La Cortina di ferro era calata dal Baltico all’Adriatico, secondo la proverbiale definizione di Winston Churchill, e separava l’Europa orientale ad influenza sovietica da quella occidentale ad influenza statunitense. Il Patto di Varsavia da un lato e l’Alleanza atlantica dall’altro.
Dall’incipit questo sembrerebbe un articolo sulla guerra oggi nel cuore del Vecchio continente. Non è così.
Perché il rimando temporale al passato del confine tra i due mondi che si fronteggiavano nella sfida globale tra egemonie politiche, economiche e militari, ci serve per richiamare alla mente soltanto la spaccatura a metà di una Europa che sulla guerra è certamente più unita rispetto alla rivendicazione dei diritti civili per tutte le cittadine e tutti i cittadini dei Ventisette paesi che la compongono.
Veniamo al dunque. Il 17 maggio, come ogni anno, si celebra la Giornata mondiale contro qualunque forma di fobia nei confronti di chi non è, nello specifico, eterosessuale. Usciamo per un attimo dal concetto di “minoranza“, di “comunità“, di “gruppo” seppure allargato nella moltitudine e parliamo di “altri da noi stessi“.
Se, infatti, iniziassimo a pensare alle cosiddette “persone LGBTQIA+” come non ad una sigla acronima con un segno matematico davanti, ma come una parte importante dell’intera società, forse partiremmo da un punto di considerazione differente rispetto a quello che ci viene praticamente imposto dalla presunzione maggioritaria di una certa incultura della reciprocità, del confronto, del sentirsi tutte e tutti parte di un insieme variegato e non per questo assurdo.
In occasione della Giornata mondiale contro l’omo-bi-lesbo-trans-fobia (un nome composito ma piuttosto esplicativo) i paesi europei hanno deciso di redigere una dichiarazione, una formulazione di impegni a proseguire, dopo le elezioni che si terranno tra il 6 e il 9 giugno negli Stati membri dell’Unione, nella direzione del consolidamento e dell’ampliamento dei diritti di tutte e tutti coloro che non sono eterosessuali e che, per questo, sono spessissimo oggetto di discriminazione, odio, cattiveria molesta, repressione e atti di violenza morale, psichica e fisica.
Leggiamo brevemente il testo proposto dalla presidenza belga dell’Unione Europea:
«[gli Stati membri] si impegnano in particolare ad attuare strategie nazionali per le persone LGBTIQ+ e a sostenere la nomina di un nuovo Commissario per l’uguaglianza quando sarà formata la prossima Commissione. Chiedono inoltre alla Commissione di perseguire e attuare una nuova strategia per migliorare i diritti delle persone Lgbtiq+ durante la prossima legislatura, stanziando risorse sufficienti e collaborando con la società civile».
Il governo italiano, mentre il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si esprimeva più o meno negli stessi termini della presidenza della UE, sollecitando proprio le istituzioni del Bel Paese ad andare nella direzione della sempre maggiore tutela delle differenze, delle minoranze e delle peculiarità che sono una ricchezza per l’intera comunità nazionale, si adoperava in una dichiarazione di prammatica.
Una dichiarazione che sarebbe potuta apparire persino autoironica immediatamente dopo la notizia che proprio l’Italia non avrebbe firmato la dichiarazione congiunta per i diritti delle persone LGBTQIA+, condividendo la sorte con Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Cechia e Slovacchia. Eccola la nuova cortina di ferro dei pregiudizi anti-gender, di coloro che orbanizzano davvero il nostro Paese e lo trascinano nella retrività più vera.
Dei paesi più grandi ed importanti sul terreno economico della UE, l’Italia è quello che si discosta dalla parte occidentale, fondatrice del MEC prima, della CEE poi e infine di questa Unione che ha inglobato frettolosamente i paesi dell’Est tutt’altro che propensi ad una amalgama onesta e sincera con la pur flebile applicazione dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, di chiunque viva nel Vecchio continente.
La ministra per la famiglia e le pari opportunità (una accezione che fa piuttosto amaramente sorridere), Eugenia Roccella, ha tentato la giustificazione impossibile: il testo della presidenza europea sarebbe una sorta di nemesi della legge Zan contro tutti coloro che vogliono evitare che la teoria gender prenda campo e, quindi, si neghino, nella sostanza, il femminile e il maschile nella società.
Lo sbilanciamento sull’”identità di genere” è la mosca salta al naso del governo, nonostante Giorgia Meloni vada sui social a proclamare che il suo governo farà tutto, ma proprio tutto quello che è possibile fare per tutelare e riconoscere pienezza di diritti sociali, civili e morali alla comunità LGBTQIA+.
