In questi giorni di escalation sempre più spinte ho scritto poco, perché volevo sostanzialmente leggere che cosa pensano di tutta questa situazione alcuni analisti di cui mi interessa il pensiero: analisti russi, ovviamente, perché sono loro quelli che, visto che vogliamo fargli la guerra (che come tutte le nostre guerre è giusta e santa), dobbiamo studiare. Uno di loro è Ilya Kramnik, che ha una pagina Telegram ben frequentata, anche se a un osservatore distratto sembrerà la pagina di un rifugio per gatti (https://t.me/kramnikcat) e che giusto ieri ha pubblicato alcune considerazioni interessanti – e preoccupanti, ovviamente, come preoccupante è la situazione. Poi ha provato a sdrammatizzare, facendo se possibile peggio. Il suo post è stato riassunto su Twitter in italiano, non da lui ovviamente, e lo trovate qui:
https://x.com/Lukyluke311/status/1796224881341948062.
Di quello che scrive Kramnik ci interessa in particolare una considerazione che potrebbe apparire criptica: la NATO (userò questo termine per riferirmi alla combinazione USA+UE+UK e altra frittura di paranza tipo Canada, Australia eccetera, non essendovi ormai più differenza tra apparati politici ed apparati militari) valuta le sue azioni in base ai costi, la Russia valuta in base al rischio. Ergo, la NATO ritiene che imporre all’avversario costi (economici, materiali e umani) sufficientemente alti sia un elemento di deterrenza che la porta alla vittoria (di solito è stato così: vedi Jugoslavia e Iraq. Altre volte no); il costo che la Russia è disposta a pagare è però incommensurabilmente alto, perché la sua valutazione è legata in via esclusiva alla riduzione o all’eliminazione del rischio. Questa differenza sostanziale di impostazione non viene sempre percepita (quasi mai, in realtà) e genera una falsa sicurezza nei suoi avversari, che ritengono che ‟non reagisca”, perché non ne ha i mezzi, perché è debole, perché è povera, perché è corrotta eccetera: e in effetti non reagisce, in linea di massima, finché non considera che il rischio è diventato troppo alto (in passato, ovviamente, non ha reagito, o non ha reagito efficacemente, per vari limiti: organizzativi, di equipaggiamento eccetera). Il problema è che quando reagisce, e alla fine anche in passato lo ha sempre fatto, la reazione non è più simmetrica e si ferma solo davanti all’annichilimento totale del nemico o comunque al termine definitivo della minaccia – cosa che la NATO alla fine non fa, perché le interessa vendere al nemico sconfitto la Coca-Cola. Ma la Russia non ha Coca-Cola da vendere.
Cerchiamo di capire che significa questa differenza di vedute nel linguaggio escalatorio che negli ultimi tempi sta dominando il dibattito.
Nei tempi moderni le minacce per la Russia sono venute sempre da occidente (parlo di minacce esistenziali, che mettono a rischio la sopravvivenza dello stato. La guerra russo-giapponese del 1905 e quelle del 1935-1939, di cui tanti si dimenticano, non rientrava in questa categoria): Svezia, Polonia, Impero napoleonico, Germania – due volte. Si è sempre trattato di conflitti potenzialmente distruttivi per la Russia, di conflitti nei quali il suo territorio è stato invaso e spesso occupato in gran parte, in cui le sue risorse sono state distrutte o saccheggiate, e in cui una parte non piccola della sua popolazione è stata eliminata. Questa banale premessa, alla portata di qualunque scolaro delle superiori, ci serve per capire una costante della politica estera russa, ovvero la necessità di spostare quanto più possibile a ovest i propri confini per difendere il nucleo economico e demografico del paese (l’heartland dell’heartland, potremmo dire). Da questo punto di vista sia l’impero russo che l’URSS pre-1941 presentavano situazioni vantaggiose, che però non hanno impedito alla Russia di essere attaccata con le conseguenze di cui sopra; ideale era la situazione dell’URSS post-1945, con la cintura dei satelliti del Patto di Varsavia ad aumentare a dismisura la fascia di sicurezza facendola iniziare nel cuore dell’Occidente, cioè del luogo dal quale viene la minaccia.
La fine dell’URSS ha portato quindi non solo un ridimensionamento drammatico della Russia, sotto tutti i punti di vista, ma ha anche introdotto un elemento di insicurezza strategica, la perdita della profondità territoriale a occidente (oltre che nel Caucaso e in Asia centrale, ma da lì le minacce erano e sono molto limitate non essendoci più da un pezzo l’impero ottomano. Transnistria, Abkhazia e Ossezia del sud sono stati i tentativi, sostanzialmente riusciti, di mantenere un minimo di presenza in queste aree perdute), che col passare del tempo è diventato sempre più grave: l’ingresso nella NATO della Polonia (1999) e dei paesi baltici (2004) hanno isolato Kaliningrad e ridotto lo spazio si manovra nel Baltico, e l’ingresso di Romania e Bulgaria (2004) consegnato la sponda occidentale del Mar Nero alla NATO, in aggiunta a quella sud che già occupava dall’ingresso delle Turchia (1952). Aggiungiamo anche Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia (1999 le prime due, 2004 la Slovacchia), aggiungiamo lo scudo antimissile che doveva tecnicamente proteggere l’Europa dall’Iran ma ovviamente poteva servire anche ad altro, e non solo per difesa, aggiungiamo il discorso di Putin a Monaco del 2007 (‟ci farebbe piacere se vi fermaste”) e la risposta NATO al vertice di Bucarest del 2008 (‟invece facciamo entrare anche Georgia e Ucraina”) e ci rendiamo conto perfettamente della situazione di rischio percepita dalla leadership russa e o non percepita dalla NATO o percepita e ignorata, perché tanto la Russia, per il discorso di cui sopra, non reagirà. E non ha reagito, effettivamente, finché il rischio non è diventato insostenibile con l’Ucraina, e sappiamo cosa è successo nel 2014 e dal 2022 in poi. La risposta NATO è stata un aumento dei costi (sanzioni prima, invio di materiale militare con conseguente distruzione di materiale e asset russi e aumento vertiginoso delle spese poi) in funzione di deterrenza che però non hanno fermato in alcuna maniera la Russia perché, come detto sopra, non ragiona in termini di costi ma di rischio, e il rischio dell’Ucraina nella NATO (o come mi pace dire della NATO in Ucraina) è più alto di qualsiasi costo.
