Forse sarà anche un po’ per pietà umana, mentre certamente è calcolo (geo)politico, ma il fatto sussiste ed è piuttosto singolare: perché di astensioni sulle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulle questioni israeliane, da parte americana, se ne ricordano davvero poche lungo il corso di una storia che fa data dalla fine della Seconda guerra mondiale ad arrivare alla più orrorifica e tremenda realtà di Gaza oggi.
Ed il fatto è questo: gli Stati Uniti d’America, contrari all’imminente attacco contro Rafah, l’ultimo rifugio per un milione e mezzo di palestinesi assiepati nel sud della Striscia praticamente rasa al suolo da Tsahal, hanno evitato il voto a favore puntando su elementi di distinzione lessicale che, tuttavia, è innegabile, hanno la loro importanza nella formulazione di una risoluzione che impegna gli Stati membri.
Ma, in particolare, ciò che marca la distinzione tra posizione dell’ONU e posizione dell’amministrazione Biden sul cessate il fuoco è, oltre alla diversità tra “durevole” e “permanente“, la mancanza di una condanna dell’attentato criminale di Hamas del 7 ottobre 2023. In realtà, le Nazioni Unite hanno più e più volte rimarcato tutta la riprovevolezza del caso riguardo la mattanza operata dalle brigate Ezzedin al-Qassam, ma non sembra essere sufficiente per Washington.
Per il governo di Netanyahu, nemmeno a dirlo, l’ONU oggi, in particolare dopo la risoluzione sulla cessazione del fuoco permanente, che dovrebbe iniziare contestualmente al mese di Ramadan per il mondo musulmano (quindi anche per gran parte del popolo palestinese), è una sorta di conventicola antiebraica, persino antisemita. Perché è facilissimo lanciare questa accusa gratuita: diviene l’alibi più comodo per liquidare chiunque critichi le politiche autoritarie, repressive, militar-imperialiste di Israele.
Tel Aviv cerca così di evitare un isolamento pressoché totale nel mondo rivolgendosi ad una storicità delle proprie origini che, nel nome della sopravvivenza dopo l’Olocausto perpetrato dal Terzo Reich, le consentirebbe qualunque azione di risposta contro i suoi nemici, contro coloro che vengono percepiti come elementi di instabilità per una società che, proprio a causa delle politiche dell’estrema destra sionista, ha fatto di Israele uno Stato perennemente in allarme.
La risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza mette al centro la questione della protezione tanto della popolazione palestinese quanto di quella israeliana. E, nonostante ciò, il gabinetto di guerra di Netanyahu e Gantz va avanti nella determinazione di attaccare Rafah come ha fatto con il resto della Striscia di Gaza. Fare praticamente terra bruciata, mentre girano video su alcuni canali Telegram di coloni israeliani che preannuciano che si insedieranno lì dove ora c’è il deserto delle macerie, dove ci sono corpi accatastati su corpi.
Ci mette il carico da novanta anche il genero di Donald Trump, Jared Kushner, al tempo della presidenza del grande magnate suo consigliere proprio per il Medio Oriente, che, candidamente, dichiara, ovviamente in uno scenario postbellico di ricostruzione, il «potenziale grande valore immobiliare [della Striscia]. Israele dovrebbe allontanare i palestinesi e ripulire tutto». La vista sul Mediterraneo vale commercialmente di più delle vite umane. Lì dove oggi le navi israeliane bombardano le città palestinesi, lì dove è vietata qualunque attività ai gazawiti, mentre Israele può fare ciò che vuole.
Ma la risoluzione dell’ONU è chiarissima, in pochi punti che riportiamo testualmente:
«1. Chiede un immediato cessate il fuoco umanitario;
2. Ribadisce la richiesta che tutte le parti rispettino i loro obblighi in base al diritto internazionale, compreso il diritto umanitario internazionale, in particolare per quanto riguarda la protezione dei civili;
3. Chiede il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi e la garanzia di accesso umanitario;
4. Decide di aggiornare temporaneamente la decima sessione speciale d’emergenza e di autorizzare il Presidente dell’Assemblea Generale della sua ultima sessione a riprendere la riunione su richiesta degli Stati membri».
