costi di produzione. Ma cos’è un “giusto prezzo”? Per quanto trattasi di un concetto ambiguo e fisiologicamente indeterminato, si può sostenere che affinché un prezzo possa essere ritenuto “giusto”, esso dovrebbe superare il costo di produzione del prodotto venduto, permettendo a chi lo vende di praticare un certo margine che ripaghi il produttore/venditore dello sforzo e del rischio della produzione.
Questa è, tuttavia, una condizione di mercato tristemente lontana da quella vissuta da larga parte degli agricoltori europei, i quali si trovano costretti a vendere (quali ‘price taker’) i propri prodotti a costi pari o inferiori a quelli di produzione. Questa condizione di mercato peculiare (e “ingiusta” secondo i dettami classici dell’economia) è causata principalmente da due ordini di fattori: in primo luogo, dal massiccio ricorso all’importazione a basso costo di prodotti agricoli extra-UE che non rispettano quei medesimi standard qualitativi e di produzione; in secondo luogo, dall’iniqua ripartizione dei margini di profitto lungo la filiera agroalimentare.
Ci soffermiamo ora sul primo dei due fattori. La situazione è nota: approfittando di un dumping ambientale e salariale favorevole, l’offerta estera spiazza così le produzioni nazionali. Nella dinamica di questa concorrenza sleale l’offerta agroalimentare extra-UE si avvantaggia di costi di produzioni così inferiori da rendere i propri prodotti più convenienti, in termini di prezzo, rispetto ai prodotti UE, nonostante i maggiori costi di trasporto da affrontare per arrivare ai consumatori europei. Ciò accade, peraltro, in un contesto in cui tale concorrenza sleale è esacerbata dagli accordi di libero scambio, definiti o in via di definizione, da parte dell’UE (quali il CETA e quello con i paesi latinoamericani del Mercosur) che garantiscono ai produttori esteri di poter immettere i propri prodotti sul mercato europeo in assenza di dazi antidumping.
Si capisce così come gli agricoltori europei non stiano lottando per essere lasciati liberi di inquinare o di immettere in commercio prodotti potenzialmente dannosi per la salute, bensì rivendicano il diritto di vedere applicare le stesse regole a tutti i produttori che vendono prodotti agroalimentari sul mercato UE. “Un mercato, uno standard”, non è solo uno slogan, ma anche la condizione necessaria (anche se non sufficiente) affinché possa essere riconosciuto il “giusto prezzo” agli agricoltori europei.
Il grido degli agricoltori è anche denuncia di una buona dose ipocrisia e contraddizione che contraddistingue le Politiche Agricole della UE: mentre gli impegni del Green Deal europeo e della strategia ‘Farm to Fork’ si rivelano molto esigenti e stringenti nei confronti degli agricoltori locali, la UE assume, al contempo, un atteggiamento piuttosto lassista nei confronti di quelle importazioni agroalimentari extra-UE potenzialmente dannose per l’ambiente, per la salute e/o per le condizioni di vita e di lavoro (si veda il noto caso dell’uso diffuso del glifosato sui cereali di importazione canadese).
Una soluzione (etica, ma radicale) potrebbe essere la chiusura del mercato UE a tutti quei prodotti alimentari provenienti da paesi che non impongono il rispetto dei nostri medesimi standard produttivi; un’altra soluzione (meno etica e meno radicale) potrebbe essere quella di applicare forti dazi anti-dumping che rendano possibile ai produttori locali di competere sul proprio mercato[1] e vendere ad un “giusto prezzo”.
Ma c’è di più perché, se da un lato, il produttore/agricoltore non viene tutelato, ma al più compensato – con i noti sostegni della PAC – per avere immesso sul mercato un prodotto ad un prezzo inferiore rispetto a quello di produzione, dall’altro lato, nemmeno il consumatore finale ne esce favorito. Il trucco è presto spiegato: la filiera agro-alimentare è tassellata di ulteriori fasi (dalla raccolta del prodotto primo alla vendita del prodotto finito) caratterizzate da forti aumenti, più che proporzionali, del prezzo.
Un esempio pratico valga a spiegare gli effetti distorsivi: negli ultimi anni, il mercato del grano ha subito delle forti oscillazioni e, in concomitanza dello scoppio della guerra in Ucraina (inizio 2022), il prezzo – a causa di trasversali speculazioni – è quasi raddoppiato per poi – nell’arco di un anno – tornare pressappoco ai prezzi anteguerra. Cionondimeno, il prezzo della pasta e del pane, prodotti con la materia prima grano, hanno registrato un aumento relativo del 50/60% che è poi rimasto stabile. In questa vicenda, è evidente che non guadagna il produttore/agricoltore (che nel frattempo ha anche dovuto far fronte agli aumenti dei costi di produzione: manodopera, gasolio, fertilizzanti) né tantomeno il consumatore finale.
La filiera agro-alimentare sottende infatti pratiche commerciali sleali da parte dei principali player, i quali hanno spesso un ambito di operatività transnazionale: si tratta, infatti, di grossi gruppi industriali che – abusando della propria posizione – impongono unilateralmente il prezzo al piccolo coltivatore diretto, il quale si trova costretto ad accettare condizioni contrattuali svantaggiose e, per l’appunto, “ingiuste”. È il fenomeno, in particolare, della Grande Distribuzione Organizzata (c.d. GDO) che cattura la più ampia fetta di valore generato lungo la filiera ed è in grado di incrementare sempre di più i profitti. Le conseguenze di queste pratiche alterano la distribuzione di risorse e incoraggiano comportamenti distorsivi lungo tutta la filiera, con effetti negativi anche sul consumatore finale. Le regole del mercato fagocitano i più deboli a favore dei più forti. L’Unione europea – sempre meno attenta alle esigenze dei piccoli produttori agricoli – non è stata ancora in grado di consegnare un solido framework normativo capace di arginare tali pratiche commerciali sleali. Troppo blanda attualmente risulta, infatti, la recente Direttiva (UE) 2019/633 che ha stabilito norme minime concernenti l’applicazione di alcuni divieti di pratiche commerciali sleali, a cui è seguita la conversione da parte del legislatore italiano con il D.Lgs. n. 198 dell’8 novembre 2021.
In questo contesto, allora si torna alla tesi di partenza: da un lato, il mondo e la cultura capitalistica hanno abbandonato nel dimenticatoio il lavoro dell’agricoltore, screditandone anche le proprie qualità manuali e professionali, dall’altro lato, il consumismo divora i più piccoli e accontenta i più forti, si rivolge ai mercati globali e all’Unione europea per soddisfare tali inclinazioni, si rivolge ai mercati globali e impone stringenti vincoli a quelli locali.
In antitesi, il grido di allarme degli agricoltorisi rivolge contro speculazioni, ‘doppiopesismo’ nel commercio agroalimentare, indifferenza nei confronti delle esigenze agricoltori e allevatori e misure ambientaliste spesso ceche, talvolta, ipocrite, ma soprattutto antitetiche rispetto alle decantate finalità green, che hanno caratterizzato le politiche di Bruxelles degli ultimi anni.
In sintesi: i Trattori hanno ragione, perché chiedono il riconoscimento di un “giusto prezzo” per i prodotti degli agricoltori e allevatori europei e perché pretendono una completa revisione delle politiche commerciali agrolimentari e un’inversione di rotta rispetto alla compressione dei propri margini di profitto a favore dei grossi gruppi industriali.
Servirebbe, dunque, una rivoluzione… realmente green!
[1] È in effetti importante sottolineare che l’attuale modello del mercato agroalimentare tende ad avvantaggiare leimprese capaci di esportare all’estero, spesso in Stati dove non è presente quella specifica produzione agricola ed in cui si possono, pertanto, ottenere prezzi più vantaggiosi e margini più alte. Vale forse la pena rilevare che tale capacità all’export è spesso fuori dalla portata delle piccole e medie aziende agricole che, per ovvie ragioni di logistica e canali di vendita, tendono invece ad un commercio di prossimità