Per portare alla luce le cose che non vanno, spesso, servono le tragedie. È capitato così nel 1911, quando prese fuoco la fabbrica Triangle a New York, sweatshop dell’epoca, una delle prime fabbriche di abbigliamento esternalizzato; fu un disastro, dove rimasero uccisi più di cento operai, tenuti letteralmente sotto chiave dai capi per paura che rubassero. Organizzazioni sindacali, leggi sul salario minimo e leggi sul lavoro, nel corso degli anni, hanno cercato di disciplinare le condizioni di questa moderna forma di schiavitù. Purtroppo, però, mentre nei Paesi “sviluppati” qualcosa s’iniziò a muovere, in quelli in via di sviluppo, dove è stata piano piano delocalizzata la produzione, la situazione è rimasta più o meno la stessa. E così arriviamo al 2013, anno in cui il 24 aprile a Dhaka, in Bangladesh, la fabbrica del Rana Plaza complex si accartocciò su se stessa, crollando e portando via con sé 1138 persone, ferendone altre 2000, tra le macerie e i capi dei marchi occidentali più famosi. Senza dubbio la più grande tragedia del mondo del lavoro del nostro secolo.
Una forte scossa che ha costretto molti ad aprire gli occhi e a vedere le cose che “si sanno” ma che per comodità facciamo finta che non esistano. Un evento che poteva essere evitato: crepe evidenti nella struttura erano apparse nei giorni precedenti e, mentre le banche e gli uffici dei piani inferiori quel giorno decisero di rimanere chiusi, ai piani alti la produzione continuò imperterrita. Gli operai, moltissime donne, furono costretti ad andare al lavoro, pena la perdita di un intero mese di salario. Intorno alle nove di mattina il palazzo crollò, schiacciando la vita di migliaia di persone sotto il peso del cemento, dei macchinari e dell’assenza di una tutela. Chi è sopravvissuto l’ha fatto riportando notevoli danni, fisici ma soprattutto psicologici, legati a un ricordo pesante sotto tutti i punti di vista. Questo scempio portò all’attenzione mondiale tutta una serie di temi per i quali associazioni, attivisti e addetti ai lavori, hanno iniziato a mobilitarsi per rivendicare i diritti dei lavoratori del tessile e un’industria onesta ma prima di tutto responsabile.
Grazie al lavoro di associazioni come Clean Clothes Campaign, Abiti Puliti, Worker Right Consortium e l’Organizzazione Internazionale del lavoro, dei passi in avanti sono stati fatti, principalmente per i temi legati alla sicurezza e alla salute. È stato redatto e firmato da 192 marchi un Accordo internazionale che ha, di fatto, trasformato l’industria tessile del Paese; sono state circa 1600 le fabbriche messe in sicurezza con preventivi interventi di ristrutturazione e milioni di lavoratori e lavoratrici di questo settore possono finalmente accedere a meccanismi di reclamo (fino a ora vietati) e ai sindacati (che cominciano ad avere un peso). È stato inoltre stabilito un fondo per risarcire le famiglie delle vittime e i lavoratori rimasti danneggiati dal crollo, ma ci sono voluti due anni per convincere i marchi che si rifornivano nelle fabbriche del Rana Plaza a versare un importo degno – che alla fine dei conti troppo degno non è stato perché basato sui salari (ridicoli) locali. Piccole conquiste sono state raggiunte, con fatica, nel corso di questi anni; il salario minimo viene rivisto ogni cinque anni ma, sebbene aumentato, rimane comunque una paga di povertà (ed è quella attualmente in vigore). La libertà di associazione, che ha visto la nascita di nuovi sindacati nei primi anni dopo il crollo, ha subito una nuova battuta d’arresto, con pesanti pressioni finite in repressioni e rappresaglie. Bene, ma non benissimo. La strada è ancora lunga e tanti, troppi, sono i marchi che fanno finta di non capire e continuano ad approfittare di questa vantaggiosa situazione produttiva senza assumersi le proprie responsabilità. Per molti, sfruttare senza ritegno le persone per trarne vantaggi economici è una strategia. In realtà si tratta di un crimine in piena regola!
Un meccanismo al quale sembra difficile rinunciare, almeno quanto sembra difficile disciplinarlo, sia a livello locale sia a livello internazionale. Per quanto le fabbriche bengalesi abbiano investito in miglioramenti strutturali e leggeri aumenti salariali, i clienti occidentali continuano a giocare al ribasso. Lontani dagli obiettivi dei fotografi, i commerciali delle grandi aziende non sembrano essere disposti a pagare quel poco in più sui prezzi dei loro ordini, mettendo in atto una politica di ricatti (se aumenti il prezzo sposto la produzione in un altro paese) nemmeno troppo silenziosi che minaccia l’economia locale e rallenta la messa in regola del settore. Una trasformazione millantata e promossa nei comunicati riguardanti gli impegni di sostenibilità, ma di fatto ostacolata da un costante, scorretto, gioco al ribasso (spesso si tratta di soli 10 centesimi di più al pezzo).
Proprio per questo, le lotte, anche dopo undici anni, continuano imperterrite. A ottobre dello scorso anno l’Accordo sul tessile è stato rinnovato, nuovamente firmato e sottoscritto da quelle 192 aziende più le dodici che ancora non l’hanno fatto (nominate da Abiti Puliti “la sporca dozzina”, tra le quali figurano Amazon, ASDA, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi’s, Target, Tom Tailor, URBN (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart). Quello che queste persone chiedono è la restituzione di una dignità, in quanto esseri umani e in quanto lavoratori. Garanzie minime, salari dignitosi e la possibilità di associarsi per far fronte comune e far valere i propri diritti. Tutte cose che dovrebbero essere la norma ma che, purtroppo, sono ancora obiettivi da raggiungere con sudore e fatica. Almeno speriamo senza sangue. Che di vittime del sistema moda non ne abbiamo più bisogno.
[Marina Savarese]