Che cosa è successo? Poche settimane fa il risultato del campo largo in Sardegna lasciava presagire le magnifiche sorti e progressive dello schieramento unitario da PD al M5S, passando addirittura per Calenda, Renzi e Bonino in Abruzzo.

Ora, a poche ore dalle primarie per l’elezione del candidato a sindaco delle comunali baresi, non solo salta quel molto poco sensato gioco politico importato dall’America, per cui il popolo sceglie il candidato che poi un popolo più vasto dovrebbe votare (mentre le liste le compilano le segreterie di partito), ma la spaccatura tra democratici e pentastellati pare arrivare ad un punto di non ritorno.

Che cosa è successo? E’ davvero sufficiente una pur impegnativa inchiesta per corruzione elettorale, unita agli scivoloni comizievoli di Emiliano sul portare propri assessori nei quartieri dove spadroneggia la malavita, per determinare una deflagrazione di così alto (o basso) livello (a seconda delle interpretazioni)?

Evidentemente sì. Il problema, in effetti, c’è. Non lo si può negare. Ma le contraddizioni permangono. Perché, se attorno alla politica barese i Cinquestelle iniziano ad intravedere una sorta di sistema di potere contorto, allora dovrebbero – come qualcuno ha fatto loro notare – ritirare il loro assessore dalle giunta di Emiliano.

Livelli diversi, certo, ma la coerenza dovrebbe essere una, come la parola data. Il centrodestra, a due mesi dal voto del capoluogo regionale, non ha uno straccio di candidato. Lo pseudo centrosinistra, campo largo o giusto che sia, ne avrebbe magari avuto uno se le primarie si fossero tenute, come previsto, domenica 7 aprile.

Tutto cancellato, tutto sbagliato, tutto da rifare. Le inchieste giudiziarie non inquinano la politica, come qualcuno pensa di poter affermare. Non sono bombe regolate da timer pronti ad esplodere al momento adatto. Se c’è del marcio, oltre che in Danimarca, anche in Puglia, è bene che venga fuori.

Le tempistiche insospettiscono? Se le forze progressiste fossero davvero all’altezza della situazione, dovrebbero bypassare le difficoltà che ne derivano e prendere anche garantisticamente le distanze tanto dalle inchieste, senza prescindere da esse ma senza nemmeno assumerle come delle condanne preventive, evidenza di un malaffare che non ha mai abbandonato la politica.

Perché il circolo davvero vizioso tra potere ed economia, tra scranni e soldi, tra rappresentanza pubblica ed interessi privati è difficile da interrompere se si fa conto su coloro che dovrebbero farlo e che, invece, sono i primi ad esserne parte. Ma, quindi, il sodalizio tra PD e Cinquestelle inizia una nuova fase? Quella del “c’eravamo nemmeno tanto amati e ora finiremo per odiarci nuovamente“?

Chi lo sa… Minuto dopo minuto pare prendere contorni certi l’immagine di una frattura che rievoca i primordi del populismo grillino da un lato e la protervia moralistica democratica dall’altro. Si accusano vicendevolmente, volano frasi di cui entrambi chiedono le reciproche scuse; insomma, un copione già visto. Schlein accusa Conte di voler far vincere le destre, Conte rimanda indietro l’oltraggiosa affermazione e ridà al M5S l’aura di incorruttibilità che lo ha contraddistinto nella sua fase pseudo-rivoluzionaria dei primordi.

A dire il vero, un po’ come valeva un tempo per i comunisti, i Cinquestelle hanno potuto conservare questa fisionomia afferente all’onestà. Un po’ meno marcata, ma comunque rivendicata come patrimonio politico e morale del recente passato. Di molte altre forze politiche non si può certo dire lo stesso.

Ma l’Italia è fatta anche così: dove la contraddizione stride in tutta la sua evidenza, è inoppugnabile e ci si dovrebbe vergognare al solo nominarla, lì la simpatia dell’elettorato si catapulta e così, non una, ma due, tre volte, ci si ritrova a Palazzo Chigi colui del quale si sa molto più di tutto.

Ma il punto è ancora un altro: se una inchiesta, ripetiamo, molto pesante e quindi grevemente grave, è sufficiente a far saltare un percorso politico che pareva essersi aperto e timidamente consolidato dopo il voto sardo e, nonostante la sconfitta abruzzese, e le molte distinzioni nelle regioni del nord, pareva tenere in terra apulica, è del tutto lapalissiano che il collante che teneva insieme quell’alleanza era briciolame.

Un truciolato pulviscolare, una sorta di monadizzazione della politica di una opposizione che sta insieme soltanto in virtù della contrarietà e non per effetto del virtuosismo di una visione ampia dei problemi sociali, economici e civili. Effettivamente, questo differenzia il campo molto meno largo di prima dalla destra di governo.