L’Italia da oggi sceglie il campo orbanista, sceglie la considerazione dell’omosessualità, della bisessualità, della transessualità come dei fenomeni patologici innaturali, quindi come delle devianze e non come delle convergenze di fattori endogeni nell’individuo che, quindi, non sceglie, ma vive con sé stesso quei mutamenti del suo carattere, del suo desiderio, dalla sua vita che procede e che ha il diritto di non essere repressa dalla società.
La cortina di ferro moderna che separa l’Europa egualitaria sul piano dei diritti civili da quella esclusivamente eterosessualista, familistico-religiosa e normocratica passa non più per la linea da Stettino a Trieste, ma dai Vilnius fino a Ventimiglia, passando tortuosamente vicino ai confini della guerra, zigzagando tra una serie ininterrotta di pregiudizi che si rifanno al modello trittico “Dio, Patria, Famiglia“, laddove le maiuscole intendono il vero dio, la vera patria (sempre la propria…) e la vera famiglia, rigorosamente composta da un uomo e da una donna.
La ministra Roccella afferma che la dichiarazione europea, votata favorevolmente da Belgio, Polonia, Danimarca, Cipro, Irlanda, Grecia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Malta, Estonia, Austria, Finlandia, Germania, Portogallo, Slovenia, Francia, Svezia, Spagna, pretende di negare i generi e introdurre una fluidità degli stessi che creerebbe una confusione aprioristica, una intenzionalità a squadernare le carte dell’eterosessualismo, della struttura genitoriale della famiglia, della psicologia tanto infantile quanto di quella adolescenziale.
È la teorizzazione di una teoria-gender che non è mai esistita se non come costrutto delle destre per dare battaglia ad una contraddizione oggettiva dei presupposti pregiudiziali nei confronti delle differenze tutte: a cominciare da quelle in ambito sessuale per proseguire con quelle etniche.
Una Europa che stabilisce un forte grado di connessione tra uguaglianza e diritti civili, quindi assume una postura di indistinzione in merito, rischia di smontare l’assunto portante di una fenomenologia autoindotta e che non trae nessuna origine dalla concretezza reale.
Nessuno intendeva e intende negare, nell’affermare i diritti civili di ciascuno e di tutti, altri diritti. Esponenti di Fratelli d’Italia girano per le televisioni e proferiscono frasi del tipo: «È già successo che la rivendicazione dei diritti delle minoranze abbia finito con l’essere la leva per l’attacco a quelli delle maggioranze, mettendo così in crisi modelli millenari e tradizioni che lo erano altrettanto».
L’esponente del partito meloniano che ha proferito queste frasi su Rai3 di primo mattino, forse non tiene conto del fatto che la Storia stessa dell’umanità è fatta da minoranze che, indubbiamente, per il modificarsi dei rapporti di forza hanno realizzato delle vere e proprie “rivoluzioni“, cambiando così il corso degli eventi. A volte in meglio, altre volte meno, ma si tratta di processi cui non si pone un freno per decreto, oppure non firmando la dichiarazione europea per l’applicazione di politiche di uguaglianza e di tutela del mondo LGBTQIA+.
Qui la destra, più ancora che sul piano dell’intervento strutturale economico, della saldatura tra liberismo e Stato, tra privato e pubblico piegato al primo, mostra tutta la sua indole nettamente conservatrice e reazionaria. Indubbiamente, il paio con l’ingiustizia antisociale che porta avanti con le politiche di subalternità all’economia di guerra da un lato e quelle finanziarie della BCE dall’altro, l’effetto deflagrante per l’insieme dei diritti è devastante.
Fino ad oggi, pur con tutti i segni di una più che evidente insofferenza nei confronti delle diversità tanto dei singoli quanto delle famiglie “non tradizionali“, uno scarto così netto tra l’Italia e i paesi occidentali dell’Unione non si era avuto su una proposizione di base che chiede l’applicazione pratica di atti che rendano sempre più presente una cultura dell’uguaglianza rispetto a quella degli stigmi nelle nazioni e nel contesto europeo.
Questa vicenda riporta in auge anche il dualismo tra Quirinale e Palazzi Chigi che, seppure nella reciprocità del mantenimento della cortesia istituzionale, segna una netta antitesi nell’interpretazione dei valori costituzionali e nella loro realizzazione pratica giorno per giorno.
Quando si ciancia di premierato, negando che la Presidenza della Repubblica sarebbe amputata di gran parte dei suoi poteri e del suo ruolo di garanzia, si dovrebbe tenere conto non solo degli aspetti più tecnici, ma anche di quelli politici.