Ora che anche i più inguaribili ottimisti si sono resi conto che il piano originario, ossia costi insostenibili e collasso sotto il peso delle sanzioni e degli armamenti riversati in Ucraina, è fallito, la strategia di deterrenza va ricalibrata e i costi vanno ricalcolati, e aumentati. Flotta del Mar Nero (anche se in questa guerra non serve a granché), difese antiaeree in Crimea e altrove, raffinerie e depositi di carburante, e in ultimo anche radar di early warning – ma questi, al di là del fatto che non sono stati distrutti (altrimenti ce ne saremmo accorti eccome), come avvertimento e risposta alle esercitazioni nucleari della Russia – e autorizzazione a colpire il territorio russo con le armi occidentali (molto probabilmente, tra l’altro, maneggiate da personale occidentale), ovvero a fornire intelligence e scelta dei bersagli, perché le FFAA ucraine non hanno i mezzi per farlo da sole, non più solo sulla Crimea e sui territori occupati, considerati ‟non Russia”, ma sulla Russia vera e propria, ossia intervenendo direttamente, a tutti gli effetti pratici, nel conflitto. Anche qui, la scommessa è che la Russia alla fine non faccia nulla, che il costo in prospettiva sia troppo alto e che alla fine si debba arrivare a una situazione di compromesso, che sia lo ‟scenario coreano” o una qualche variante della ‟formula Zelensky”. Ma è, appunto, una scommessa: e non è un caso che il gioco degli americani sia infatti il poker e quello dei russi gli scacchi, che sono due giochi entrambi difficilissimi ma con due profonde differenze non solo tecniche ma culturali. La prima è il bluff. Nel poker puoi ritenere che il tuo avversario non abbia in mano le carte che ti lascia intendere di avere. Vedi il bluff, e puoi avere ragione: non aveva in mano niente, hai vinto senza far nulla, ed è quello che sta facendo la NATO da qualche decennio. Ma negli scacchi i pezzi sono tutti sul tavolo: questo è quello che ho, e lo userò tutto se sarà necessario. La seconda differenza è ancora più sostanziale col poker, ed è il sacrificio: per vincere posso, anzi devo, sacrificare pedoni, cavalli, alfieri, torri, anche la regina, se del caso. Nessun costo è troppo alto perché tutto quello che c’è sulla scacchiera verrà usato.
In conclusione (o anche TL:DR): la Russia considera le situazioni politico-militari in funzione del rischio per la sua sopravvivenza, la NATO in funzione dei costi. La NATO non si pone il problema di essere distrutta ma di qual è il prezzo da pagare per vincere (o per costringere l’avversario a lasciare quanto prima il tavolo): se è troppo alto rispetto ai benefici che se ne possono trarre o non se ne fa niente o si termina l’investimento, tanto la propria sopravvivenza non è mai a rischio essendo le guerre combattute altrove. La Russia questo ragionamento non se lo può permettere. La minaccia da ovest è sempre potenzialmente distruttiva, questo ovest adesso è vicinissimo e bisogna impedire che si avvicini ancora di più. Qui i NAFO possono esultare nelle loro camerette: ‟Ah, la Russia ha paura di noi!!!” Certo che la Russia ha paura di noi. E fa bene ad averne, vista la sua storia e soprattutto la nostra. Noi però faremmo bene ad avere paura di questa paura, perché questa paura significa, sostanzialmente, che la Russia è disposta ad andare, sempre, molto più in fondo di noi: perché non è la nostra sopravvivenza ad essere minacciata, è la sua. Può tollerare molto, incluso un ridimensionamento anche sostanzioso come quello del post-guerra fredda, finché non percepisce una minaccia esistenziale. Se la percepisce, e l’Ucraina rientra in questo caso, accetterà, come ha fatto, qualunque costo: entrerà in guerra, con tutti i costi umani, economici e politici che la cosa comporta; devasterà in maniera irrimediabile un paese al quale la legano rapporti di amicizia e parentela; accetterà che la propria popolazione civile venga fatto oggetto di atti di rappresaglia; abbandonerà i legami economici e culturali con l’Occidente; accetterà un rapporto sbilanciato, ma non rischioso, con la Cina; e se le operazioni militari non dovessero andare come vuole che vadano, sarà disposta a escalation sempre più gravi, fino a quella ultima.
Nella foto, un Iskander durante le ultime esercitazioni nucleari tattiche russe.
Francesco Dall’Aglio