«Tra rappresentanza e democrazia è in corso un divorzio»: è netto il giudizio espresso da Valentina Pazé nelle pagine di apertura del suo ultimo libro, I non rappresentati. Esclusi, arrabbiati, disillusi (Ega, Torino 2024, 144 pp., euro 14), una riflessione incalzante sull’astensionismo, ma più in generale sulla disaffezione dall’idea stessa di partecipazione collettiva: probabilmente, il male principale della politica contemporanea. Rappresentanza e democrazia non per forza si implicano reciprocamente. Rappresentare può significare molte cose diverse. Nel suo studio di riferimento sull’argomento, Hanna Pitkin distingue quattro possibili concezioni di rappresentanza: (1) formale: agire per conto di altri, con loro autorizzazione (dal basso); (2) sostanziale: agire per conto di altri, senza loro autorizzazione (dall’alto); (3) descrittiva: stare per conto di altri (renderli presenti) “a specchio” (rappresentanza plurale); (4) simbolica: stare per conto di altri (renderli presenti) carismaticamente (rappresentanza singolare). La prima – quella formale – è la concezione su cui si sofferma Pazé, perché è quella che più si presta a essere configurata democraticamente (mentre oggi a dominare è la quarta: l’idea che la rappresentanza debba esaurirsi nella scelta di un capo).
Particolarmente delicato è il tema del mandato di cui sono investiti i rappresentanti. La critica proveniente da Sieyès e Burke, secondo cui solo l’assenza di ogni vincolo al mandato può consentire all’interesse oggettivo di prevalere sugli interessi soggettivi, non coglie nel segno. In realtà, non esiste un interesse oggettivo che trascenda gli interessi dei gruppi in cui si articola la società: scopo della rappresentanza è il compromesso tra chi la pensa diversamente e, poiché il compromesso può essere raggiunto solo a condizione di avere facoltà di cambiare posizione, il mandato dei rappresentanti non può che essere libero. Fondamentale – come già argomentava Kelsen – è che i rappresentanti siano organizzati in partiti politici strutturati (cosa che ostacola il trasformismo egoistico che altrimenti il mandato libero rischia di alimentare) e che la legge elettorale sia proporzionale, perché nell’assunzione delle decisioni collettive nessuno deve “pesare” più della sua effettiva consistenza nella società. Democratico, in base a questi presupposti, andrà allora considerato il sistema in cui tutti coloro che sono tenuti a obbedire alle leggi (in quanto sudditi) hanno il diritto di contribuire, direttamente o indirettamente, alla loro elaborazione (in quanto cittadini). È questa la ragione per cui i non rappresentati – a cui è intitolato il libro – mettono in crisi il paradigma democratico.
Ma, chi sono i non rappresentati? L’autrice distingue tre categorie: coloro cui è negato il diritto di voto (gli esclusi di diritto); coloro che sono privati di rappresentanti dal sistema elettorale (gli esclusi di fatto); coloro che si autoescludono dalla rappresentanza (gli autoesclusi).
Esclusi di diritto sono gli stranieri. Ma perché sono esclusi? «Ciò su cui mi sembra interessante riflettere – scrive Pazé – è l’assenza di qualsivoglia motivazione a sostegno di questo tipo di esclusione». Se in passato le esclusioni di diritto dei poveri e delle donne erano motivate da incapacità (stato di minorità), dipendenza (dai datori di lavoro o dai mariti), disinteresse (dal momento che si riteneva che cuore dell’attività politica fosse occuparsi di proprietà), già in Aristotele – al cui pensiero il libro dedica un approfondito excursus – l’esclusione degli stranieri rimane immotivata: esattamente com’è oggi.
Gli esclusi di fatto sono tali per effetto della forma di governo e della legge elettorale. Mentre i sistemi presidenziali sono strutturalmente escludenti (escludono i sostenitori dei candidati presidente sconfitti), quelli parlamentari tendono a essere includenti, a condizione che la legge elettorale sia proporzionale (il maggioritario esclude i sostenitori dei candidati parlamentari sconfitti nei collegi). I sistemi presidenziali sono rigidi, non contemplando la possibilità di crisi politiche, e inclini alla rappresentanza simbolico-carismatica: un’accoppiata pericolosa in caso di presidente incapace, inaffidabile, pazzo o criminale (ipotesi sempre meno infrequenti…). Non a caso il sistema presidenziale ha funzionato negli Usa e in Francia finché vi è stata omogeneità politica di fondo, mentre la polarizzazione in atto tende a mostrarne tutti i limiti. Nei sistemi parlamentari a incidere sulla torsione escludente è soprattutto la polemica contro i partiti politici, che in Italia si è espressa, e si esprime, in due filoni: l’antipartitismo, che dall’Uomo qualunque arriva al Movimento 5Stelle; e la democrazia d’investitura, che dalla “grande riforma” di Amato e Craxi arriva all’odierno premierato. E non è senza rilievo il fatto che dall’introduzione del maggioritario a oggi quasi tutti i Governi che si sono succeduti – incluso quello in carica – abbiano goduto dell’appoggio di una minoranza del corpo elettorale: tecnicamente, si tratta di Governi anti-democratici.
Infine, gli autoesclusi, vale a dire gli astenuti, in relazione ai quali la questione è se siano tali davvero per loro scelta. L’astensione è un fenomeno disomogeneo, alimentato da sentimenti politici diversissimi: alcuni si astengono per apatia, altri, all’opposto, per protesta. E, tuttavia, è un dato di realtà che la gran parte degli astenuti siano persone socialmente svantaggiate. Come scrive Pazé, a colpire è soprattutto «il fatto, per molti versi sorprendente e paradossale, che coloro che oggi sembrano non volere essere rappresentati corrispondono, ormai da qualche decennio, a coloro a cui un tempo la partecipazione era negata» di diritto. Per i titolari del potere, è tutt’altro che un problema. Le tesi di Stuart Mill sul voto plurimo, la polemica di Schumpeter contro il «cittadino medio», il rapporto alla Trilateral Commission sull’«eccesso di democrazia» si sposano perfettamente con la visione degli odierni fautori della tecnocrazia neoliberista, per i quali è compito dei «migliori» proteggere il popolo dai suoi stessi errori.
Costruire nuove forme di aggregazione politica, capaci di produrre inclusione sociale così come un tempo la producevano i partiti, sarebbe necessario, ma ad agire da ostacolo – spiega Pazé – è l’ormai dominante «singolarismo radicale», versione estrema dell’individualismo che, reclamando immediatezza contro il compromesso e l’intermediazione, risulta naturalmente esposto alle sirene della democrazia diretta, del sorteggio, della democrazia partecipativa. Il risultato è che sotto ai nostri occhi proliferano rivendicazioni microidentitarie, essenzialmente incentrate sul sé, mentre oggetto di rifiuto è la dimensione politica incentrata sul collettivo. Ricostruire la dimensione sovraindividuale è la sfida: il punto è tornare a comprendere che la politica non può limitarsi a registrare correttamente le istanze provenienti dalle singole componenti della società (cosa che, pure, oggi sarebbe già molto), ma deve ricominciare a elaborare identità sovraindividuali in cui le persone possano di nuovo trovare coscienza che i problemi che le hanno natura collettiva e sono, dunque, bisognosi di risposte collettive.