Volodymyr Zelens’kyj e Francis Fukuyama

Diamoci una notizia. Nel senso di provare proprio a trarla da quello che si legge e si sente non da oggi, ma da molto tempo. Certe cifre paiono incredibili ma, proprio perché riguardano l’industria delle armi e il foraggiamento delle guerre, sono a quel punto credibilissime. Certificate, peraltro, dagli stessi attori sul tragico campo dei conflitti in corso. La notizia è questa: la guerra in Ucraina non va per niente bene se vista dal lato occidentale. Lo stesso presidente Volodymyr Zelens’kyj, per la prima volta dal febbraio 2022, ammette che, andando avanti così, la Russia preverrà.

La notizia nella notizia è, poi, questa: per riarmarsi di tutto punto, i paesi del G7 avranno bisogno, nel corso di dieci anni, di oltre diecimila miliardi di dollari! Il tutto finalizzato ovviamente ad un riequilibrio delle sorti, visto che sul piano economico Mosca non cede sotto la presunta pressione dei pacchetti di sanzioni euro-americani, e visto pure che su quello militare la superiorità delle truppe di Putin è netta e incontestabile. Per un proiettile ucraino sparato i russi rispondo con dieci. La sproprozione, anche su un periodo di medio-breve termine, porterà al collasso del fronte.

E siccome il blocco occidentale, non di meno di quello orientale (anche se meno compatto e più variegato), ha investito parecchio in tenuta finanziaria, in commercio di armi, in sfruttamento di risorse nei paesi considerati ancora colonie del primo mondo, e in prospettive pure politiche, la situazione si sta facendo un tantino critica; al punto da spingere la multinazionale Bloomberg a lanciare l’allarme. L’ipotesi fatta dagli economisti in questione è che questa condizione attuale dei rapporti internazionali riconduca ad una instabilità globale, pari a quella che si era abituati a conoscere durante la Guerra Fredda.

Se la NATO ha richiamato gli alleati europei ad un rispetto di una clausola sui bilanci statali che comprendesse il 2% del Prodotto Interno Lordo da destinare esclusivamente alla spesa militare (sottraendo naturalmente molte risorse a quella sociale), qui si paventa ora che si debba far salire la già esorbitante soglia atlantista a qualcosa tipo il 4% della ricchezza di un paese. Proviamo ad indovinare chi oggi impiega più di questa cifra oggi in armamenti? Non i ventisette della UE, nemmeno gli Stati Uniti d’America e tanto meno la Cina. E’ la Russia.

L’Italia sarebbe ferma all’1,5%. Per una democrazia che dovrebbe pensare soltanto in chiave difensiva è chiaramente tanto, troppo. Ma il tributo pagato all’alleantismo occidentale non è sufficiente. Stoltenberg chiede il 2%, la realtà dei fatti è che, se facciamo una media tra le richieste dell’Alleanza e le previsioni di Bloomberg, ci si potrebbe attestare su una spesa militare intorno al doppio rispetto a quella odierna. Se, oltre a questo scenario di guerra, si somma pure quello mediorientale, per cui l’Italia dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, è il maggiore fornitore di armi ad Israele, la cifra è destinata a salire ulteriormente.

L’impostazione globale, dunque, è quella di una instabilità sociale entro una cornice multiforme di una economia di guerra. La spesa pubblica per scuola, sanità, infrastrutture, sistema previdenziale, tutela delle lavoratrici e dei lavoratori, protezione dei più deboli (ad iniziare dai poveri di lungo corso e dai migranti) non fa che divenire una subordinata alle esigenze dello schema bellico che l’Alleanza Atlantica impone ai paesi dell’Unione Europea che non hanno un minimo tentennamento in merito.

Quando si parla di “autonomia” rispetto alle decisioni nordamericane, di un ruolo compartecipe delle istituzioni comunitarie, nel migliore dei casi si vaneggia, nel peggiore si raccontano delle vere e proprie menzogne. Il problema è la tenuta tanto di un tipo di economia di questa innaturalità disumana, quanto quello vero e proprio di intere comunità nazionali che rischiano di entrare in cortocircuito da cui si esce soltanto, infatti, con un inasperimento della lotta dentro la classe dei più poveri e non tra le classi. La risposta politica a tutto ciò, dunque, è l’involuzione destrorsa, la necessità di sveltire i processi democratici e assogettarli ad un decisionismo risoluto.

