«La violenza non è mai accettabile» afferma la Presidente della Crui, Iannantuoni; è «vergognosa» fa eco la ministra dell’università, Bernini. Sono d’accordo, con una precisazione: in uno Stato democratico deve essere garantito lo spazio per l’espressione pacifica dei conflitti e sono i manganelli contro studentesse e studenti a non essere accettabili. Sono «un fallimento» aveva detto il presidente della Repubblica. Non è accettabile la violenza fisica della polizia così come non è accettabile la violenza verbale sottesa al qualificare come “delinquenza” le manifestazioni. Chi occupa posizioni di potere, come la Presidente del Consiglio, può ovviamente obiettare a chi contesta, ma sempre nel presupposto che in uno Stato democratico il dissenso è non solo legittimo ma necessario. Definire i manifestanti “delinquenti”, o intolleranti e antisemiti (e qui si mescolano malafede, ignoranza e strumentalizzazione), delegittimandoli, ferisce la democrazia. Se vi sono atti che integrano fattispecie di reato saranno perseguiti per le vie ordinarie (ferma restando la critica all’accanimento nei confronti dei reati legati alla protesta), ma quando le istituzioni criminalizzano coloro che contestano esercitano una violenza verbale. È una delegittimazione funzionale alla privazione dei diritti. Il laboratorio “migranti” insegna.
Ogni scelta politica, che sia la delibera del Senato accademico della Sapienza di Roma, un provvedimento del Governo o del Parlamento, seppur valida in quanto assunta secondo le procedure democratiche previste, non è per questo sottratta alla discussione e alla contestazione. Sembra ovvio, ma a quanto pare non lo è.
La democrazia è conflitto e il dissenso ne è elemento coessenziale. Il processo di integrazione e mediazione politica, per quanto includente possa essere – e, per inciso, non lo è (…e non abbiamo ancora il premierato) – non esaurisce la partecipazione. La democrazia si esprime nelle forme rappresentative, così come dal basso, attraverso l’esercizio dei diritti costituzionali, in primo luogo quelli legati al conflitto: lo sciopero, l’espressione del pensiero, la manifestazione. Sono concretizzazioni della partecipazione effettiva, che è il cuore, insieme strumento e obiettivo, della democrazia.
Oggi un potere sempre più intollerante ai suoi limiti e alle contestazioni chiude gli spazi politici, anche attraverso atti riconducibili alla “violenza istituzionale”, quali, per restare alle ultime di cronaca, le manganellate e la criminalizzazione degli studenti e le querele per diffamazione contro la critica politica. Studentesse e studenti che manifestano esercitano diritti costituzionali, materializzano la democrazia, rendono effettiva la partecipazione, restituiscono alle università il loro ruolo di costruzione di sapere critico. La libertà di ricerca e di insegnamento non è accettazione dell’esistente nella finzione della neutralità, ma azione di discernimento, discussione, consapevole scelta: non prendere posizione non è imparzialità ma adesione al pensiero dominante. Aggiungo che, nello specifico, la mobilitazione per la Palestina contribuisce a spezzare la tragica ignavia di una società che assiste muta a un genocidio in diretta, per (non) tacere del fatto che stiano – stiamo – chiedendo il rispetto del diritto internazionale contro politiche dei Governi di Israele, queste sì, di violenza e sopraffazione, proterve nel ritenersi immuni dal diritto e dai diritti.
Quanto alla libertà di manifestazione del pensiero, «pietra angolare dell’ordine democratico» (Corte costituzionale), se pensiamo al caso Meloni contro Canfora, incontriamo il limite legato alla tutela della persona e della sua dignità, ma, al di là della pertinenza dello specifico termine “neonazista”, quando le critiche concernono le istituzioni, prevale, anche in relazione alle persone che le ricoprono, il diritto di critica politica.
I diritti sono strumenti controegemonici, contro il potere, contro il pensiero dominante. Se l’ordine pubblico o la pacifica convivenza all’interno delle università esigono l’identificazione con la “ragione di Stato” (o, più modestamente, del Senato accademico), le libertà costituzionali perdono il loro senso e si palesa l’arroganza di un potere che mira a imporre uno stato di passività e acquiescenza. Evitiamo che diventi senso comune, accettabile e legittima, la risposta istituzionale violenta quando le libertà, come è nella loro natura, vengono esercitate in senso antagonista.