I Pentagon Papers sono una corposa mole di documenti, commissionati nel 1967 dall’allora Segretario alla Difesa statunitense Robert S. McNamara (presidente era il democratico Lyndon Johnson), che si proponevano di riassumere la storia dell’operato degli USA nel Sud Est asiatico dalla Seconda Guerra Mondiale, fino al 1968.
Concepito come un dossier riservato, i suoi contenuti sarebbero divenuti di pubblico dominio nel 1971, grazie a Daniel Ellsberg, economista, analista militare e ricercatore presso il Centro per gli studi internazionali del Massachusetts Institute of Technology e tra gli artefici dell’iniziativa voluta da McNamara.
Ellsberg in un primo momento era stato un fervente sostenitore delle operazioni militari in Vietnam e nel sud est asiatico, ma studiandone da vicino le dinamiche si era schierato su posizioni decisamente contrarie, tanto che dopo aver lasciato l’anno prima la Rand Corporation, importante think tank americano, prese la decisione di consegnare a diverse testate giornalistiche – tra le quali il New York Times e Washington Post – gli incartamenti dei quali aveva iniziato a fare le copie circa due anni prima.
La mole è impressionante: 47 volumi, per un totale di circa tremila pagine, e quattromila di ulteriori allegati. Per la verità, non tutti i documenti sarebbero stati diffusi, perché alcune parti rimasero riservate fino al 2011, quando avvenne la pubblicazione integrale.
Il New York Times fu il primo giornale a iniziare la pubblicazione del corposo dossier, il 13 giugno del 1971, classificandone i contenuti come top secret. Il Dipartimento federale della Giustizia, sotto la presidenza del repubblicano Richard Nixon, chiese immediatamente un’ordinanza restrittiva alla magistratura, per bloccare le ulteriori pubblicazioni, sostenendo che avrebbero potuto arrecare un danno grave e irreparabile alla sicurezza e difesa nazionale.
La magistratura rigettò le istanze dell’Amministrazione, e già il 30 giugno la Corte Suprema, il massimo organo giudiziario degli Stati Uniti, con una maggioranza di 6 a 3, non accolse le tesi della Casa Bianca, dando in sostanza via libera alla ripresa della pubblicazione dei Papers.
Per quanto sia una delle parti più conosciute, i Pentagon Papers non documentano solo il conflitto in Vietnam, all’epoca ancora in svolgimento. Partendo più da lontano, il dossier parla del sostegno offerto alla Francia dall’allora Amministrazione (democratica) Truman per contrastare la guerriglia comunista in Vietnam o del supporto al regime sudvietnamita ad opera dell’Amministrazione (repubblicana) Eisenhower, con l’obiettivo di impedire la presa del potere dei comunisti a Saigon. Altri capitoli attestano come le Amministrazioni (democratiche) di Kennedy e Johnson rinnovarono l’impegno americano nel paese asiatico, conducendo sempre di più al conflitto aperto, che sarebbe scoppiato nel 1964, mentre un anno più tardi fu sempre Johnson a ordinare il bombardamento del Vietnam del Nord.
Questa è a grandi linee è la cronistoria dei Pentagon Papers, ai quali sono stati dedicati innumerevoli pubblicazioni e un film del 2017, The Post, diretto da Steven Spielberg e con protagonisti Meryl Streep e Tom Hanks.
L’aspetto che più ci interessa, però, è quello che riguarda il destino di Daniel Ellsberg, in relazione a quel che è accaduto anni dopo ad altri protagonisti di analoghe vicende, tra i quali possiamo annoverare Edward Snowden (attualmente rifugiato in Russia, paese del quale è divenuto cittadino nel 2022), Chelsea Manning, vale a dire colei che ha consegnato molti file riservati sulle operazioni militari in Iraq a Julian Assange, e soprattutto per quel che concerne il fondatore di WikiLeaks, che a suo tempo definì Ellsberg come una sua fonte di ispirazione.
Diciamo subito che i nomi citati non sono gli unici finiti nei guai con la giustizia federale per via dell’Espionage Act del 1917, una legge federale, più volte emendata, che persegue qualunque interferenza con le operazioni militari o il reclutamento, l’insubordinazione nell’esercito e il sostegno ai nemici degli Stati Uniti durante la guerra. Tra i personaggi che nel tempo sono finiti sotto procedimento e/o condannati a questo titolo figurano giornalisti, leader politici e sindacali, i coniugi comunisti Julius e Ethel Rosenberg (giustiziati nel 1953, per accuse che ancora oggi fanno discutere), l’informatore della National Security Agency (NSA) Edward Snowden e l’ex presidente (e attuale candidato repubblicano per la nomination) Donald Trump. Giova ricordare che Chelsea Elizabeth Manning, nata Bradley Edward Manning, ex membro delle forze armate statunitensi, fu condannata a più di trent’anni di carcere per spionaggio e altre imputazioni nel 2013, e poi graziata da Barack Obama circa quattro anni dopo; per la cronaca venne nuovamente incarcerata nel marzo 2019, per aver rifiutato di deporre sul caso WikiLeaks, per essere poi rilasciata un anno dopo.
Per Ellsberg si mise in moto immediatamente la macchina del fango, con l’obiettivo di screditare il personaggio e minarne la credibilità. Furono tirati fuori presunti problemi psichiatrici, che portarono perfino a un’azione illegale condotta da emissari di Nixon nello studio del suo medico curante: alcuni di questi particolari, che non portarono a nulla, sarebbero venuti fuori durante il Watergate. Ellsberg venne incriminato ai sensi della legge del 1917, rischiando fino a 115 anni di reclusione, ma il processo contro di lui, iniziato nel mese di gennaio 1973, ebbe vita breve e si concluse dopo pochi mesi con l’archiviazione.
Ellsberg, prosciolto da tutte le imputazioni a suo carico, ha potuto così proseguire fino alla morte, avvenuta a giugno scorso, l’attivismo pacifista e gli studi accademici: nel 2006 venne insignito del Right Livelihood Award, una sorta di “ Premio Nobel alternativo”, mentre nel 2018 gli venne conferito l’Olof Palme Prize 2018, riconoscimento istituito nel 1987 dall’omonima famiglia svedese per la comprensione internazionale e la sicurezza comune, indicando come causale il suo “profondo umanesimo e l’eccezionale coraggio morale”. Ha scritto diversi libri, tra i altri citiamo Papers on the War (1972), Risk, Ambiguity, and Decision (2002) e The Doomsday Machine: Confessioni di un pianificatore di guerra nucleare (2017).
In pratica, Ellsberg non venne travolto da nulla di paragonabile all’odissea vissuta da Assange, tra accuse infamanti (compresa quella di stupro), il quale dopo una lunga permanenza forzata presso l’ambasciata ecuadoriana di Londra, si trova dal 2019 in stato di detenzione presso il carcere di Belmarsh di Londra, dove attende proprio in questi giorni la decisione dei giudici circa la sua eventuale estradizione negli Stati Uniti, dove rischierebbe una condanna fino a 175 di reclusione (se non addirittura alla pena capitale), per imputazioni riconducibili all’Espionage Act.
Per la cronaca – altri tempi, e soprattutto altri presidenti – tra il 1921 e il 1923, i presidenti (repubblicani) Warren G. Harding e Calvin Coolidge rilasciarono tutti coloro che erano stati condannati ai sensi dei Sedition and Espionage Acts.
Veniamo alla domanda di fondo: che cosa rende il caso di Assange così diverso dai tanti che lo hanno preceduto, forse con l’unica eccezione dei coniugi Rosenberg?
Mettiamo volutamente da parte il merito delle accuse e la macchina del fango scatenata nei suoi confronti, tenendo sempre a mente che parliamo di un giornalista, vale a dire di una figura professionale che ha il compito, in un assetto che voglia dirsi democratico, di controllare l’operato dei pubblici poteri, rivelandone le mancanze e gli aspetti più critici. E sempre per restare alla differenza che dovrebbe esserci tra le democrazie e le autocrazie, vale a dire la libertà di espressione e informazione, il caso di Assange rappresenta pur sempre un inquietante precedente per chiunque volesse, un domani, addentrarsi nei meccanismi più oscuri del potere. Se poi debba contare di più l’illiceità della condotta di chi denunzia certi fatti, rispetto a chi quei fatti li commette, questo è un interrogativo che rimettiamo al buon senso di qualunque persona che serbi un minimo di pensiero critico.
Una delle differenze tra le due vicende – Ellsberg e Assange – senza per questo voler ricercare nessuna giustificazione, riguarda la diversa epoca storica e il peso avuto dall’opinione pubblica, specie statunitense, visto che quella europea, a tutto concedere, sembra contare molto poco.
Nei primi anni Settanta il clima in America non era certo ostile ai contenuti della documentazione diffusa da Ellsberg, che in sostanza rivelava al paese, e al mondo intero, una serie di importanti responsabilità delle diverse amministrazioni nella spirale che aveva condotto allo scoppio del conflitto. Parliamo degli anni in cui negli Stati Uniti cresceva il dissenso verso le giustificazioni offerte per le operazioni militari (la lotta al comunismo) e verso la prosecuzione della guerra. E poi era un momento delicato per il capo della Casa Bianca, visto che l’anno seguente (1972) Nixon si sarebbe giocato la rielezione, che poi riuscì a centrare, salvo doversi dimettere due anni più tardi a causa dello scandalo Watergate.
Dicevamo dell’opinione pubblica americana: all’epoca della guerra in Vietnam erano molte le famiglie con figli o nipoti al fronte, e/o di coloro che non avevano fatto ritorno o che erano tornati a casa con gravi menomazioni fisiche o psichiche, ragion per cui l’attenzione venne calamitata sul dossier molto più di quanto possa fare la vicenda di Assange. Non che manchino pure in America le voci del dissenso[1], ma sono pur sempre in minoranza, rispetto ad altre problematiche giudicate molto più impattanti nella vita di tutti i giorni. Se poi questo significasse andare contro il sentimento degli europei[2], o alle esortazioni del Parlamento dell’Australia[3], madre patria del fondatore di WikiLeaks e alleato di Washington, poco importa.
Per l’editorialista del Manifesto Alberto Negri[4] “Quella di Assange è una delle situazioni peggiori che possano capitare: una democrazia si accanisce su una persona sola. Assange rischierebbe 175 anni di carcere se fosse estradato negli Usa. Ma perché ci si accanisce contro Assange? Perché c’è sempre bisogno del capro espiatorio. Diciamoci la verità, la politica americana in questi anni è stata piuttosto disastrosa in Medioriente. Siamo scappati via a gambe levate dall’Afghanistan nel 2021 – conclude – con quelle scene terrificanti e drammatiche che ricordiamo tutti. E non dimentichiamo che nel 2003 in Iraq fu portata dagli americani e dagli inglesi una guerra sulla scorta di armi di distruzione di massa, che non furono mai trovate. Probabilmente una delle più grandi fake news del secolo. E chi in qualche modo ha lottato contro queste fake news come Assange è diventato il capro espiatorio dei fallimenti politici di una superpotenza“.
Una spiegazione circa la disparità di trattamento riservata ad Assange l’abbiamo chiesta al giornalista Fulvio Grimaldi, in occasione di una recente intervista dedicata alla vicenda del fondatore di WikiLeaks[5]. La sua risposta ci sembra assolutamente pertinente, e si riallaccia alla diversità tra il momento storico nel quale avvenne la vicenda dei Pentagon papers, rispetto al contesto attuale, con lo spartiacque fondamentale rappresentato dai fatti dell’11 settembre 2001.
