Detesto il regime della Repubblica islamica. Una teocrazia, quindi un oscurantismo politico che impone una morale religiosa sulle istituzioni, sul vivere incivile (di chi subisce una incivilizzazione), che impedisce alla donne di avere uguali diritti rispetto al resto dei cittadini, che punisce con la morte qualunque comportamento fuoriesce dall’interpretazione restringente del Corano che ne danno gli ayatollah.

Ero molto giovane quando ho visto pendere dalle forche costruite sulle braccia di alte gru dei giovani diciottenni, colpevoli soltanto di essersi voluti bene. Ragazze e ragazzi di quella che non si può chiamare una “comunità LGBTQIA+” in Iran. Perché nella moderna versione dell’antica Persia non è permesso amarsi se non secondo i dettami di uno sciismo esasperato ed esasperante.

Dunque, premesso che detesto il regime teocratico, mi sembra però opportuno operare una distinzione tra Repubblica islamica e Iran. Non sono la stessa cosa, anche se sono afferenti, se, a far data dalla rivoluzione khomeinista, coincidono perché la popolazione è costretta a subire questa coincidenza. Non è una sottigliezza, ma un dato di fatto. Perché un conto è lo Stato erede di una cultura millenaria; un altro conto è il regime politico-religioso che lo controlla da mezzo secolo.

Questo regime è stato per oltre un anno solcato da grandi manifestazioni di piazza, da atti dimostrativi di un movimento di liberazione delle donne che si richiamava, fondamentalmente, ad un principio di laicità sul terreno dei diritti civili e umani. La repressione di Khamenei e dei suoi Guardiani della Rivoluzione è stata spietata e, quindi, possiamo oggettivamente affermare che l’Iran di oggi non è riuscito a trasformarsi uno Stato moderno, sufficientemente democratico per come siamo abituati noi occidentali a pensare e praticare la democrazia.

A dire il vero lo facciamo malamente, perché ne pieghiamo i valori fondamentali ai privilegi mercatisti, capitalisti e finanziari cui i governi devono fare da comitati di affari pubblici per interessi privati. E lo fa molto male anche Israele, che si picca di essere l’unica democrazia del Medio Oriente e che, reagendo al massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, scatena una guerra totale contro il popolo palestinese radendo al suolo ogni forma di comunità e di vita presente nella Striscia di Gaza.

Ciò che differenzia Israele dall’Iran della Repubblica islamica è la dialettica parlamentare, le elezioni più o meno libere, ma non certamente tutto il resto: non l’attitudine imperialista che è all’origine dell’occupazione permanente della Palestina; nemmeno il regime di privazione della libertà cui costringe i cisgiordani e i gazawiti da decenni. E tanto meno il sistematico apartheid, di chiara matrice razzista e suprematista sionista, cui sottopone tutti i palestinesi.

La Knesset, la libertà di stampa (diciamo la presenza di “Haaretz” e di altri quotidiani che osano criticare il governo criminale di Netanyahu) e un pluralismo dei diritti entro i confini dello Stato ebraico permettono ancora di consideralo una potenziale democrazia. In potenza, ma sempre meno in atto.

Il settantennale conflitto con l’OLP, l’ANP e ora con Hamas, il disegno di un espansionismo a scapito dei diritti fondamentali dei popoli che gli stanno intorno, è uno dei principali fulcri della destabilizzazione permanente della regione mediorientale in cui l’Iran occupa un posto di primo piano. I giornali italiani titolano: “L’Iran attacca Israele“. Forse sarebbe più corretto scrivere: “L’Iran risponde all’attacco di Israele contro la rappresentanza diplomatica a Damasco“.

Troppo lungo? Tutte scuse, perché allora si può sintetizzare così: “L’Iran replica all’attacco israeliano“. Ma, titoli a parte, se un attacco come quello portato dal governo di Netanyahu ai palazzi delle ambasciate della Repubblica islamica lo avesse invece fatto quest’ultima contro lo Stato ebraico? Cosa avrebbe commentato il perbenismo democratico del Sacro Mondo Occidentale? Non si sarebbero scatenate le indignate cancellerie di mezzo mondo, tanto quanto si stanno sdegnando ora, mentre i droni ipersonici passano su un Iraq su cui si alzano in volo caccia statunitensi e francesi per intercettarli?

Ovunque si leggano notizie è guerra. Ovunque ci si volti è guerra. La pandemia non ha insegnato nulla a questa umanità trimillenariamente fratricida. È la dialettica omicidiaria del capitalismo che utilizza il bellicismo, e si fa tale, per regolare i conti tra i poli nella nuova contesa multipolare. Perché a fare le spese di tutto ciò sono i popoli, i miserabili moderni. Non i grandi ricchi, nemmeno i governi.

Ma quale è realmente, in questo preciso momento, il disegno del gabinetto di guerra israeliano? Attaccando il consolato iraniano a Damasco, Netanyahu, Gantz, Smotrich e altri della loro risma sapevano benissimo che gli ayahtollah non sarebbero stati a guardare. Ma, in fondo, quale Stato assisterebbe passivo alla devastazione di quello che, almeno secondo il diritto internazionale, è un pezzo di territorio dello Stato stesso in sua rappresentanza in uno estero? Chiunque in qualche maniera reagirebbe.

Ad un osservatore esterno tutto ciò può sembrare, seguendo un briciolo di logica dettata dall’epifenomenico “cui prodest” che si accompagna sempre alle dichiarazioni ufficiali di capi di Stato, di eserciti e di milizie non bene inquadrate, una tattica che ubbidisce ad una strategia di più lungo corso e di prospettiva molto poco visibile qui ed ora.

Sembra quasi che il governo israeliano voglia provocare la Repubblica islamica ad una reazione che determini un salto di qualità del conflitto in atto e delle tensioni aumentate con Siria, Libano ed Iraq (quindi con la presenza delle milizie sciite para-iraniane presenti negli ex territori del Califfato nero del DAESH), in parte per riconsolidare un fronte interno ultra ortodosso che si sta frantumato a causa dell’allungarsi della guerra contro Gaza.

In parte per legare sempre più a sé un’America che sostiene Israele nella difesa ma che, a detta di Biden, non intende sostenerlo in una successiva eventuale reazione militare. Motivo per cui, tuona Donald Trump, se ci fosse stato lui alla Casa Bianca non si sarebbe alzato nemmeno un drone dalle basi iraniane verso lo Stato ebraico. Netanyahu gioca su queste contraddizioni a stelle e strisce, in vista della campagna elettorale presidenziale d’autunno, sperando di durare fino ad allora.

La protesta contro il suo governo non riguarda più soltanto l’ampio schieramento civile formato dalla perseveranza in piazza delle famiglie degli ostaggi di Hamas. Ora sono anche le faglie interne al sionismo ad essere un problema per la stabilità di un governo di estremissima destra, di un gabinetto militare che ha praticamente isolato Israele da buona parte della comunità internazionale, a partire dal consesso delle Nazioni Unite.

Non solo a Tel Aviv non si parla di alcun “cessate il fuoco” richiesto (e imposto) dalle decisioni dell’ONU, ma si agisce su vasta scala, coinvolgendo paesi terzi, quarti e quindi in una deriva bellica che infiamma il Medio Oriente dal Mediterraneo al Golfo di Aden e da questo a quello Persico. Se il piano di Netanyahu è quello di tentare di creare una crisi della società iraniana che detronizzi gli ayatollah, il rischio che si ritorca contro ad Israele è altissimo.

Hezobollah sul fronte nord, Gaza a sud, Cisgiordania ed Iran ad est, Houthi ancora più a sud come blocco navale, non si tratterebbe più di sindrome da accerchiamento, bensì di ricerca dello stesso per far accorrere la comunità internazionale e precipitarla in un conflitto molto più esteso di quello limitato (si fa per dire) alla sola Palestina. Se l’intenzione del governo israeliano fosse questa (e parrebbe davvero esserlo), saremmo innanzi ad una politica criminale di guerra.

Dal 7 ottobre ad oggi, i morti palestinesi hanno superato il numero di trentaquattromila. Più di un terzo sono bambini e ragazzi, Intere famiglie e comunità sono state letteralmente cancellate dalla faccia della Terra. L’intento entocidiario si concretizza nella minaccia di aggressione a Rafah e, mentre tutto questo imperversa nella precaria condizione israeliana, il gabinetto di guerra decide di estendere la stessa, di allargarla a dismisura.

L’eccessiva sicurezza mostrata da Tel Aviv, visti i precedenti del 7 ottobre, ha già pagato un prezzo alto in termini di vite. Ma questo pare sempre più un effetto considerato collaterale e insito nel contesto di un conflitto così massacrante. Se la Repubblica islamica avesse davvero voluto colpire Israele, avrebbe utilizzato non i droni ma missili che non consentono una previsione di difesa temporalmente ampia.

L’avvertimento dunque è stato dato e ha avuto come effetto quello di dividere il gabinetto di guerra tra i più intransigenti che vorrebbero una risposta ancora più feroce dell’attacco al consolato iraniano a Damasco, ed altri ministri che sono più cauti nel merito della questione. Ma mentre scrivo queste ultime righe, le notizie di un imminente rappresaglia di Tel Aviv contro Teheran si diffondono su X e sulle principali testate internazionali. Gli Stati Uniti tornano a precisare che, se risposta sarà, sarà senza il loro sostegno.

Le ipocrisie si sprecano nelle dichiarazioni d’oltreoceano: «Gli Stati Uniti sono impegnati per la sicurezza di Israele, per un cessate il fuoco che riporti a casa gli ostaggi. Siamo determinati ad evitare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente» (Joe Biden, 15 aprile 2024); «Il governo israeliano deciderà da solo se ci sarà una risposta all’attacco iraniano e quale sarà la risposta» (John Kirby, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale USA, 15 aprile 2024).

Come se fino ad oggi il governo di Washington non avesse foraggiato di soldi e armi lo Stato ebraico, così come ha fatto anche l’Italia ben oltre il fatidico, tragico, funereo 7 ottobre 2023, sostenendo quindi la brutale aggressione contro Gaza. Il cielo si fa ben più che grigio. Proprio nero. Sono purtroppo solo i lampi dei missili e delle contraeree che lo illuminano. E la ricerca della pace sprofonda sempre più sotto il peso degli interessi economici, delle brame di potere, di una politica tutta dedita alla banalità del male.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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