Milano, 1994. Grande manifestazione contro il governo Berlusconi
“il manifesto” ha avuto una grande intuizione, una grande idea politica, una notevole perspicacia sociale e civile, ed anche culturalmente di massa, nel chiamarci tutte e tutti, trent’anni dopo la grandissima manifestazione che si tenne a Milano il 25 aprile del 1994 contro l’appena insediato governo di Silvio Berlusconi, ad una riedizione di quell’evento che saldo tutte le opposizioni al tripartito nero che si accingeva a devastare il Paese con politiche liberiste e con provvedimenti che, infelicemente, sarebbero anche stati mutuati dai centrosinistra successivi.
Dell’allora ventunenne che ero, di una delle prime manifestazioni politiche che stavo per vivere, ho come primo ricordo la discesa da un autobus della CGIL, un piccolo, inadeguatissimo ombrello che faticavo ad aprire e bandiere e striscioni di Rifondazione Comunista già fradici di pioggia prima ancora di incamminarci. Ricordo di aver intravisto, proprio sotto il logo de “il manifesto” che campeggiava bene in alto, alla testa del corteo, Luigi Pintor e praticamente quasi tutto il collettivo del quotidiano comunista.
Fu, oltra ad una radunanza necessaria, che forse altri erano stati troppo timidi per proporla e portarla avanti, un messaggio all’intero Paese, ad una Italia che si era buttata tra le braccia di un cambiamento politico rivoluzionario nel senso più conservatore e retrivo del termine: il crollo del sistema pentapartitico, la fine del bipolarismo mondiale, la tragedia dei socialisti e la diaspora dei democristiani, la fine del PCI e quella che pareva la scomparsa di un orizzonte comunista in Italia segnarono gli anni che spianarono la strada all’opzione berlusconiana.
Una opzione aziendalistico-partitica o, per meglio dire, un partitismo-aziendalista, che divenne la quintessenza del modo di fare politica da quel momento in avanti: il rischio di impresa trasferito nel rischio dell’avventura istituzionale di governo. Risultò vincente nel vuoto di valori che si andava sostituendo alla lunga, felice stagione ideologica del dopoguerra, quando i partiti erano soggetti di massa o, comunque, largamente percepiti come precisi punti di interpretazione degli interessi delle singole classi sociali, di ben precisi interessi.
L’idea di riproporre una manifestazione come quella del 25 aprile 1994 a Milano è una risposta più che doverosa al momento drammatico in cui siamo completamente immersi; ed è quindi, inevitabilmente, il segno termometrico che siamo tornati indietro di molto, di troppo, sul piano dei diritti sociali, civili ed umani. E che, nuovamente, la Repubblica democratica, resistenziale e antifascista è in pericolo. Ed infatti è proprio così. Ormai potremmo dire che, quando le compagne e i compagni de “il manifesto” ci chiamano a manifestare a Milano il 25 aprile, è segno che la misura è davvero colma e l’allarme è nerissimo.
Il paragone tra l’aprile di tre decenni fa ed oggi è impietoso soprattutto per quanto riguarda la tenuta dell’opposizione: non ci sono più due sinistre che tentano di dialogare. Non ci sono più un centro e una sinistra che provano a costruire un polo alternativo a quello delle destre. Non c’è più una rete partecipativa che mette insieme tutte le realtà che un tempo erano la coscienza civile dell’Italia antifascista, laica, democratica e repubblicana. La saldatura di allora, pur nelle oggettive e rispettabilissime differenze, si è sfibrata, è logora e consunta.
Intendiamoci: esiste, e lo dimostra proprio “il manifesto”, una volontà di ricomposizione coscienziosa e critica di una opposizione decisa e risoluta al melonismo. Ma ciò che questa tensione emotiva e politico-social-culturale deve mettere in essere è un impegno alla ricostruzione della partecipazione attiva, a quella che un tempo si sarebbe chiamata la “militanza” quotidiana, perché quotidiani sono gli attacchi che il governo delle destre estreme porta contro i nostri diritti, privilegiando i profitti, tutelando il privato e penalizzando tutto quello che è bene comune, garanzia che si è data troppo facilemente per immarcescibile.
Il mondo è, naturalmente, cambiato, altrimenti non sarebbe cambiata nemmeno l’Italia. Ma il progetto delle destre rimane, mutatis mutandis, quello di pervertire la Repubblica, trasformandola da parlamentare in premieristica, da unità egualitaria (molto spesso più formale che sostanziale, ma conta comunque il principio costituzionale) in autonomia differenziata tra regioni ricche e regioni povere, tra chi potrà permettersi di studiare e curarsi e chi invece resterà indietro, abbandonato all’icasticità dell’assunto di una colpa propria.
La reazione sociale e politica a tutto questo è la manifestazione di un profondo dissenso che non si limita però all’anatema pseudo-ideologico. Non serve e non basta neppure inveire contro Meloni e le sue destre. Serve mettersi al lavoro per ritrovare quella ragione fondamentamente critica che oltrepassa lo scoramento, che vince l’inerzia, che fa ritrovare nelle istituzioni il senso primario dell’essere noi stessi la Repubblica. Quella che oggi non c’è e che va quindi ridata a sé stessa, ridata a tutte e tutti noi.
La povertà che avanza non è repubblica. La precarietà che incede senza sosta non è repubblica. Le migliaia di giovani che abbandonano il Paese ogni anno non sono repubblica e non sono nemmeno quel patriottismo che le destre dicono di voler rappresentare. Repubblica è sostenere lo sciopero generale di CGIL e UIL, i referendum che saranno proposti dal sindacato per un ristabilimento delle garanzie del vecchio articolo 18. Repubblica è cercare una unità nazionale delle opposizioni per battere le destre senza perdere le proprie specifiche espressioni politiche, senza dover rinunciare alle proprie proposte programmatiche.
Repubblica è pace, disarmo, uscire dall’economia di guerra e ripristinare quella civile, tornando ad una sinistra che si impegni per la giustizia sociale e non gigioneggi su nuove tentazioni governiste che la porterebbero a compromessi dal tratto distinguibilissimo di ennesime compromissioni al ribasso sui diritti del mondo del lavoro. Per primi noi, che ci diciamo e vogliamo essere comuniste e comunisti nel nuovo millennio, dopo esserlo faticosamente ed entusiasticamente stati anche nel fosco fin del Novecento morente, abbiamo il dovere di lavorare in questa direzione: partecipazione, opposizione, ricostruzione.
La pace e il lavoro, i diritti umani e quelli sociali e civili devono essere la bussola che ci permette di orientarci nella crisi globale e in quella di un’Europa che va sempre più verso una militarizzazione delle proprie ragioni di esistenza, allontanandosi dall’originalità originaria di quel patto associativo che era l’antitesi invece del bellicisismo e che era, da Ventotene in avanti, stato il cuore della speranza di una collaborazione fattiva tra i governi e, quindi, tra i popoli che si erano combattuti e sterminati.
Oggi la guerra è tornata ad essere dominante sul piano dei valori comuni. Quasi è data per scontata da una politica volutamente condiscendente ad interessi che necessitano di una espansione imperialista globale di potenze emergenti e riemergenti. Ne nasce, pertanto, una contesa che la politique politicienne, di per sé, è impossibilitata a risolvere perché è sovrastrutturalmente inferiore alla struttura economico-finanziaria che la condiziona e la indirizza invece nel solco del conflitto armato. L’enormità delle cifre che ballano sul tagadà del cinismo dei governi e dei lobbisti delle armi e delle tecnologie supera qualunque immaginazione.
La manifestazione che “il manifesto” ha suggerito per il 25 aprile prossimo deve diventare un richiamo dalla vasta eco: per il lavoro, per la pace, per l’antifascismo, per l’uguaglianza sociale, civile. Per una umanità degli italiani che si ripensino come Paese in una unità prima di tutto di classe. Avendo ben presente che gli interessi degli imprenditori non sono quelli dei lavoratori e che questi due interessi confliggono tra loro perché non posso coesistere in una società che voglia veramente poter aspirare al bene comune.
