Quando c’è un incidente in un luogo di lavoro, la prima convitata di pietra che viene fatta sedere davanti al tribunale delle responsabilità è l’imperizia di chi era alle prese con un macchinario, con un ritmo produttivo incessante, con una catena di montaggio, con qualcosa che, già di per sé, sembra avere le caratteristiche dell’ovvio richiamo dell””attenzione” costante che l’operaio, o comunque il lavoratore in senso più lato del termine, è obbligato a riservare all’atto della produzione e a sé stesso per non procurarsi il male.
La teorizzazione dell’imperizia come primo elemento da considerare sarebbe anche legittima ma, ormai, abbiamo imparato da tantissimi anni, da molto, troppo tempo, che all’origine degli infortuni e delle morti nel luogo di lavoro non c’è un concorso di colpa tra imprenditore e lavoratore, ma sempre la mancanza di un regime di sicurezza che non viene adeguatamente garantito alle maestranze. Il liberismo sorto negli ultimi trent’anni del secolo scorso ha, tra l’altro, compreso come propria caratteristica fisiognomica l’aumento della produzione a ritmi forsennati e, per di più, in un contesto di delocalizzazioni spaventose.
Proprio di oggi è la notizia che Stellantis è criticata persino dal ministro Urso perché produrrà in Polonia un’auto che si chiamerà “Milano”. Ora, prescidendo dalle disdicevoli ragioni pseudo-patriottico-nazionaliste dei rappresentanti dell’esecutivo meloniano, il tema in questione è il ricorso, entro i confini dell’Unione Europea, ad una quota di capitale variabile sempre più bassa per aumentare quei profitti che finiscono tutti quanti nei dividendi aziendali degli azionisti, mentre alla sicurezza nel posto di lavoro arrivano misere briciole.
Il racconto delle tragedie operaie e delle tremende morti di lavoratrici e lavoratori in fabbrica, nei cantieri, anche in luoghi apparentemente più sicuri come i campi agricoli, oppure quelli, come una centrale idroelettrica, la sicurezza dovrebbe essere misurata al millimetro, appartiene ad un detto e ripetuto che finisce col somigliare ad una litania liturgica, a qualcosa a cui ci si abitua drammaticamente. Ma ci si abitua. Perché non c’è soluzione di continuità che tenga: ogni giorno si muore invece di tornare a casa dopo le ore di lavoro. Ogni giorno qualcuno muore. Molto spesso più di uno.
C’è al centro di tutto questo il problema del modello imprenditoriale che non è soltanto non più sostenibile sul piano dell’impatto ambientale e, quindi, nel rapporto diretto tra capitale e natura, tra produzione e materie prime, tra sfruttamento della forza-lavoro e sfruttamento delle risorse del pianeta; ma diventa, così per come ancora oggi lo si tollera e lo si blandisce là nelle lande desolate della politica nazionale ed europea interclassista e, pertanto, antisociale, un prezzo impagabile per quello stesso sviluppo di cui tanto si vanta e si celebra portatore nella modernità dell’oggi.
Appalti e subappalti ci parlano di una deregolamentazione che si inasprisce e aggredisce le necessità di mettere al sicuro chi sta in un cantiere, chi pulisce delle cisterne, che scava sotto terra, chi ha a che fare con turbine, elettricità, gas e tutto quello che può essere un potenziale mortale nemico di chi lo deve maneggiare in qualche modo. Direttamente collegato al tema dello spostamento a lato della questione della sicurezza per lavoratrici e lavoratori, c’è quello della precarietà. Tutto si collega e si compenetra, da decenni, in un sodalizio maleficamente padronale che impone la temporeaneità.
Il mantra – i meno giovani che leggono lo ricorderanno – è stato per tanti governi, di centodestra e di centrosinistra, quello della “flessibilità” di un mercato del lavoro che si adeguasse a cosa? Alle esigenze delle imprese e non, invece, ai bisogni di chi veramente produceva la ricchezza per lor signori. Ai capitalisti che fanno la bella vita sugli yatch, ancorati nelle rade delle baie delle nostre belle grandi isole e delle coste smeraldine, azzurre o di altri colori, non capiterà mai di morire schiacciati da una pressa o da un carello elevatore.
Sì, anche la morte ha la sua incoscienza di classe. E non è uguale per tutti. Almeno non se la si considera in questi contesti funerei, giorno dopo giorno, andandola a cercare là dove invece dovrebbe essere scansata proprio da un diverso modo di investire: da parte dei padroni e da parte dei governi. Ma siccome vanno a braccetto nel contrastare gli interessi del mondo del lavoro, di quella che ancora qualcuno più a nord di noi non ha vergogna nel chiamarla “working class“, su loro non si può fare affidamento per auspicare una assunzione di responsabilità in una cornice di buona fede.
La vicenda della centrale idroelettrica di Suviana può sembrare decontestualizzata da questa dialettica tra capitale, lavoro, potere politico e rispetto dei diritti sociali, ed invece vi rientra purtroppo a pieno titolo perché gli incidenti sono disgrazie fino ad un certo punto. Qui la fatalità, che naturalmente può avere il suo concorso di colpa nella drammatica esplosione che ha fatto una strage di operai, se si considera il fatto che le centrali dipendono dalle Regioni e che le gare di appalto soppiantano gli investimenti primari, quelli fondamentali per la messa in sicurezza degli impianti e di chi vi lavora, finisce con l’essere una coprotagonista della tragedia.
La regionalizzazione di queste competenze ha arlecchinizzato tutto, differenziando ancora prima che l’autonomia differenziata calderoliana facesse il suo ingresso tra le proposte controcostituzionali di frammentazione dello Stato e di depotenziamento della Repubblica. Le indagini riveleranno le cause dell’esplosione di Suviana. Tuttavia, riferendoci in generale al problema della manutenzione degli impianti, è evidente che in questa direzione si investe sempre meno e non da oggi. Ma il governo Meloni non può accampare alibi. Governa quasi da due anni e qualche responsabilità in al senso deve prendersela.
Il processo di globalizzazione capitalistico-liberista ha, anche in Europa e in Italia, indotto alla trattazione della forza lavoro come una risorsa da sfruttare sempre di più entro un perimetro di controriforme politiche tutte piegate alla tutela dei privilegi imprenditoriali e, quindi, alla ricerca di una stabilità dei vari poli di concentrazione delle ricchezze e di quelli che, con un accrescitivo insufficiente ed eufemistico, si definiscono “extra-profitti“. La rabbia che si prova quando questre stragi prendono per qualche giorno la scena delle cronache, facendo battere il petto a migliaia di mani che esprimono una contrizione filistea, non può finire soltanto in appelli moralistici ad imprese e governi.
Se una sinistra di classe merita di essere nuovamente quell’offerta politico-sociale che una domanda nel mondo del lavoro dovrebbe richiedere e, al contempo, contribuire a riorganizzare, questa deve puntare alla messa in discussione di punti che il capiale oggi ritiene inamovibili: dall’orario di lavoro a parità di salario alla sicurezza in ogni luogo di lavoro; dalla riammissione dell’indicizzazione dei salari e delle pensioni al costo della vita reale (e non percepito) al superamento della precarietà come regime di normalizzazione contrattuale.
Perché la questione dell’emergenza sicurezza nelle fabbriche e nei cantieri non ha la stessa rilevanza che aveva assunto quella dei medici, degli infermeri e dei lavoratori della sanità durante il biennio pandemico? Perché deve sempre essere una spinta costrittiva quella che induce a lottare per un cambiamento radicale e non può, invece, questa spinta, arrivare da una riformulazione della coscienza di classe? Può il sindacato agire in questo senso e stimolare queta ripresa della critica senza se e senza ma, senza sconti alcuni agli imprenditori che vantano di essere l’orgoglio del “made in Italy” nel mondo? Sono semplicemente delle domande, intrise di una indignazione tutt’altro che retorica.
Perché alla fine della questione ci sono sempre i rapporti tra le classi e c’è chi sfrutta e chi è sfruttato, chi muore sul posto di lavoro e chi osserva quelle morti dall’alto delle colline dove stanno le ville di coloro che hanno un diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione che non è il vanto della società, ma la sua degradazione. Noi parliamo di PACE, di LAVORO, di AMBIENTE, di DIGNITA’, di TERRA e di LIBERTA’. Ma rimangono parole vuote se non c’è una interpretazione fattiva e, pertanto, politica, che le renda concrete con lotte che uniscano studenti e lavoratori, pensionati e migranti.
Ogni altra polemica è sovrastrutturalmente banale, insignificante: è un elemento di distrazione di massa. Tutti i problemi quotidiani sembrano diventare dei falsi problemi se paragonati all’invivibilità di tanti milioni e milioni di esistenze. Possiamo stare a discutere quanto vogliamo della qualità della “classe dirigente” italiana oggi. Il punto è che manca una classe sociale che aspiri a diventare lei la dirigente del Paese. Oggi, come ieri, l’Italia è governata dai rappresentanti di forze politiche acquiescenti nei confronti del capitalismo e del liberismo.
Tutto il finto patriottismo propagandistico elettorale si è sciolto come neve al sole davanti alle ragioni compatibiliste della giaculatoria per cui “L’Europa ce lo chiede“. La destra di governo è destra antisociale, ma tenta la carta della popolarità in vista delle elezioni continentali proprio recuperando sul piano dei finanziamenti da un lato e dei respingimenti dei migranti dall’altro. Ci sono sempre due destre che si barcamenano e si aiutano nel momento del bisogno. All’occorenza ce ne sono anche tre, quando è il momento di governare.
Ma la sinistra dell’alternativa dov’è? Qui si incarta tutto questo paroleggiare che è stato dettato più dalla rabbia che dalla ponderata in-condizione di un progressismo italiano privo di una consistenza quanto meno relativa e sufficiente a sé stesso. Le beghe locali sul campo largo, che dovrebbero avere un riverbero sul piano nazionale, trascurato i grandi problemi sociali e pongono soltanto la questione di un rinnovamento di una classe dirigente che è stata abituata alla troppa considerazione di sé stessi e quasi per niente a quella di una ideologia di nuovo modello.
Il dimensionamento del politicismo è, se vogliamo utilizzare impropriamente dei termini ingegneristici, proprio questo: non vedere al di là di un mesto, rassegnato orizzonte di un finto pragmatismo riformista e riformatore. Le morti nei luoghi di lavoro pongono da anni e anni, osiamo dire da sempre, l’urgenza di un binomio tra sindacato e socialità che ritrovi una rappresentanza politica anche plurale a sinistra. Ma che le ritrovi. Invece si scruta al centro, si guarda ad un campo largo che non è, tanto per dire (ma mica poi tanto…), un campo della pace.
C’è la necessità di unire le lotte: contro lo sfruttamento dell’essere umano su sé stesso, sulla natura e contro la nuova fase dell’imperialismo multipolare che imperversa nei conflitti che devastano il mondo e i popoli. Per non dimenticare i lavoratori feriti e morti nella tragedia di Bargi, il miglior modo di onorarne la memoria è dare seguito ad una inversione di tendenza che non scenda a compromossioni e che si guardi anche dai compromessi. La sinistra, il sindacato e il mondo del lavoro possono tornare ad essere quella massa critica che impedisca, ora più che mai, la trascurata sicurezza a vantaggio dei luridi profitti.
MARCO SFERINI