La figura del Capo dello Stato non è un qualcosa di affidato alla formalità pura e semplice. E’ sostanza nell’essere la convergenza di uno spirito nazionale che deve uniformarsi al carattere democratico della Repubblica, perché prima di tutto rappresenta l’interezza del popolo e, quindi, ha come obiettivo la tutela degli interessi di tutti senza mortificare l’interesse di ciascuno.
Il governo, che dovrebbe avere uguale compito morale, civile e politico, può trincerarsi, nel disattendere in parte questa missione, nella sua nomina parlamentare che, a sua volta, è promanazione di una delega popolare parziale, seppure di maggioranza (relativa). In realtà, proprio per il compito della sfida, dovrebbe essere ancora di più l’esecutivo a dimostrare la terzietà di cui può farsi interprete e pareggiare con il Quirinale la rappresentanza di tutta la popolazione.
Per lo meno quando si tratta, come ha fatto la presidenza belga della UE, di diritti fondamentali, di diritti umani, di diritti civili. Non ci si aspetta che i diritti sociali vengano garantiti dalle destre che sono, al pari del centro, i capisaldi di difesa del privilegio di classe.
Mattarella ha detto: «L’Italia non è immune da episodi di omotransfobia e la violenza dei giudizi rappresenta un’offesa per l’intera collettività. Le istituzioni devono fornire alle nuove generazioni gli strumenti per comprendere le diversità». Una ammissione di autocosciente colpevolezza che quasi tutti dovremmo avere. Anche chi come vi scrive fa parte del mondo non eterosessuale, perché se vogliamo regalare agli altri un po’ di buonsenso, per primi a capire queste storture dobbiamo essere noi.
Noi che, secondo molti, siamo diventati omosessuali per scelta e non invece indirizzati da un complesso insieme di fattori biologici che influenzano fin da neonati il carattere e le propensioni, le voglie e i desideri. Quello che conta è che non c’è nulla di giusto nell’eterosessualità e nulla di sbagliato nell’omosessualità, nella bisessualità, nella transessualità e in qualunque altra espressione prenda la nostra intrinseca natura.
Questi due ultimi termini ci aiutano nell’esemplificazione: il genere non è sotto attacco. Come non lo è la maggioranza eterosessuale. Un tempo, forse ancora oggi… a sentire certi generali prestati alla politica, si pensava che «se fossimo tutti froci, non nascerebbero più figli». Era una iperbole che, però, veniva detta seriamente, escludendo che fosse un paradosso. Per ignoranza e per stupidità che ne discendeva.
Sappiamo che tutto ciò che è presente in natura è naturale. Quindi nessuno ha il diritto di dare patenti di giusto o sbagliato, addirittura di giustezza vincolata alla superiorità numerica e di erroneità legata a quello di inferiorità.
Se si fa un esame coscienzioso anche del linguaggio, ci si rende conto come le parole guastino il modo di vivere e di intendere le relazioni sociali. I concetti non sono astrazioni prive di significato. Li esprimiamo perché li associamo a cose, individui, animali umani o non umani che siano.
Quindi ogni volta che pensiamo ad un animale e lo chiamiamo spregiativamente “bestia” noi compiamo una discriminazione e una violenza: pensandoci superiori per diritto di esistenza, pensandoci proprietari di quell’animale, pensandoci gli unici legittimi abitatori di questo mondo. La stessa cosa, su piani differenti, avviene con i temi che concernono il genere, la sessualità, il colore della pelle, la cultura di una persona o di un intero popolo.
Le differenze trattate come lineette di un termometro della condivisione o dell’avversione tra simili cessano di essere un pluralismo di ricchezza globale e diventano un parametro di stigmatizzazione malevola, di specismo da un lato (se si considerano tutti gli esseri viventi) di razzismo e omobilesbotransfobia dall’altro (se ci si riferisce alla sola specie umana).
Strada lunga quella del riconoscimento reciproco di una uguaglianza in tutto e per tutto tra animali non umani e umani. Dobbiamo ancora arrivare a capire che tra di noi sapiens i diritti dovrebbero essere universali… Ma il problema è strutturale: senza giustizia sociale non c’è giustizia civile ed umana e, tanto meno, animale.
Senza una lotta contro questo capitalismo che rende dissimili per appartenenza economica, innalza i ricchissimi e precipita nell’inferno delle guerre e delle miserie i più poveri, non ci può essere vera liberazione dal bisogno nella sua più articolata complessità.
Una complessità che il conservatorismo delle destre nega, mentre la sinistra che potrebbe abbracciare questa importante lotta di libertà si invischia nelle maglie di compromissioni neogoverniste… La cortina di ferro dei diritti civili può essere spezzata. Le destre possono essere battute. Prima o poi lo saranno. Ma meglio prima che poi.
MARCO SFERINI