Le elezioni regionali che si terranno a breve in Sardegna stanno mettendo in luce una sequela di contraddizioni tutte interne alla maggioranza di destra.
Una maggioranza che, forse troppo facilmente, abituati come siamo stati al ricompattamento conservatore e reazionario delle forze che hanno sempre superato le loro diatribe nel nome del comune denominatore berlusconiano, abbiamo pensato fosse granitica come un tempo, capace di autorigenerarsi nonostante gli interessi differenti da zona a zona, da nord a sud, da ovest ad est del Paese.
Sarebbe sbagliato però fare anche l’errore opposto: pensare quindi che ora questa capacità federativa sia del tutto venuta meno e che, Salvini e Meloni siano ad una sorta di redde rationem. In ballo c’è la tenuta anzitutto del governo a cui nessuno vuole e può rinunciare se intende mantenere la sua fetta di potere e il suo rapporto con un elettorato che, stando ai sondaggi, sembra piuttosto fedele e concentrato sul voto già espresso nel settembre del 2022.
Sta di fatto, però, che le acredini ci sono e si notano al di là delle belle parole e dei sorrisi di circostanza che dal palco di chiusura della campagna elettorale per le regionali sarde si sono scambiati Giorgia Meloni, Antonio Tajani e Matteo Salvini.
La prossimità col voto per le europee viene sempre più incedendo con la solennità del momento dirimente in cui, se si candideranno i leader dei rispettivi schieramenti e partiti, pur nel contesto della proporzionalità dei consensi espressi, il peso specifico di ciascuno sarà misurato concretamente e varrà come attributo incontestabile per decretare i rapporti di forze. Soprattutto quelli della maggioranza.
In ballo c’è una controriforma complessiva dello Stato e dei suoi poteri reciprocamente indipendenti l’uno dall’altro: l’abbandono del presidenzialismo come formula esclusiva su cui portare il costituzionalismo moderno italiano, trasformando la Repubblica da parlamentare ad una specie di bonapartismo misto con il formale rispetto della prima parte della Carta del 1948, è una mossa che ha permesso a Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia di convergere su quella assurda teorizzazione (sempre meno teorica…) del premierato.
Un unicum mondiale, una eccellenza in negativo nel diritto degli Stati. Una deformazione tanto del ruolo legislativo quanto di quello presidenziale.
Qualcosa che fa letteralmente il paio con l’attacco all’unità nazionale che si esprime nella famigerata controriforma di Calderoli in materia di autonomia. Differenziata. Perché le differenze la destra non le ha mai, per cultura e per interesse, concepite come un valore aggiunto tanto del singolo cittadino quanto della collettività, ma semmai come uno stigma per i più deboli o un virtuosismo da premiare per i più forti.
Una distinzione apparentemente meritocratica che, invece, ha più le fattezze incongrue dello stabilimento di criteri di penalizzazione per alcuni e di privelegio per altri. Diseguaglianza, quindi. Come fondamento di una nuova Repubblica dove i diritti verrebbero garantiti soltanto per censo, per livello di benessere.
Di tutto il malessere sociale che interessa il Paese, con acutizzazioni davvero inquietanti al Sud e con un progressivo affermarsi al Nord, che se ne dovrebbe fare? Uno spezzettamento in venti sistemi diversi di assistenza, di vicinanza e di cura tanto delle menti quanto dei corpi?
Nella propaganda delle destre il tentativo di mostrare una unità molochiana in merito va certamente più a buon fine dell’altro tentativo: quello di stabilire le nuove regole per le elezioni europee e regionali. Nonostante una direttiva europea inviti gli Stati membri a non cambiare nulla delle leggi elettorali nei sei mesi prima del voto, il governo pare intenzionato a fare diversamente.
Partiamo dalle europee: si vota con la proporzionale, con uno sbarramento piuttosto alto (il 4% dei voti validamente espressi nelle urne), su una scheda unica, senza possibilità di voto utile, di sdoppiamento dei consensi.
Ma siccome alcune forze politiche, anche di estrema destra, potrebbero presentarsi senza dover raccogliere 150.000 firme, poiché affiliate a partiti europei che hanno rappresentanza nel Parlamento di Strasburgo, allora la maggioranza meloniana tenta la sortita: introdurre un emendamento della Legge per cui anche chi ha questa rappresentanza debba raccogliere comunque le firme.
La prova del voto dovrebbe prescindere da quella delle firme, perché la dimostrazione di avere un consenso la si dà, dopo un mese di propaganda elettorale, proprio al momento in cui questa finisce e si va diretti al responso delle urne. Invece, da molto tempo, per poter accedere ad un diritto democratico bisogna sentirsi dire che è ancora più democratico se alcuni sono costretti a fare banchetti ogni giorno in tutta Italia per avere le firme della gente che consenta a quel partito di presentarsi, mentre le forze politiche più organizzate, forti per seggi e percentuali, sono al riparo da questo passaggio.
Siccome il sindaco di Terni, prima dimissionario e poi controdimissionario, pare intenzionato a portarsi in Europa con la sua ex alfaniana “Alternativa popolare“, e siccome i suoi truculenti e cavernicoleschi modi lo rendono, ahinoi, simpatico ad una buona fetta di elettorato (soprattutto di destra), il timore dei governativi è che possa sottrarre a qualcuno di loro una non certo esigua fetta di consensi.