La lotta contro il governo Meloni, che è politicamente il punto di convergenza tra liberismo nordatlantico e visione autoritaria di una democrazia declinata in senso premieristico, con la delega del popolo al capo di turno che la esercita mettendo da parte quella che viene sempre più descritta come l’eccessiva discussione “burocratica” del parlamentarismo repubblicano, della dialettica laica tra le stesse istituzioni (basti pensare all’attacco dell’esecutivo nei confronti della magistratura proprio in questi giorni con il decreto che contiene i test psicoattitudinali per chi intenda divenire un pubblico ministero o un giudice…), è dunque lotta prima di tutto sociale.
Ed è, in quanto tale, lotta resistenziale, fatta di civismo, di un ritorno al coinvolgimento di massa che, proprio sui grandi temi della lavoro, della pace e della negazione dell’ingresso dell’Italia in una economia completamente acquiscente al bellicismo euro-atlantico, ha la possibilità di ritrovare un comune denominatore, un sentimento largamente diffuso (e confermato dai sondaggi) di opposizione senza se e senza ma all’invio di altre armi all’Ucraina (per non parlare di quelle date ad Israele dal nostro governo anche dopo il 7 ottobre scorso).
L’urgenza rigurda anzitutto gli strati più poveri e abbandonati della società. Quelli che non hanno più alcuna fiducia nelle istituzioni che li hanno traditi per troppo tempo, ingannandoli tanto con le promesse elettorali quanto con quelle di amministrazioni che non sono realmente più di prossimità in materia di aiuto e sostegno al crescente disagio figlio del pauperismo liberistico moderno. Cinque, sei milioni circa di cittadini sopravvivono con meno di undicimila euro all’anno. Hanno figli a carico, affitti, bollette da pagare, anziani da curare e un reddito che appena appena arriva a novecento euro mensili.
Il governo dei ricchi e degli istituzionalmente prepotenti bada soltanto alla preservazione di una economia funzionale alla tutela del profitto. E’ la sua natura di classe che si esprime ogni giorno con provvedimenti varati tanto nelle leggi di bilancio quanto nelle proposte parlamentari che non fanno altro se non tagliare servizi e strutture, accorpando scuole, eliminando personale, riducendo gli spazi per le competenze e, quindi, di fatto, escludendo dal mondo del lavoro buona parte di quei giovani laureati che invece sarebbero una risorsa per la nazione.
A tutto questo si somma il problema istituzionale e valoriale per una Repubblica che rischia di diventare altro da sé stessa nel giro di pochi anni, se non saremo in grado di mandare a casa questo governo, questa maggioranza e i loro progetti eversivi. E’ necessario creare del plsuvalore sociale e civile che parta anche dalla riedizioni di grandi manifestazioni di consapevolezza del pericolo e che, sulla riconsiderazione del recente passato berlusconiano e post-berlusconiano, divenga la spinta propulsiva per una iniezione ricostituente di compatezza e coesione popolare.
Attorno all’antifascismo, come religione civile del Paese e come unico valore di riferimento etico-politico costituzionale che istruisce di giorno in giorno la Repubblica, si può riunire il popolo della Costituzione, in tutte le sue diverse sfumature ideologico-politiche, laiche e religiose, filosofiche, accademiche, artistiche, culturali. Mettiamo da parte ciò che divide e diamo seguito ad una grande campagna antigovernativa di primavera, che vada oltre le elezioni europee. Ma che non le sottovaluti affatto.
Pace, lavoro, dignità, terra, libertà, democrazia possono essere parole concrete e non enunciazioni di princìpi lasciati nell’arido recinto della rassegnazione e del rifiuto. Il 25 aprile a Milano abbiamo un’occasione per dimostrarlo.
MARCO SFERINI