Che litiga, che solfeggia ipocritamente di patriottismo e si piega alle politiche euro-nordatlantiste improntate a quell’imperialismo che si nutre dell’economia di guerra e che la genera a sua volta; ma che, quando arriva il momento dell’alleanza per il potere (per l’amministrazione seria e ponderata è tutta un’altra storia…), si ricompatta alacremente e assume una postura decisamente corale.

Inversamente proporzionale alla verità dei fatti e delle cifre ma, proprio perché mente, viene creduta più di coloro che propendono per la crudissima oggettività che ci circonda. La questione barese, quindi, riflette tutte le contraddizioni di una politica italiana che è improntata al calcolo immediato e che non considera minimamente una visione di insieme e di lungo periodo. Non c’è progetto, non c’è prospettiva comune perché di veramente comune c’è poco.

E questo è un vulnus che, in parte, si può addebitare a quel peccato originale novecentesco del trasformismo politico italiano che annovera tra i suoi più inquietanti utilizzatori il capo di una dittatura ultraventennale. Non viene mai nulla di buono dall’ibridazione delle posizioni, da una asetticità dei contrasti, che si vorrebbero appianare nel nome di una concordia nazionale che, alla fine, puzza di compromissione.

Non viene mai nulla di buono da tempo, ormai. Da quando abbiamo mutuato dall’America quell’altro meraviglioso sottoprodotto della democrazia liberale che è l’alternanza di governo. Necessaria per classificare modernamente il livello di libertà nella dialettica tra gli opposti.

Peccato che a farne le spese siano stati, quasi sempre, i ruoli assembleari delle istituzioni. Quindi i parlamenti, le assemblee nazionali, le camere e i senati e, con loro, tutte quelle differenti posizioni minori che avrebbero il diritto di poter diventare maggiori e che, invece, relegate al di sotto delle soglie di sbarramento, finiscono con lo sbarrare la strada ad un pezzo rilevante di espressione popolare.

La friabilità dei rapporti tra PD e Cinquestelle è la dimostrazione di una evidenza che talvolta sfugge: alla politica italiana manca molto di più di un campo largo. Manca un pluralismo culturale che si rifaccia ad una nuova interpretazione sociale dei problemi della stragrande maggioranza dei cittadini che, considerati i tagli al paniere della spesa fatti dal governo Meloni (abbastanza in linea con i precedenti interventi da “unità nazionale“), sono destinati ad un impoverimento ancora più disastroso di quello patito in questi anni.

Non è la litigiosità tra le forze politiche il dramma. Ma il fatto che, dopo le diatribe e gli scambi di accuse e di pseudo-insulti, ci sia praticamente il vuoto cosmico se si prova a connettere una parte politica con quello che dovrebbe essere il suo popolo di riferimento, la sua gente, coloro che vi si dovrebbero riconoscere senza nemmeno pensarci.

Un po’ come accadeva un tempo, prima dell’adozione del bipolarismo come moloch di Stato, come mantra dogmatico da agitare ogni qual volta c’era da salvare la Patria dai drammi dell’imprenditoria che si calava nell’agone.

Il rischio di impresa e il rischio di elezione si fondevano in una spirale di perversione che ha creato, lustro dopo lustro, la disaffezione nei confronti delle istituzioni, una lontananza dalla Repubblica vissuta come un imbroglio manifesto e non come l’ultima risorsa costituzionale delle tutele sociali, civili, culturali e morali.

Fino che è stata la destra ad esercitarsi in questa commutazione prima stravagante e poi seriamente sovversiva dell’ordine democratico, della sovranità popolare, poteva sembrare che ciò rispondesse ad una sorta di naturale istinto primordiale.

Ma quando poi anche il centrosinistra si è prodotto nel trasformismo dalle politiche per il lavoro a quelle per la “stabilità economica“, la confusione dei ruoli è stata totale e ha disarcionato le certezze della gente: chi avrebbe difeso i lavoratori dalle privatizzazioni? La sinistra, naturalmente. Ma quale?

Quella che dal “pacchetto Treu” in avanti ha sempre alzato la posta su politiche antioperaie e antilavorative per poter essere accettata nel novero delle forze credibili per governare dai veri padroni del vapore?

La rottura del fidanzamento tra PD e Cinquestelle si consuma in un dramma in cui manca persino la gelosia, elemento cardine di qualunque storia d’amore che si possa considerare tale. Gli stracci volano dopo che, in sei lunghi mesi, non si era trovata la quadra su un candidato sindaco unitario per il Comune di Bari. Le primarie avrebbero, per lo meno, risolto il dilemma. Ora i candidati restano in campo.

Si vocifera che si lavora per l’unità comunque, ma il tempo stringe e senza la mediazione del voto dei simpatizzanti delle forze progressiste sarà complicatissima la rinuncia di uno dei due candidati in favore dell’altro o di un terzo non bene individuato. La tragicommedia barese, emblema di quella tutta italiana di un progressisma dalla fronte poco spaziosa, continua…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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