Netanyahu sbatte la porta in faccia anche al punto tre, là dove si impegna Hamas al rilascio subitaneo e senza condizioni di tutti gli israeliani presi in ostaggio. Non è forse la prova più evidente che la guerra in corso non è fatta (soltanto) per la liberazione di questi civili caduti nelle mani di terroristi jihadisti, ma (soprattutto) per liquidare la questione palestinese una volta per tutte?
Attaccare Rafah significa decuplicare le morti che si contano fino ad oggi tra i civili. Il conteggio è già oltre ogni confronto possibile con altre guerre mediorientali del recente passato e, non di meno, con altri importanti conflitti che datano molto indietro nel tempo: ad oggi, un bambino palestinese su tre sta morendo di fame nella Striscia di Gaza. Ed Israele impedisce a qualunque convoglio umanitario di raggiungere i campi profughi che, tra l’altro, sono costantemente sotto tiro.
Non lo sostiene qualche pericolosa Ong ingiustamente accusabile di “collaborazione col nemico” e, naturalmente, di “antisemitismo“. Lo dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità che precisa come siano proprio gli aiuti alimentari quelli principalmente nel mirino dell’esercito israeliano, quelli a cui è assolutamente vietato oltrepassare qualunque punto di frontiera, qualunque valico.
La fame. Rieccola. La fame come arma che non costa niente in termini di sforzo bellico, perché la tattica dell’assedio diventa, a lungo andare, la strategia migliore per piegare la resistenza di un popolo. L’ONU è quindi antisemita se chiede che i palestinesi non muoiano di fame? Che cosa ha a che fare con il terrorismo di Hamas la sorte di decine di migliaia di bambini e di ragazzi che non mangiano da settimane quanto dovrebbero? Di donne incinta che rischiano di abortire… Di anziani e malati che sono cinicamente dichiarate vittime “collaterali” della guerra?
Mentre gli israeliani scendono in piazza per chiedere le dimissioni di Netanyahu e di tutto il suo governo, la guerra di sterminio continua. Perché di questo si tratta. Lo si è già scritto, ma visto che questa azione genocidiaria persevera, non si può non ribadirlo: quando si privano milioni di persone dei diritti umani fondamentali e li si conduce nell’angolo più recondito della disumanità, costringendoli ad una sopravvivenza sempre meno certa, si dimostra un intento genocida.
Se Israele avesse voluto farla finita con la dirigenza e le milizie di Hamas avrebbe potuto farlo con azioni mirate e circoscritte al movimento di resistenza islamica. Invece ha scelto quello che, fin dalle prime ore successiva al crimine del 7 ottobre, si aspettava chiunque segue un po’ da vicino da anni e anni l’evolversi e l’involversi della questione israelo-palestinese: di attaccare su vasta scala tutti gli abitanti della Striscia di Gaza. Senza distinzione, con il pretesto dell’indistinguibilità tra civili e miliziani.
Per il governo di Netanyahu ogni palestinese è un terrorista, perché è palestinese e perché l’odio avrebbe trasformato tutti in pericolosi estremisti. Certamente la rabbia esiste e, almeno, si vorrà lasciare agli abitanti di Gaza e della Cisgiordania il diritto a considerare criminale tutto quello che, in risposta incommensurabilmente sproporzionata, sta avvenendo contro di loro. Oppure vogliamo affermare che difendersi da chi ti attacca con bombe, carri armati, droni è “antisemitismo“?
Dalla famigerata data ottobrina, nulla è stato risparmiato a Gaza: il diritto internazionale è carta straccia, così come lo sono le risoluzioni dell’ONU. Le strutture sanitarie sono state distrutte al pari delle abitazioni e degli edifici che ospitavano le centrali e la basi di Hamas. Oltre quattrocento sono stati gli attacchi ad ospedali, centri di assistenza, ambulanze con feriti a bordo: per un totale parziale di quasi settecento morti e un migliaio di feriti.
Le immagini che arrivano dai circuiti internazionali mostrano gruppi di civili alla ricerca di cibo, persone indifese, non armate, che vagano nelle spianate dove prima c’erano abitazioni e vie, prese di mira dai droni israeliani e freddate senza alcun motivo. I morti, in un totale che va purtroppo crescendo, sono oltre trentaduemila. I feriti più del triplo. I traumatizzati per una vita intera quasi tutti.
