Le guerre vanno male per quelli che le perdono. Ma anche i vincitori, alla fine, mica se la passano poi così bene. Chi fa sogni imperialisti nell’Est Europa e chi nel Medio Oriente, apre squarci che diventano voragini che, a loro volta, inghiottono centinaia di migliaia di vite umane. Volodymyr Zelens’kyj sogna il partenariato con l’Europa sul piano economico, politico e civile, con la NATO su quello militare. Vladimir Putin contrasta l’avanzata neoatlantista dell’imperialismo occidentale con una risposta uguale e contraria.
Il risultato diventa sempre più oggettivo: la propaganda cede sotto la pressione dei fatti nudi e crudi, della scarsità di armi, della sottovalutazione di un nemico che si voleva mettere in ginocchio economicamente con cinque, sei, sette pacchetti di sanzioni e che, invece, produce più armamenti di tutto l’Occidente euro-americano e si prepara (lo dicono tanto i servizi militari ucraini quanto gli alti comandi di Kiev) a sfondare la linea del fronte.
In Palestina, invece, Netanyahu, dopo l’esito positivo dell’operazione ad un ernia, non ha pensato bene di ottemperare alla risoluzione dell’ONU sul cessate il fuoco. Tsahal e IAF (le forze aeree dello Stato ebraico) si accaniscono su quello che resta di milioni di tonnellate di macerie tra Gaza e Khan Yunis puntando decisamente sull’ultimo lembo di terra in cui un altro massacro indiscriminato si può ancora perpetuare per vendicare il 7 ottobre, per eliminare Hamas, ma soprattutto per spingere i palestinesi ad uscire dalla Striscia.
Dopo aver bombardato ospedali per settimane, aver fatto vittime civili tra i malati assiepati nelle corsie, i carri armati si ritirano, ma restano comunque nelle periferie dei cumuli di macerie che sono i centri abitati. Il sistema idrico sta praticamente cedendo completamente. Soltato il cinque per cento della rete idrica a Gaza funziona ancora. Sete e fame sono, come più volte sottolineato, delle vere e proprie armi di distruzione di massa.
Per cercare di aggirare il blocco israeliano sulle derrate alimentari, l’organizzazione non governativa World Central Kitchen, fondata dallo chef ispano americano Jose Andrès, aveva creato una rotta da Cipro fino alla Striscia, ovviamente superivisonata dalle autorità militari israeliane, per poter far entrare cibo ed acqua a Gaza. I container sono stati, fino all’altro ieri, scortati da automobili dell’ONG ben segnati con le scritte che li distinguevano da altri mezzi scambiabili (sic!) per fiancheggiatori dei terroristi di Hamas.
Uno di questi convogli, autorizzato e scortato, ben segnalato con loghi e insegne specifici, è stato preso di mira tre volte da un drone che lo ha bombardato, uccidendo sette cooperanti della ONG. Netanyahu ha risolto la questione come una sorta di effetto collaterale della guerra: cose che succedono. Sì, succedono anche, ma accadono se ti ostini a fare una guerra in cui non prendi di mira Hamas ma tutti i palestinesi, tutte le loro case e pure i campi profughi, le sedi dell’ONU, delle organizzazioni non governative e dei volontari umanitari.
Succede se fai centrare dai cecchini i civili che vanno a prendere dei sacchi di farina; oppure se i missili piombano sugli alberghi in cui sono ospitati i giornalisti che dovrebbero dare copertura informativa a ciò che ogni giorno accade a Gaza. Invece di scongiurare questi effetti fintamente collaterali, che cosa il premier israeliano? Fa approvare alla Knesset un decreto per oscurare l’emittete qatariota Al Jazeera, che tutti abbiamo imparato a conoscere fin dalla prima Guerra del Golfo, quando le immagini dei circuiti internazionali erano riprese dalle nostre reti tramite le diffusioni di quella che sarebbe divenuta la CNN mediorientale.
Il risultato che Israele intedenva ottenere era questo: farla finita con una sorta di doppione dell’agenzia ONU per i rifugiati (che tale non era e non è, ma che Tel Aviv interpreta come tale), quindi evitare altri viaggi da Cipro a Gaza di rifornimenti di generi di prima necessità da parte di World Central Kitchen e, al contempo, silenziare una delle più importanti fonti di informazione sul campo. Non parliamo di Al Jazeera solamente, ma di tutte quelle volantarie e quei volontari che sono lì, tra le macerie, nei campi profughi e che sono, molto spesso, la più diretta testimonianza delle atroci sofferenze di un intero popolo.
Israele fa questa guerra per riaffermare il presupposto sionista che lo pone al centro della scena del Medio Oriente, come potenza regionale indiscussa, anche se accerchiata dagli Stati arabi. Anzi, proprio per questo. E la vuole fare fino in fondo, proprio geopoliticamente parlando, spingendo le sue truppe, la sua aviazione e i bombardamenti dal mare fino a Rafah, al confine con l’Egitto. A Il Cairo si discute, ma i passi avanti nelle trattative sono praticamente nulli. Nel mentre, la strategia israeliana si completa con l’attacco ai palazzi delle rappresentanze diplomatiche iraniane.
In Libano e in Siria si attaccano centri nevralgici a Beirut e a Damasco per esacerbare gli animi, per spingere Hezbollah e Pasdaran a fare il passo che Israele vuole che si faccia: allargare la guerra, farla diventare qualosa di più del “semplice” regolamento di conti con i palestinesi. Elevarla negativamente a conflitto sempre più vasto, trascinando l’asse dell’integralismo arabo, più propriamente jihadista e islamista sull’apertura di un fronte in cui si confondano gli interessi dei vari Stati dell’area mediorientale, creando così condizioni favorevoli ad una destabilizzazione di lungo periodo.
Un quadro masochistico se lo si tenta di vedere dal punto di vista del popolo israeliano. Un freddo e cinico calcolo di espansionismo coloniale e imperialista se, invece, si osserva il tutto da un altro punto di vista: quello del governo di Netanyahu che può non spiacere agli Stati Uniti, ma che per essere raggiunto rischia di incrinare quel minimo di fiducia che ancora gli americani hanno nella politica estera di Joe Biden e della sua amministrazione in evidente declino.
Il ritorno del terrorismo dell’ISIS, segnatamente nel cuore della Russia, quindi in una proiezione di una guerra che non è quella mediorientale ma che, inevitabilmente, finisce con l’essere collegata alla tragedia di Gaza, del popolo palestinese e dei nemici-vicini arabi di Israele, è, fino a quando non ritorna ad essere una minaccia regionale, bensì si connota come minaccia globale, capace di colpire chiunque in ogni parte del globo, non impensierisce Israele. Fu proprio la sconfitta del Califfato nero, in particolare in Siria, ad essere un elemento di freno alle mire espansionistiche sioniste.
Finché il DAESH era attivo e presente su più fronti, da Damasco a Baghadad, tralasciando in questo caso la sua espansione nell’Africa subsahariana e nelle regioni sudanesi e somale, Israele poteva sperare di approfittare di questa destabilizzazione dei vicini. Se l’Iraq usciva in parte dalla sfere di interesse regionale di Tel Aviv, la Siria, almeno per la parte meridionale confinante con la zona libanese più densamente popolata dalle milizie di Hezbollah, vi rientrava eccome. E’ stata proprio la presenza russa a determinare uno scombinamento dei piani.
L’apporto determinante dato alle milizie di Assad nella sconfitta del Califfato terrorista dalle basi russe è innegabile. Così come è innegabile che la minaccia dell’ISIS sia stata vinta anche grazie all’enorme impegno delle YPG curde (“Yekîneyên Parastina Gel” ossia “Unità di protezione popolare“) represse dal regime nazionalista di Erdoğan che ha fatto passare alle sue truppe il confine con la Siria e occupato numerosi villagi e paesi liberati dai miliziani popolari. La Siria oggi mantiene un legame con la Russia di Putin e uno con la Repubblica islamica iraniana degli ayatollah.
E’, proprio a due passi dalla guerra di Gaza, un ginepraio di conflitti e di tensioni. Una bomba pronta ad esplodere di nuovo, proprio come quella storica incerta invenzione statale che è il Libano. Israele lo sa e fomenta queste contraddizioni, puntando appunto ad una guerra imperialista su più ampio raggio. Probabilmente se ci trovassimo in Cisgiordania o a Gaza percepiremmo il conflitto come concentrato solamente sul Territorio palestinese occupato.
Ma se fossimo in Israele, cioè a pochi chilometri di distanza dalla totale distruzione, avremmo la percezione che hanno i commentatori di Haaretz: qualcosa che va molto oltre la narrazione della vendetta del dopo-7ottobre, proprio perché Netanyahu esclude qualunque accordo a guerra in corso. Il rilascio degli ostaggi ancora in mano ad Hamas è divenuta una questione laterale rispetto all’obiettivo dichiarato di prendere Rafah e compiere quell’ennesimo truculento massacro che l’ONU paventa da settimane.
Chiunque contesti la politica del gabinetto di guerra, forse a parte le famiglie e gli amici degli ostaggi che protestano ogni giorno in Israele, viene bollato semplicisticamente e duramente come “antisemita“; come se si trattasse di qualcuno che vuole la distruzione di Israele e per questo chiede la pace e la fine delle ostilità. Se si osa, poi, ricordare la recente storia di Hamas, di come abbia potuto insediarsi nella Striscia di Gaza, compiacente proprio la destra israeliana, e farla diventare praticamente una base da cui prima o poi attendersi un attacco nei confronti dello Stato ebraico, si è quanto meno antidemocratici.
Le responsabilità di una guerra, si dice sovente, si rimandano in analisi al dopo-conflitto. Ma, siccome la questione israelo-palestinese è una guerra che dura da settant’anni a questa parte, a volte guerreggiata, a volte terroristizzata, altre volte invece risorta dalle sue ceneri come l’Araba Fenice e venuta fuori dallo spontaneismo popolare dell’Intifada, è giusticabile provare, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, a fornire il quadro minimo di una genesi che data molto più indietro nel tempo.
L’ordiernità dei fatti affonda le sue radici in una ecatombe senza fine. Se durante la Guerra Fredda lo scontro tra Israele e OLP rappresentava, in un certo qual modo, il fronte occidentale contro quello orientale, oggi, dominante un multipolarismo in veloce divenire, sono saltati anche questi schemi che semplificavano (senza banalizzare) le parti in causa e le riducevano, lì nel Medio Oriente, ad una rappresentazione dei grandi conflitti raggelati della seconda metà del Novecento.
Coloni in Cisgiordania, occupazione del Golan, assedio della Striscia fintamente restituita a sé stessa con l’operazione di disimpegno militare attuato da Ariel Sharon nel 2005, sono le condizioni perfette per un non cessate il fuoco permanente. Prima ancora del 7 ottobre. Prima ancora della guerra propriamente detta. Quella che riduce in macerie sette case palestinesi su dieci, ammazza diecimila bambini e non sgomina Hamas chirurgicamente come, invece, dovrebbe fare un lavoro d’insieme tra Tsahal, Shin Bet e Mossad.
Questa guerra la perderà Hamas. La perderanno soprattutto il popolo palestinese, gli ostaggi israeliani e i cittadini dello Stato ebraico. Per ultimo la perderà il governo di Netanyahu. Senza lode alcuna, con tanta infamia appresso. Il nome di Israele sarà per molto tempo associato a questa carneficina costruita su quella fatta dai terroristi islamici il 7 ottobre. Sarà la Storia a dare completezza al tutto. Ma noi sappiamo fino da ora che questa guerra non la sta vincendo e non la vincerà nessuno.
MARCO SFERINI