L’”orbanizzazione” della politica italiana è iniziata da qualche anno. Coincide anche col governo Meloni, ma nella sua trasmutazione costituente ha una origine populista che viene da qualche lustro a questa parte e che mette le sue radici nella crisi strutturale di un liberismo impossibilitato a reggere il multilateralismo di eventi che si riversa su più poli di aggregazione finanziaria ed economica e che, pertanto, colpisce differentemente ma con uguali mezzi. L’impatto che la devastazione ambientale ha sull’Africa e sulle zone più depresse del pianeta è certtamente diverso da quello che impatta contro l’Europa o l’America settentrionale.

L’economia di guerra accentua ancora di più il regime globale del “si salvi chi può“, che è una delle caratteristiche egocentriche più truci del capitalismo moderno e della finanziarizzazione di una economia insostenibile e che esponenzializza i suoi effetti; i governi li traducono con terminologie del tipo: “adeguamento alla modernità“, “sostenibilità” e “governabilità delle scelte“. Ma tanto ad ovest quanto ad est, i risultati parlano chiaro: lo scontro multipolare in atto abbisogna di un revanchismo imperialista che è parte rilevante di un processo di adattamento del capitale ad una antropizzazione totalizzante.

Siamo diventati troppi e le risorse non bastano nemmeno più per quei rapinatori del primo mondo che se le spartivano, fino a poco tempo fa, alla faccia dei miliardi di indigenti proletari dell’Asia, dell’Africa e del Centro-Sud-America. La guerra di aggressione che l’Occidente vuole mostrarci come unilateralmente scatenata da Putin, è la risposta a quella non dichiarata ufficialmente da NATO e Stati Uniti proprio contro la Russia e contro quelle potenze economiche che inficiano l’ormai scomparso unipolarismo americaneo post-guerrafredda.

Spendere il tre o il quattro percento del PIL di un bilancio precario come quello italiano (e complessivamente europeo) in armamenti, vendendo ai popoli la favola della difesa della democrazia in Ucraina contro la tirannia dello zar dell’Est, è un crimine contro l’umanità. Ed, infatti, di crimini di questo tipo il sistema capitalistico è espertissimo. E’ esso stesso criminogeno. Ma non si può dire in televisione, alla radio e nei salotti in cui si dibatte “civilmente“, perché il presupposto dato è che, siccome ne facciamo parte molto degnamente (sia detto con tutta l’ironia del caso), siamo e non possiamo non essere dalla parte giusta della Storia e dell’Attualità. Tutte e due con la maiuscola.

Torna a buon gioco citare un convinto assertore della “fine della Storia“, intesa come evoluzione umana nell’oggi e per il domani, quale Francis Fukuyama. Un amico mi ha regalato in questi giorni il suo “capolavoro” (sia permesso mettere il termine tra virgolette, vista la partigianeria pienamente confessata con cui stigmatizziamo il suo pensiero) scritto sul principiare degli anni Novanta del secolo scorso. Particolarmente interessante è la tesi dell’arrivo ad una “forma di organizzazione sociale e politica che soddisfi in pieno i bisogni essenziali degli esseri umani“.

A pagina duecentotré de “La fine della storia e l’ultimo uomo” edito da UTET (fa bene il professor Pasquino a ribadire che il titolo va sempre citato nella sua completezza e non amputato di quello che potrebbe essere una sorta di complemento di tempo) lo studioso e politologo di Stanford si domanda come si possa dimostrare di essere arrivati a questo ipotetico punto di termine dell’evoluzione. Si risponde che due sono gli approcci confermativi o inficianti il presupposto che le liberaldemocrazie e il capitalismo rappresentino questa eccellenza insuperabile dell’umanità per sé stessa.