Il “Democracy Report 2024” del V-Dem Institute, che è considerato uno dei principali indici globali che misurano il rispetto dei diritti civili nel mondo, ha tolto Israele dal novero delle democrazie liberali. La domanda che sorge spontanea è: ma in questi ultimi trent’anni davvero lo Stato ebraico poteva essere ancora considerato una democrazia? La presenza di maggioranza e minoranza, di governo e opposizione non bastano per potersi dire rispettosi degli elementi fondanti di un regime che mette avanti a tutto il rispetto pieno delle libertà di ognuno senza venir meno alla considerazione della volontà comune.
Se la questione palestinese, che non può essere categorizzata come un “affare di politica estera” per Israele (non fosse altro perché seicentomila coloni occupano gran parte della Cisgiordania che dovrebbe essere il cuore dello Stato di Palestina), diviene uno dei punti di verifica sulla democraticità dello Stato ebraico, è evidente che Tel Aviv non esprime istituzioni governative che seguono i lineamenti anche vagamente riferibili al liberalismo democratico.
Se, invece, per democrazia si intende il mero ricorso alle urne per stabilire quale governo debba gestire gli affari interni e l’apartheid del popolo palestinese, compreso l’attuale stato di guerra, si finisce col rintuzzare il potenziale dell’alternativa politica e con l’instaurare la legittimazione di uno stato di guerra permanente sulla scia dell’emergenzialità continua che non si rivolve se non rispettando i diritti di tutti.
Se Israele fosse davvero una democrazia, non dovrebbe rispettare le risoluzioni dell’ONU, pur criticandole? La reciprocità tra le nazioni che fanno parte della condivisione mondiale di valori considerati universali, dovrebbe imporre naturalmente questi obblighi politici, istituzionali e morali. Perché fanno riferimento al rispetto dei diritti umani, civili e sociali di un popolo. Perché Israele non ha il diritto di criminalizzare tutti i palestinesi per ciò che è stato fatto da Hamas.
Netanyahu, ogni volta che agisce, lo fa seguendo il copione consolidato dell’unità tra etno-sionismo fanatico colonico e imperialismo economico israeliano. E quindi mente coscientemente e ormai, dopo la constatazione che la liberazione degli ostaggi non è il primo, vero obiettivo della guerra scatenata contro Gaza, la stessa popolazione israeliana gli sta togliendo sempre più terra politica sotto i piedi, lasciandogli solo, come speranza di rimanere al potere, quella che proverà a chiamare un giorno come “vittoria” contro Hamas.
Non ci sarà, però, nessuna vittoria. Ma solo sconfitte. Da entrambe le parti: la distruzione della Striscia, l’implementazione delle colonizzazioni sioniste in Cisgiordania, l’ulteriore fanatizzazione di elementi di estrema destra dello Stato ebraico e, dall’altra, la radicalizzazione di frange terroriste che rischieranno di impedire la rinascita di una classe dirigente palestinese all’altezza di un compito grave quanto mai nella rivendicazione, finalmente, della nascita di una Repubblica di Palestina.
Ogni soluzione immaginabile è oggi inimmaginabile: una convivenza confederativa tra i due popoli? Due popoli in due Stati? Tutte le ipotesi sono schiacciate dal peso titanico dell’orrore bellico, dell’occupazione senza sosta, della repressione e della violenza contro le donne, i bambini. Stupri, mutilazioni, fame, sete, inedia, atroci sofferenze che non vendicano e non fanno giustizia di quello che è avvenuto nei kibbutz e ad alla festa nel deserto il 7 ottobre scorso.
Ma gettano su Israele tutta la vergogna che il suo governo gli procura. Per questo odiare Israele è sbagliato se per esso si intende una unità tra popolo e governo. E’ una unità che si sta frantumando e tutte e tutti noi che stiamo dalla parte di chi soffre ed è perseguitato dalla guerra, dobbiamo tenerne conto. Con grande precisione, con grande meticolosità.
Da questi errori di valutazione, grossolani perché obbedienti ad una cieca divisione manicheistica del conflitto, non emerge un valore aggiunto per la fine delle sofferenze. Ma ne nasce sempre e soltanto un surplus di incomprensioni e di pregiudizi che perpetuano l’odio, che non faranno mai finire per davvero il conflitto che, ad oggi, pare appunto non avere fine.
MARCO SFERINI