Di ritorno dalla capitale ungherese a seguito dell’ultima udienza, un aggiornamento sul processo, tra telefoni che squillano, indirizzi che non dovrebbero essere divulgati e una grande solidarietà

Quanti sono centoventi anni?

Tipo dal 1900 al 2020 sono 120 anni.

Nel 1900 ancora stavamo col carretto, ancora ci dovevano essere ben due guerre mondiali, ancora non esisteva l’AS Roma, ancora non c’erano stati Matteotti, Pasolini o che ne so, Mina e Celentano, ma nemmeno la televisione o milioni di altre cose. Insomma il 1900 è veramente lontano, lontanissimo, mentre il 2020 eccolo qua dietro, è appena passato, c’è stata la pandemia, è morto Kobe Bryant, è caduto il ponte Morandi di Genova, il movimento Black Lives Matter ha, tra le tante cose, cominciato a immaginare un mondo senza polizia e sono successe un sacco di altre cose.

Insomma centoventi anni sono un botto.

Sono esattamente gli anni che Ilaria Salis dovrebbe scontare ai domiciliari se calcoliamo che (in Ungheria) un giorno di galera corrisponde a cinque giorni ai domiciliari e vista la pena richiesta.

Ci pensate cosa significa svegliarsi la mattina e avere di fronte a sé questa prospettiva?

Io ci ho provato e l’ansia che già ho di mio stava diventando un attacco di panico.

Così la settimana scorsa, con altri (avvocati, parlamentari e politici, artisti, familiari e amici, militanti) siamo tornati a Budapest di nuovo, per dare il segnale che non abbiamo pensato che con la notizia dei domiciliari la cosa fosse in qualche modo finita.

Non è finita, è ancora molto lunga, è ancora molto complicata e sono coinvolte in questa storia altre 19 persone.

LO STATO DEL PROCESSO

Quello a cui abbiamo assistito oggi non si discosta per modalità dalla scorsa volta.

Il giudice che c’ha i capelli tipo i miei (ma i miei so mejo) inizia elencando una serie di cose su quello che si può fare e non si può fare in aula. Praticamente mezz’ora di minacce, se fate così so’ cazzi, se fate cosà so’ cazzi… Sbadigli, gente che dorme, giornalisti che prendono posto. Io capisco solo «spegnete la suoneria dei telefoni», il che mi pare una cosa sensata.

Il processo va per le lunghe e avrete letto già quale sia lo stato dell’arte. 

Gli avvocati hanno evidenziato alcune anomalie che elenco per punti:

– Ilaria a oggi non ha mai avuto i documenti processuali in lingua italiana e quindi non le è stato possibile difendersi. Per questo la difesa ha chiesto la sospensione del processo e il rinvio. Il giudice ci ha riflettuto circa quattro secondi e ha detto di no.

Squilla un telefono

– uno dei testimoni si è presentato dopo i termini in cui era possibile farlo, è stato comunque ammesso e si è costituito parte civile chiedendo un risarcimento intorno ai 25mila euro. Lui dice che nonostante gli otto giorni di prognosi poi, dopo tre mesi, si è fatto fare un nuovo referto e che sono usciti altri problemi. Qui andiamo sullo specifico e rischio di dire inesattezze quindi guardatevi il video dell’avvocato Eugenio Losco che è meglio. Il tipo ha chiesto anche il rimborso dei soldi del biglietto per venire all’udienza.

Evidentemente si percepisce un po’ come un autore che viene chiamato a fare una presentazione e chiede un rimborso alla realtà che lo invita. Oppure è un purciaro, non lo so.

Squilla un telefono

– il giudice in Ungheria, ho scoperto, è un po’ il tuttofare del tribunale. Fa le domande, fa un po’ il Pubblico Ministero, accende e spegne i microfoni, gira le telecamere, fa l’accusa, mostra i video e li commenta e, sono quasi sicuro, a fine udienza passa pure una botta di scopa prima di andare via.

Ma la cosa più geniale, o meglio, la cosa su cui purtroppo non mi viene da scherzare è che oltre tutto ciò non si fa problemi a dire davanti a una platea di giornalisti e con in sala una evidente presenza di nazisti (che facevano video e foto a tutti i presenti e uno dei quali scriveva al portatile appuntando ogni dettaglio), l’indirizzo dell’appartamento in cui Ilaria trascorre i domiciliari. Una cosa evidentemente gravissima e che mette a rischio l’incolumità di Ilaria.

Squilla un telefono e a questo punto tutti hanno pensato «ahó, mo’ va bene tutto, va bene che questi so fissati de repressione, va bene che hanno un sistema penale pesantino… ma spegni sto telefono

Ovviamente era un anziano, italiano, che rispondeva dicendo «eh ma se mi chiamano mica è colpa mia»…

Di fronte a cotanta inadeguatezza neppure la legge ungherese può nulla.

Ma andiamo avanti…

VOTO E CHE FARE ADESSO

Intanto, dopo la genialata del giudice, Ilaria non può considerarsi del tutto sicura e forse adesso bisognerebbe insistere che torni in Italia, vista anche la candidatura.

Ilaria ha il braccialetto elettronico che comunque vibra tutta la notte e rompe er cazzo.

Io di fronte a una prospettiva di 120 anni di domiciliari o di 21 anni di carcere penso che nessuno possa giudicare la scelta della candidatura. Al contrario, per una volta dietro a una candidatura vedo qualcosa di collettivo.

Non solo nel comitato Ilaria Salis e in chi ci milita ma anche nei tanti compagni e nella rete di persone che la supporta che non si limita a essere solidale ma studia, ragiona, immagina come potrà essere da supporto a Ilaria una volta eletta (se ci riuscirà) e che quindi vede questa roba non solo come l’unico modo per tirarla fuori da lì, ma come un’opportunità per portare in parlamento europeo istanze dal basso che nessuno è in grado di portare perché, diciamocelo chiaramente, anche quello più a sinistra (e che si dice vicino a noi) non ha idea dell’inferno che vive un precario, cioè uno che percepisce un tale stipendio non potrà mai rappresentarci o mettersi a nostra disposizione. Sì, sono populista, mi dispiace, ma lo penso. D’altronde possiamo dircelo chiaramente che a molti di noi ci fa male la mano a pensare di votare per un simbolo che tiene dentro personaggi che vorremmo tanto veder lavorare per una volta nella loro vita. Ma ho scoperto, con mia grande ignoranza sul campo, che si può far arrivare il voto a Ilaria senza votare nessuno di questi squali, facendo cioè la croce sul simbolo. Io, comunque, non mi sento di dire alle persone di andare a votare e cosa votare, perché sarei ridicolo (chi sono io per dire agli altri e come potrei essere credibile non avendo quasi mai votato), dico solo che per me questa roba, sta volta, un senso ce l’ha.

Per una volta vedo una dinamica diversa muoversi e tanto vale vedere cosa si riuscirà a fare. In alternativa possiamo solo ributtarci tutti in fondo al pozzo.

Inoltre ci sono altre 19 persone e non tutte potranno percorrere questa strada (cioè non potranno tutti provare la via elettorale), per questo dobbiamo risvegliare il nostro senso collettivo del fare le cose, quello che in questa roba sta venendo fuori coinvolgendo mondi diversissimi, come solo le lotte vere sanno fare.

Daje Ilaria!

Le foto sono state liberamente fornite da un attivista presente al processo

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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