A distanza di un anno dal verdetto, sono finalmente uscite le motivazioni della sentenza con cui, nel marzo 2023, i giudici della Corte d’Assise d’Appello hanno condannato all’ergastolo il capomafia palermitano Giuseppe Graviano e il boss calabrese Rocco Filippone, ritenuti responsabili come mandanti di una serie di attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, tra cui persero la vita gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. E le motivazioni sviluppate dai giudici in circa 1.400 pagine sono incredibilmente dirompenti. Si certifica, infatti, che la strategia stragista consumatasi nella prima metà degli anni Novanta, che porta con sé macroscopiche implicazioni politiche, sia frutto delle convergenze tra gli interessi non solo di Cosa Nostra e delle alte sfere della ‘Ndrangheta, ma anche della massoneria coperta e dei servizi segreti deviati. Entità tra loro diverse che, in quella fase storica, unirono il loro impeto eversivo con l’obiettivo di «destabilizzare» lo Stato italiano in vista di un cambio di guardia nella sua classe dirigente. Per poi far tacere le bombe e tornare nell’ombra.
La pesantissima sentenza, redatta dal presidente della Corte Bruno Muscolo e dal giudice a latere Giuliana Campagna, riscrive un passaggio fondamentale della storia recente del nostro Paese. Secondo i giudici, che hanno così sposato le risultanze dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, è infatti emerso «un quadro ricostruttivo granitico e convergente in ordine all’implicazione dei più alti livelli ‘ndranghetistici nei delitti in esame ed alla loro interazione con la mafia siciliana, la massoneria e i servizi segreti, nonché sul tema di Falange Armata», ovvero della sigla utilizzata per rivendicare decine di stragi e omicidi «per finalità di depistaggio» che, secondo la Corte, fu il «frutto del ‘suggerimento’ dei servizi segreti deviati». I giudici hanno infatti non solo accertato, in questo quadro, «la stretta ‘vicinanza’ fra la ‘ndrangheta e i servizi segreti», ma anche una vera e propria «sinergia operativa fra i due organismi negli specifici episodi criminosi». La Corte, insomma, si dice certa dello “strettissimo collegamento sussistente fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e i servizi segreti nel piano di destabilizzazione dello Stato, per il raggiungimento, ognuno, dei propri obiettivi di natura comunque eversiva”.
Non vi è solo la criminalità organizzata, dunque, dietro le bombe e il sangue versato da civili e servitori dello Stato nel biennio 1992-1994, ma anche elementi della massoneria e di apparati deviati dello Stato che tramavano nell’ombra. I giudici, all’interno della sentenza, parlano espressamente di «accertati intrecci che negli anni si sono dipanati tra organizzazioni criminali e ambienti massonici e politici, in una evidente convergenza e commistione di interessi che mirava al comune intento di destabilizzare lo Stato e sostituire la vecchia classe dirigente che, agli occhi dei predetti, non aveva soddisfatto i loro ‘desiderata’». Il riferimento è, ovviamente, alla Democrazia Cristiana, «punita» dalle mafie dopo l’inizio del Maxiprocesso – Riina, infatti, ordinò agli uomini di Cosa Nostra di togliere il voto alla “Balena bianca” alle elezioni del 1987 – e subito dopo la sentenza di Cassazione che confermò l’impianto accusatorio di Falcone e Borsellino, attraverso l’uccisione del politico Salvo Lima, braccio destro di Giulio Andreotti in Sicilia. In seguito allo scoppio di Tangentopoli, infatti, Cosa Nostra e ‘Ndrangheta lavorarono alla creazione di «un nuovo piano politico a carattere autonomista», con la nascita di un vero e proprio movimento, che «sosteneva temi sul fronte della giustizia, quali la modifica della legislazione antimafia». Tale progetto, però, fu messo da parte «in favore dell’appoggio al nascente partito di Forza Italia, con alcuni dei cui esponenti i siciliani avevano avviato contatti, tant’è che le stragi cessarono nel corso dell’anno 1994, sussistendo l’aspettativa che il nuovo soggetto politico avrebbe ‘aiutato’ le organizzazioni criminali che l’avevano elettoralmente sostenuto».
All’interno delle motivazioni, i giudici fanno espresso riferimento alle figure di Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, e del suo co-fondatore Marcello Dell’Utri, ricordando come quest’ultimo sia stato definitivamente considerato «responsabile del reato di concorso in esterno in associazione mafiosa nell’arco temporale 1978-1982» per avere «favorito e determinato la realizzazione di un accordo di reciproco interesse fra i boss mafiosi e l’imprenditore Berlusconi». A questo proposito la Corte evidenzia come la contestuale assunzione nella villa di Arcore – residenza del Cavaliere – del boss mafioso di Porta Nuova Vittorio Mangano «costituiva espressione dell’accordo concluso, in virtù della mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di Cosa Nostra e Berlusconi, in quanto funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore». I giudici si soffermano poi sui dialoghi intrattenuti da Graviano in carcere con il suo compagno di ora d’aria Umberto Adinolfi, da cui emergono «i contenuti chiari di un risentimento dell’imputato (Graviano, ndr) nei confronti del politico e del ‘compaesano’ Dell’Utri, che avevano tradito gli accordi, non ricambiando, con interventi legislativi, l’aiuto che i siciliani avevano fornito alla nascita del nuovo partito di Forza Italia ed all’elezione dei predetti».
L’ultimo tassello della strategia stragista degli anni Novanta avrebbe dovuto concretizzarsi nell’attentato allo Stadio Olimpico di Roma, programmato per la sera del 23 gennaio 1994, ma fortunatamente non andato in porto per il malfunzionamento del telecomando. A tal proposito, i giudici hanno confermato la ricostruzione del pentito Gaspare Spatuzza – esecutore materiale anche della strage di via D’Amelio e dell’omicidio di Padre Pino Puglisi – che aveva raccontato ai pm di un incontro avvenuto poco prima della fallita strage al bar Doney di Roma con Giuseppe Graviano. In quell’occasione, come dichiarato da Spatuzza, il boss di Brancaccio si era dimostrato soddisfatto, dicendo che «avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo», facendo riferimento a «quello del Canale 5» ed al «compaesano» ed aggiungendo di avere «il Paese nelle mani» e che bisognava dare il «colpo di grazia». Eppure, in seguito all’annuncio della discesa in campo di Silvio Berlusconi (26 gennaio), all’arresto di Giuseppe Graviano (27 gennaio) e alla vittoria alle elezioni Politiche di Forza Italia (28 marzo), l’attentato non fu più replicato. E Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, massoneria e apparati deviati decisero che era arrivato il momento di inabissarsi nel silenzio.
[di Stefano Baudino]