Interno della sede delle Nazioni Unite © Matthew TenBruggencate/Unsplash

I dipendenti della Science Based Targets initiative denunciano il cda: ha autorizzato i carbon credits per raggiungere gli obiettivi Scope 3

Luca Pisapia

Altro che lotta contro i cambiamenti climatici, qui si fa greenwashing per conto dei grandi fondi d’investimento. La campagna delle Nazioni Unite per la riduzione delle emissioni di CO2 va in ebollizione. I dipendenti si ribellano e accusano il management, chiedendo le dimissioni dell’amministratore delegato. Tutto ciò accade all’interno della Science Based Targets Initiative (SBTi), creata dopo l’Accordo di Parigi del 2015 dal Global Compact delle Nazioni Unite, dal World Resources Institute e dalle organizzazioni non governative Carbon Disclosure Project (Cdp) e Wwf. I dipendenti hanno accusato il consiglio di amministrazione di «mancato rispetto delle procedure operative standard e dei processi di governance».

Perché quello che è successo ha dell’incredibile. Il cda della Science Based Targets initiative ha annunciato l’intenzione di autorizzare le aziende che si rifanno ai suoi principi, e che per questo sono considerate green, a utilizzare i crediti di CO2 per raggiungere gli obiettivi di riduzione di emissioni Scope 3. Ovvero le emissioni che non sono generate direttamente dalle aziende, ma dal corollario: forniture, trasporti, smaltimento e così via. Che sono poi la maggior parte. Così facendo, però, l’azienda non riduce realmente le emissioni, ma paga qualcuno che gestisce un progetto, legato per esempio alle energie rinnovabili o alle foreste, da tutt’altra parte. Una decisione assurda, che getta in mare (in senso non solo figurato) decenni di lotte ambientaliste.

Il certificato verde che autorizza il greenwashing

«Pur riconoscendo che esiste un dibattito costruttivo sull’argomento si riconosce che, se adeguatamente supportato da politiche e procedure basate su prove scientifiche, l’utilizzo dei crediti nell’ambito della riduzione delle emissioni di Scope 3 potrebbe funzionare come strumento aggiuntivo per combattere i cambiamenti climatici». È scritto nell’irricevibile comunicato della direzione della Science Based Targets initiative. In pratica un via libera allo scambio dei crediti, di modo da poter inquinare sempre di più senza perdere il prestigioso bollino di azienda green certificato nientemeno che dall‘Onu.

Ma la risposta, per fortuna, non si è fatta attendere. I tecnici e gli scienziati che lavoravano al programma si sono ribellati. Hanno accusato il cda di avere fatto tutto da solo, senza averli consultati e contravvenendo così alle regole interne dell’organizzazione. E soprattutto di avere fatto una cosa senza senso. «È chiaro che non potrò continuare a lavorare con il technical advisory group (TAG) dell’organizzazione. Non parteciperò a un processo di standardizzazione che potrebbe potenzialmente coprire un’operazione di greenwashing». Lo ha dichiarato Paul Schreiber, membro del TAG di SBTi e analista di Reclaim Finance.

Crediti e compensazioni non riducono affatto le emissioni

Ancora più duro César Dugast, co-responsabile della divisione Carbon Neutrality di Carbone4, che in un lungo post su LinkedIn ha definito la decisione del board della Science Based Targets initiative come «estremamente problematica dal punto di vista scientifico». Spiegando poi come ci sia «un’ampia letteratura accademica che dimostra la mancanza di solidità del mercato dei crediti e delle compensazioni. E l’incapacità stessa delle compensazioni di sostituire alla fonte le reali riduzioni di emissioni».

«I fondi e le grandi imprese avranno ora la possibilità di ridurre artificialmente le emissioni indicate nei loro bilanci senza che ciò comporti il ​​minimo beneficio per il clima», continua César Dugast. «Questo è un caso da manuale di come il grande capitale possa influenzare la società civile fino a distruggere la sua stessa ragion d’essere. Con questa decisione, SBTi rinuncia alla sua missione di contrappeso nei confronti delle aziende, di bussola verso il benessere globale e di salvaguardia contro il greenwashing». Anzi, si trasforma proprio in uno strumento per fare greenwashing. Un grande pennello per una grande parete, come diceva un’antica pubblicità.

I soldi di Jeff Bezos dietro alla Science Based Targets initiative

I soliti discorsi demagogici contro il capitalismo? Non proprio, se è nientemeno che il Financial Times a rivelare che dietro questa assurda scelta di Science Based Targets initiative ci sono le pressioni, e i soldi, dei grandi fondi d’investimento. Il quotidiano della City infatti rivela che il documento del cda sulla possibilità di acquistare crediti per risultare ecologici arriva dopo due giorni di discussioni a Londra con i rappresentanti dell’Earth Fund. Ovvero il fondo d’investimento in progetti ambientali del valore di dieci miliardi di dollari messo su da Jeff Bezos, grande feudatario del nostro medioevo tecnologico.

E l’Earth Fund due o tre cose al cda di SBTi le può dire, essendo uno dei due maggiori finanziatori dell’iniziativa insieme all’Ikea Foundation. Mentre tra i finanziatori minori si trovano altri nomi come Rockefeller Brothers Fund e UPS Foundation. Insomma, il gotha della finanza mondiale, che non vedeva l’ora di dirsi da sola che avrebbe potuto continuare a inquinare, senza dover intervenire drasticamente sui modi di produzione per ridurre le emissioni. E soprattutto che non vedeva l’ora di continuare a inquinare risultando verde e pulita, grazie ai prestigiosi certificati verdi della campagna delle Nazioni Unite da loro stessi sovvenzionata.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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