Uno è l’approccio “storicistico” che vede le società in un rapporto di dialettica escludente le peggiori in favore delle migliori; intendendo in questo senso quelle che trionfano per un benessere comune che, per quanto in buona fede possa trovarsi, comprende sempre e comunque il privilegio di pochi e l’immiserimento dei moltissimi altri. L’altro è un approccio che Fukuyama chiama “trans-storico“, legato ad una sorta di naturalismo da cui non si prescinde, mentre si può prescindere (in parte) dalla Storia umana. La natura dell’essere umano prevale sul giudizio che la Storia ne può dare. Non esiste una umanità data «una volta per tutte», perché si crea nel tempo storico.

La liberaldemocrazia, pertanto, sarebbe il migliore dei sistemi evolutivi politico-social-economici perché fa convivere il minor numero di contraddizioni possibili rispetto ad un passato di cui sono state eliminate tante macroscopiche ingiustizie e pregiudizi: schiavismo, superiorità razziale, caste, monarchie assolute, tirannie svariate… Stando alla favola che Fukuyama ci descrive, parrebbe quasi di vivere davvero in un mondo bello e risoluto di sé medesimo.

Peccato che lo schiavismo sia ancora visibile in tante parti del pianeta, che la superiorità razziale sia un fenomeno tutt’ora largamente diffuso e non solo praticato da partiti più o meno fascistoidi e neonazisti, ma anche da regimi politico-statali che fanno guerre genocidiarie contro interi popoli.

Peccato altresì che il termometro delle contraddizioni attuali sia viziato da una temperatura dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che non è affatto superato dalla congiuzione tra liberalismo e democrazia; tanto che siamo a qui a scrivere di crisi ambientale in un contesto in cui una parte del pianeta abusa di un’altra parte e distrugge l’intero equilibrio globale senza fermarsi davanti agli ammonimenti degli scienziati. E’ condivisibile certamente l’approccio trans-storico che Fukuyama ci propone; molto di più di quello storico. Ma se si vuole “verificare le cose buone” della società, allora bisogna stabilire un criterio.

Le guerre sono cose buone? No. Si può distinguere tra guerre giuste e guerre sbagliate. Certo. E’ doveroso farlo sempre? Indubbiamente. Ma bisognerebbe anche storicizzare il tutto e contestualizzare e stabilire un principio etico universale, che la Costituzione italiana, per fare un esempio, pone: le guerre sono un errore a monte se si tratta di risolvere le controversie internazionali. Siamo tutti consapevoli degli interessi in gioco nell’intercapedine ucraina tra Ovest ed Est. Così come di quelli che ruotano attorno alla montagna di detriti e all’immenso cimitero che è diventata Gaza.

Non si può accusare il pacifismo di essere infantile e sognatore, utopistico e, per questo, in qualche modo prosaico nei confronti delle sofferenze della gente che muore, così come del valore dei soldati mandati nelle macellerie dei fronti di guerra. La risposta pacifista è oggi rivoluzionaria perché antepone il diritto alla vita di tutti e per tutti agli interessi del capitale, del liberismo, della grande finanza. I popoli prima dei profitti, il benessere comune prima dei dividendi aziendali e dei valori borsistici.

Filosofeggiare è affascinante, ma non si possono usare due pesi e due misure a seconda dell’emisfero in cui si trova. Una storia universale dell’umanità, se davvero la si vuole scrivere, va scritta polifonicamente e non partendo da un solo punto di vista. Per questo il punto di vista del pacifismo è oggi necessario più che mai: perché le guerre sono la cifra di una riconfigurazione globale degli assetti economici e politici che rischia di perdurare a lungo come sistema di sopravvivenza in una società che non conoscerà altra prospettiva se non quella dello scontro quasi aprioristico.

Dobbiamo lottare pacificamente ma con risolutezza per invertire il rapporto tra economia di guerra ed economia sociale. Tra ingiustizia bellica e giustizia sociale. Tra privato e pubblico, tra interesse speculativo e interesse collettivo. La parola PACE contiene molto di più del pacifismo stesso.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: