Alfredo Rocco (a sinistra) e Carlo Nordio

Quarantatré anni fa, riferendosi ad una vicenda chiamata “Carte del Pentagono” (“Pentagon papers“) e riguardante i rapporti tra il governo di Washington e le questioni vietnamite, la Corte Suprema degli Stati Uniti, tra l’altro, sulla libertà di stampa affermava testualmente: «The Government’s power to censor the press was abolished so that the press would remain forever free to censure the Government» («Il potere del Governo di censurare la stampa fu abolito affinché la stampa rimanesse per sempre libera di censurare il Governo»).

Un principio naturalmente liberaldemocratico, ma assimilabile da qualunque interculturalismo, soprattutto se una nazione fonda e rifonda sé stessa dopo vent’anni di dittatura e una guerra mondiale devastante. La nostra Costituzione, infatti, pone pesi e contrappesi alla libertà di stampa: va garantita e va tutelata anche da sé stessa. Recita l’articolo 21:

«Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili
 […]».

Non c’è una formulazione ambigua che possa dare oggetto ad interpretazioni malevole: la stampa non può essere né autorizzata né censurata. Ognuno è libero, nei termini dei rapporti di Legge, di scrivere ciò che vuole e, chiaramente, se calunnia qualcuno, di risponderne. C’era già tutto nella Carta del 1948 e nelle formulazioni legislative successive che davano applicazione al principio costituzionale.

Ma il governo Meloni si è piccato di andare oltre il liberalismo nordamericano – che pareva piacergli sempre di più rispetto al trumpismo conservatore e reazionario carezzato nei comizi antecedenti al settembre 2022 – e oltre la Costituzione della nostra Repubblica. Non riescono proprio, avendo in nuce in sé stessi quel germe di autoritarismo che li pervade senza interruzione alcuna, ad avere un freno sul ricorso al carcere nel riferirsi, in generale, alla punizioni.

Qualcuno ricorderà i bei tempi (vi prego, cogliete l’ironia…) del MSI di Almirante in cui si vaneggiava (ma mica poi così tanto) di una reintroduzione della pena di morte in Italia. Contro i terroristi (ma tutti?), contro gli stragisti (quindi essenzialmente contro neofascisti…) e contro i mafiosi (e pure qui la destra c’è sempre entrata qualcosa, insieme al democristianesimo che imperversava in Trinacria. Alle trovate missine si affiancava poi un inverecondo protagonismo repubblicano che richiedeva leggi e poteri speciali.

Naturalmente quando si fanno richieste simili, mica si pensa ad un ruolo più attivo del Parlamento in seno alla complessa e affascinante macchina repubblicana; bensì al governo del Paese. Oggi non si parla di legislazioni speciali o specialissime. Non ce n’è bisogno: sono sufficienti i progetti di premierato e di autonomia differenziata che, combinati insieme, sono una deflagrazione antidemocratica mai considerata in Italia dal dopoguerra ad oggi.

Oggi, questo governo che mostra i muscoli, che fa della retorica la cifra costante del suo rapporto con la cittadinanza, imbevendo ogni concetto di un propagandismo che avrebbe dovuto già produrre una certa assuefazione nelle persone, anche e soprattutto nell’elettorato del tripartito destroide, si propone azioni circostanziate ma meno rumorose. Dopo le manganellate agli studenti, le botte in molte piazze in cui si protesta per il sostegno ad Israele e il silenzio sugli oltre trentatrémila morti palestinesi, adesso arriva in Commissione giustizia al Senato anche un provvedimento che intende aumentare le pene contro i giornalisti che diffamano.

La diffamazione, sia chiaro, non piace a nessuno ed è, oltremodo, un reato. Non è libertà di stampa, ma abuso della stessa. E come ogni abuso merita, va fermato, va anche punito. Ma non con il carcere. La destra, invece, ha l’ossessione carceraria: le sbarre sono ciò dietro a cui deve stare anche chi infrange la Legge; ma prima di tutto chi si permette di criticare il potere.

Gli americani, quaranta e passa anni fa, da fulgido esempio mondiale (anche qui, per gentilezza, si colga un pizzico di ironia), tuttavia pensavano che compito degli organi di informazione fosse qualcosa che superasse persino la critica nei confronti di chi amministrava la Repubblica stellata, collocando questo ruolo primario tra gli assi portanti dei contrappesi costituzionali in merito al controllo sul governo da parte di una pluralità di voci irriducibili alla compiacenza e alla condiscendevolezza. La storia ci ha mostrato quanta distanza c’è tra il principio enunciato e la sua correlazione nella pratica quotidiana.

Eppure, il principio mantiene un suo valore; preserva in qualche modo la sostanza mediante la forma e, paradossalmente, ma del tutto evidentemente, consente una simbiosi tra le due caratteristiche, che si fa sincretismo socio-culturale-istituzionale e sostiene un equilibrio necessario alla preservazione della democrazia, mettendola al riparo da quello che potrebbe essere scambiato per un “eccesso di libertà” dato dal regime democratico stesso.

Querele, multe, anni di carcere. Se ne sentono e leggono di tutti i colori. La destra non si risparmia in quanto a cangiamento di pelo: muta quello, ma il vizio rimane. Ed il vizio di fondo è sempre una vena di autoritarismo con cui proteggere il proprio status di potere attuale e, al contempo, ricordare che lì, in quel settore politico si amministra così perché le origini sono tutt’altro che fondate su ragioni democratiche e liberali.

Ci possiamo girare intorno quanto vogliamo, ma la connotazione è quella: legge e ordine, ordine e repressione nei confronti di chi critica, si oppone o si organizza contro le decisioni del governo.

Se si parla di “libertà di stampa” in Italia, non si può con la memoria andare indietro di un secolo e citare il famigerato “Codice Rocco” (tutt’ora vigente, seppure ampiamente riformato dal 1945 fino al 1999). Del codice penale promosso dal governo di Mussolini, sotto il coordinamento del ministro della giustizia Alfredo Rocco, si sono protratte in tempo democratico molte normative, via via superate, compreso l’impianto inquisitorio del diritto italiano, sostituito da un sistema accusatorio. L’unicità tra giudice e pubblico accusatore sarà un retaggio del Medioevo duro a morire. Almeno fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso.

Nel “Codice Rocco” originale ed originario, dunque, entro i cardini di una magistratura addomesticata al potere esecutivo, alla dittatura fascista, le restrizioni per stampa, radio e cinema erano all’ordine del giorno.

Nel dopoguerra, quando la Costituzione della Repubblica prende corpo, l’esigenza di una frattura netta con la censura del regime è una elementarità che, tuttavia, nonostante l’articolo 21 e il dibattito pubblico sostenuto da quella che, in teoria, dovrebbe già essere una stampa liberata dalle autorizzazioni, non si può da subito dare per scontata.

Problema dell’ampio Arco costituzionale sarà non tanto quello di mettere dei paletti alla libertà di espressione, quindi stabilendo una sorta di “censura morbida“, ma semmai, per rasserenare le preoccupazioni democristiane e conservatrici, disporre un controllo sugli argomenti considerati scabrosi, contrari alla decenza e alla morale. Fino all’avvento del periodo berlusconiano, della libertà di stampa si tratterà entro questi limiti, anche nei durissimi anni di piombo.

La satira vincerà parecchie cause in tribunale e tutto questo farà giurisprudenza a favore di un sempre più libero campo espressivo, di una pluralità molto più ampia sulla carta stampata rispetto alla televisione. Con il ritorno del vento di destra, nei primi anni ’90, dalla “Milano da bere” al rampantismo biscionesco, il tema della libertà di critica nei confronti dei governi si infervorerà perché via, soprattutto, dell’enorme conflitto di interessi in ballo: un imprenditore della carta stampata, della tv e della radio a capo dell’esecutivo.

La rivincita delle destre agiterà le acque mai chete dell’eversione nera, delle trame occulte, quelle – per intenderci – che avevano tentato, complici gli amici di Oltreoceano, di rovesciare il regime parlamentare e instaurare una specie di dittatura militare anticomunista come in Grecia. Da allora, la questione della libertà di informazione, di critica e di satira sarà messa in discussione, passando da architrave della democrazia ad impiccio per una democratura sognata dal progetto neoliberista siglato tra Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord.

Oggi, mentre la seconda rivincita delle destre è nel pieno del suo vigore (almeno così è se ci pare…), il progetto è ancora più ambizioso: revanchismo revisionistico storico, per cui non si parla di fascismo perché non se può parlare male da post o neofascisti che si sia, unitamente ad una attualizzazione dei progetti autoritari di esclusione del Parlamento dal ruolo cardine di regolatore della vita repubblicana mediante il processo di formazione delle Legge su delega popolare.

Mentre parliamo di premierato, di autonomia differenziata, di francobolli con le effigi di Giovanni Gentile o di Silvio Berlusconi, parliamo anche di attacchi alla libertà di informazione nella misura in cui il carcere diviene l’epifenomeno che segue il giornalista ad ogni suo passo sospinto mentre ha una notizia e che fa….? La dà o non la dà se poi gli tocca rischiare una salatissima multa o, peggio ancora, il gabbio? Quindi parliamo, nell’insieme, di una rivoluzione conservatrice e reazionaria che attacca le fondamenta della Repubblica democratica per farla diventare democratura.

Di ciò non disse il falso chi affermò che si tratta di una “orbanizzazione” dell’Italia moderna. Un altro pezzetto di regressione inculturale e incivile che si prende tutt’altro che gioco dello Stato rinato dalle macerie del fascismo e della guerra.

L’emergenza, pertanto, va dall’umiliazione del mondo del lavoro alle lagnanze papali per una volta plaudite dai pro-vita in materia di aborto, gestazione per altri, teorie genderiane e transessualità; passando per il progetto a-costituzionale di un governo che dirotta su Ucraina e Israele armi e armi, obbedendo alla NATO e facendo spallucce quando gli si obietta che i popoli muoiono e la povertà sociale aumenta.

Che volete che sia il ritocco nordiano dei codicilli penali, introducendo il carcere per i giornalisti che saranno riconosciuti colpevoli di diffamazione. Una volta messa in moto la nuova macchina repressiva, difficile sarà proprio fermarla. Perché i meccanismi istituzionali sono così complessi da avere bisogno di tempo tanto per partire quanto per stopparsi. Ma, mentre alla partenza hanno una sorta di slancio propulsore che ne fa da rodaggio, quando si deve cambiare velocità, marcia e direzione, serve molta più energia ma, soprattutto, la volontà per farlo.

Là dove è scritto “volontà” si legga: i rapporti di forza tra politica, economica e finanza che, per subire questo mutamento, necessitano di una forza popolare, sociale, civile, quand’anche morale, veramente rivoluzionaria. Sarebbe meglio chiamarla “epocale“, da vera svolta storica. La crisi del regime fascista, come dittatura militare, così come aveva acutamente osservato Gramsci, fu determinata dalla guerra.

L’Italia oggi, al pari dell’Europa di inizio Novecento, è immersa nella guerra, nella sua illogicità che, per gli affaristi di mezzo mondo, è un terreno di lucro insperato all’apice di una crisi liberista che pareva irreversibile. Lo è e lo sarà ancora. Ma gli effetti li subiranno i miliardi di moderni proletari salariati che, in buona parte, migreranno perché le condizioni globali lo renderanno inevitabile.

L’Italia di Giorgia Meloni e del suo governo affronta la questione delle libertà civili così come tratta quelle sociali. Con la durezza della repressione le prime, con la fermezza dei dettami europei e fondomonetaristici le seconde. Non ci può e non ci si deve accontentare di salvare una parte dei diritti considerati dal liberalismo come caratterizzanti una democrazia.

Non si può essere costretti a scegliere tra libertà e giustizia sociale. Pertini docet. Per questo l’opposizione ferma alle politiche anti-stampa del governo sono, anche se non sembrano di primo acchito, una lotta per tutte le altre azioni antisociali dell’esecutivo. E viceversa. L’opposizione al melonismo deve essere senza soluzione di continuità tra i diritti e deve interessare un unico grande dovere: mandare a casa questo governo il prima possibile. E’ il Danno per antonomasia, il Nocumento per eccellenza.

Dopo due giorni non se ne poteva già più. Dopo quasi due anni… beh… non vi è nemmeno un termine adatto per dirlo…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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