In sostanza, secondo quanto sostiene Grimaldi, se nei primi anni Settanta l’opinione pubblica americana aveva assunto un orientamento decisamente molto critico nei riguardi del conflitto in Vietnam, questo aveva contribuito a gettare un certo discredito sull’operato di diversi centri di potere, in qualche modo confermato dal Watergate (1972) e dalle risultanze dei lavori della Commissione Church – così detta perché presieduta dal senatore democratico statunitense Frank Church – che tra il 1975 al 1976 indagò sull’operato di CIA ed FBI, oltre che sullo scandalo Lockheed (episodi di corruzione, che coinvolgevano politica e forze armate di varie nazioni), facendo emergere una serie di abusi, non ultime diverse violazione dei diritti fondamentali, come la segretezza della corrispondenza.
Eppure, i fatti del 11 settembre sembrano aver cambiato tutto, non solo facendo emergere nuovi equilibri di potere, specie a livello sovranazionale, ma implementando la logica della paura e delle emergenze, a cominciare da quella collegata al terrorismo, che hanno determinato una progressiva limitazione di diversi diritti fondamentali (pensiamo solo al Patriot Act del 2001), giustificati in nome di superiori esigenze di sicurezza e difesa (o presunte tali). Le stesse logiche che hanno indotto molti cittadini comuni ad accettare tali limitazioni, schierandosi dalla parte delle proprie classi dirigenti (e democratiche) per contrastare una serie di minacce, avvertite (o presentate) come esistenziali.
Nulla di tutto questo era avvertibile ai tempi della guerra in Vietnam, così come non esistevano i grossi problemi e le pesanti fratture che affliggono oggi l’America e il mondo, ragion per cui anche l’idea di mettere sul banco degli imputati un personaggio che mette in pericolo difesa e sicurezza forse è meno avvertito rispetto al passato.
Con questo nessuno vuole sostenere che tutte le classi dirigenti siano necessariamente corrotte (nel senso paretiano del termine) e/o che si debbano intravvedere in ogni dove trame oscure, ma semplicemente constatare che viene avvertito molto più che in passato il pericolo che una serie di dinamiche, pure grazie ai file resi pubblici col lavoro di WikiLeaks, possano contribuire a mettere in discussione buona parte di una certa narrazione, e molti di quegli equilibri di potere che su quest’ultima sono stati costruiti.
Quel che forse da parte di coloro che si accaniscono contro Assange non è stato compreso fino in fondo è che – di fronte a un’opinione pubblica che sempre meno disposta ad accettare le narrazioni ufficiali (pensiamo solo alle proteste in corso in vari settori e nazioni, o alla vicenda della Palestina) – seguitare in un approccio di tipo censorio o repressivo è destinato, specie nel lungo periodo, a infrangersi contro il tribunale della storia e della verità, specie quando si rendono sempre più evidenti i doppiopesismi e/o le ipocrisie, che rischiano solo di accelerare il processo.
Nel frattempo, si tratta di salvare la vita e la libertà di un uomo, il cui unico torto è stato quello di far emergere una serie di verità scomode. E pure ipotizzando che Assange avesse violato le disposizioni richiamate dai suoi accusatori, torniamo a ripetere, quale sarebbe il maggior colpevole: chi ha rivelato certi fatti o coloro che detengono le responsabilità politiche e storiche?
La domanda è aperta, la risposta la lasceremo a voi.
[1] www.nytimes.com/2024/02/20/world/europe/assange-us-extradition-uk-court-case.html?searchResultPosition=1
[2] www.fnsi.it/julian-assange-mobilitazione-anche-in-italia
[3] www.lindipendente.online/2024/02/14/il-parlamento-australiano-ha-chiesto-ufficialmente-di-riportare-a-casa-assange/
[4] www.ilfattoquotidiano.it/2024/02/20/assange-negri-abbiamo-un-obbligo-morale-e-professionale-verso-di-lui-gli-usa-si-accaniscono-perche-vogliono-un-capro-espiatorio/7453367/
[5] www.youtube.com/watch?v=-5Kkl6J8jfE (canale YouTube Spunti di riflessione)