Così vale per altre piccole formazioni parafasciste che, puntualmente, si presentano e raccolgono meno dello 0,2% ma lo fanno per testimoniare comunque una presenza da rivendicare nel resto dell’anno in quanto a fiancheggiatori di una certa idea dell’Italia…
E così, purtroppo, varrebbe anche per Rifondazione Comunista che, se passasse l’emendamento in questione, sarebbe privata dell’esenzione dal raccogliere le firme, in quanto membro fondatore del Partito della Sinistra Europea che siede con propri rappresentanti (di altri paesi, non dell’Italia) a Strasburgo nel gruppo “The Left“. I giochi di equilibrio interni alla maggioranza di governo sono, quindi, uno dei probabili motivi per cui si sacrifica un pezzetto di democrazia sull’altare della convenienza politica propria.
Torniamo un attimo alle elezioni regionali: c’è chi vocifera che in Sardegna si giochi anche la partita della tenuta della presidenza del Veneto da parte leghista. Zaia è prossimo alla fine del secondo mandato. Per potergli permettere di presentarsi nuovamente come candidato in tal senso, serve un emendamento, una nuova norma, una modificazione della Legge.
In questo momento la Lega è, oggettivamente, in una posizione sfavorevole in quanto a reclami di postazioni di gestione degli enti locali. La preponderanza numerica di Fratelli d’Italia nella coalizione è incontestabile. Forza Italia sta a guardare ma, alla fine, si schiera sempre.
I maligni sostengono che, sorrisi di circostanza e pacche sulle spalle a parte, i leghisti e i sardi d’azione potrebbero tentare la carta del voto disgiunto per impedire al candidato meloniano Paolo Truzzu di succedere a Christian Solinas. Nel mentre queste ipotesi si fanno largo nel chiacchiericcio pseudo-politico di molte testate giornalistiche, nella Commissione Affari Costituzionali del Senato è stata per ora accantonata la proposta della Lega sul terzo mandato per i presidenti di Regione.
A favore della stessa, oltre al Carroccio, solamente Italia Viva. La somma fa il totale, diceva Totò. Ed è vero. Sempre. Perché se si sommano tutti questi tentativi di cambiare le regole durante le partite democratiche che si giocano per dare rappresentanza nei parlamenti europei, nazionali e nei consigli regionali, non se ne ha alla fine un rapporto confortante in quanto a stato di salute della democrazia italiana stessa.
Non sono, ovviamente, novità del giorno: non si contano più nemmeno sulle dita di tutte e due le mani di ognuno di noi i mutamenti di leggi elettorali fatti per far vincere questo o quello schieramento dato per sicuro a Palazzo Chigi dalle previsioni sondaggistiche. Sebbene non vi sia nulla di illegale in tutto questo, non si misura, di contro, il tasso di immoralità per una politica che, andando molto oltre gli interessi particolari delle classi che intende associarsi ed anche gestire, non si pone un freno, un limite di decenza nel nome del bene comune e del rispetto della Costituzione.
Dalle forzature sul terzo mandato all’autonomia differenziata, fino agli emendamenti per ridurre la platea partecipativa dei partiti alle elezioni europee, la sintesi è sufficientemente allarmante per un Paese che dovrebbe essere un esempio di democrazia dentro il contesto dell’Unione Europea.
Se il rispetto delle regole è talmente effimero da essere considerato una variabile dipendente dai consensi che di volta in volta si spostano grazie ai rapporti di forza economici, sociali e alla becera propaganda politica fatta sulla pelle sempre e soltanto dei più deboli e diseredati, nonché delle minoranze, il rischio più cogente è quello che l’intero impianto costituzionale finisca per non reggere.
Perché la domanda diventa questa: dopo che il Parlamento sarà spogliato della sua funzione legislativa primaria che tutela e garantisce i livelli dei diritti su tutto il territorio della Repubblica e per tutta la popolazione e, quindi, dopo che saranno venti i sistemi sanitari, venti quelli assistenziali, e così via, dando sempre più poteri alle Regioni, rimarrà solo il governo a rappresentare una sorta di unità politica della nazione?
Qualora questo fosse il futuro per l’Italia dell’autonomia differenziata, lascerebbe intendere altresì che sarebbe tanto difficile avere garanzie di uguaglianza sociale e civile dal solo esecutivo, che detterebbe l’agenda di costruzione del processo legislativo alle Camere con indirizzi propri (un po’ come accade oggi nel silenzio quasi totale di una critica che risulterebbe impopolare, eppure così necessaria), a colpi di maggioranza e di decretazioni di urgenza.
Il venir meno dell’equilibrio dei poteri dello Stato, della loro equipollenza e della loro interdipendente autonomia, unito alla deformazione delle regole per le elezioni, alla controriforma del premierato e al prolungamento del mandato per i presidenti di Regione sarebbe la determinazione oggettiva di un mutamento costituzionale complessivo e brutale.
E’ la somma che fa il totale. E se le voci che lo compongono sono il progressivo allontanamento dalla forma parlamentare della Repubblica alla differenziazione dei diritti tra regioni più fragili economico-socialmente e tra quelle più virtuose e ricche, questo totale è un passivo lancinante per la tenuta della democrazia italiana. Quindi è un attivo molto corposo per la trasformazione diseguale del rapporto tra istituzioni e popolo.
La sovranità che proprio il popolo dovrebbe poter avere rimarrebbe, nei fatti, una pura formalità.