Ogni anno soltanto lo zero virgola cinque per cento dei magistrati requirenti passa al ruolo giudicante. Si tratta, in pratica, dai dati che sono forniti dallo stesso Ministero della Giustizia, di nemmeno cinquanta pubblici ministeri su ben novemila. Nonostante ciò, sostengono le destre, anche davanti alla schietta durezza dell’evidenza numerica di una inesistente commistione tra i due ruoli, il punto è il principio.

Per cui la cosiddetta “separazione delle carriere” garantirebbe una maggiore indipendenza proprio di chi giudica da chi accusa e i ruoli sarebbero distinti e non confondibili, sovrapponibili e pertanto sospettatibili di essere influenzati vicendevolmente, avendo rapporti troppo stretti, confidenze troppo professionalmente intime rispetto agli alti impegni di terzietà cui sono chiamati.

Il governo, incalzato da quella Forza Italia che di questa controriforma è l’alfiera, in memoria soprattutto del Cavaliere nero di Arcore che giganteggia ancora con il suo cognome nel simbolo elettorale, macrabo epitaffio per una storia piena di contrasti con la magistratura, ha dovuto cedere e nemmeno tanto mal volentieri. Sebbene non sia mai stata una priorità per il partito meloniano (forse un po’ di più per il leghismo d’antan, nonostante i cannoneggiamenti bossiani contro la mafiosità di questo o quello alleato di tempi ormai lungamente trascorsi), il primo passo è fatto.

Il Consiglio dei Ministri licenzia un testo di riforma della magistratura in cui il Consiglio Superiore raddoppia, nonostante sia sempre presieduto dal Capo dello Stato, e in cui sostanzialmente il pubblico ministero sarà sbilanciato sulla funzione accusatoria, distanziato dalla cultura bilanciata della complementarità tra carico e discarico delle prove, sottoposto ad una vigilanza governativa che ispirerà persino quali saranno i filoni di indagine da seguire con particolare attenzione e quali da tralasciare.

Il rischio vero è che la terzietà che si citava poco sopra venga davvero meno e che, quindi, l’indipendenza dell’intera magistratura repubblicana sia messa in discussione come esclusiva caratteristica di uno dei poteri dello Stato, di uno dei fondamenti della libertà democratica come garanzia per tutte le cittadine e tutti i cittadini. Il governo e la maggioranza negano, ovviamente. Ma, come il premierato va nella direzione di dare all’esecutivo un protagonismo emergente rispetto alla funzione centrale del Parlamento, così la controriforma sulla giustizia ha lo stesso scopo nei confronti di giudici e PM.

Il disegno complessivo è sempre più chiaro ed allarmante: dalla diminuzione dei poteri del Presidente della Repubblica alla riduzione delle Camere a maggiordomi di Palazzo Chigi, le compensazioni vengono meno e il governo assume un margine di manovra molto più ampio rispetto a quello pensato dai Costituenti e, in un certo qual modo, mantenuto fino ad oggi nell’equipollenza del trittico con potere legislativo e potere giudiziario.

Non si può biasimare l’insorgere dell’Associazione Nazionale Magistrati che opportunamente evidenzia tutti i rischi di una torsione autoritaria che andrebbe, naturalmente, ad inficiare i diritti fondamentali di tutti, avendo conseguenze devastanti sulla prima parte della Carta costituzionale, quindi sull’essenza delle garanzie a tutela della dignità, della libertà e dei diritti fondamentali di ogni cittadino. Caso mai servisse una vera riforma della giustizia, questa dovrebbe riguardare ogni attore sulla scena del processo.

Ormai tocca sommare una serie di disastri incostituzionali che la destra di governo sta cumulando e che non potranno non avere un effetto a valanga sulla tenuta delle istituzioni: tenuto conto anche del fatto che il progetto di autonomia differenziata acuirà le diseguaglianze tra i territori e farà del Paese non più una nazione che condivide gli stessi princìpi e gli stessi valori, ma una presunta Patria in cui i diritti saranno venduti tanto al PIL e sulla base di un ricorso al censo, alla ricchezza piuttosto che alla povertà.

Ma la povertà cui andiamo incontro non riguarda, purtroppo, soltanto l’aspetto del gravame economico che ci viene scaricato addosso dalle direttive di Bruxelles e della Banca Centrale Europea o dai diktat della NATO in materia di nuovi corposi investimenti nei settori bellici; un altro tipo di povertà si affiancherà a quella propriamente e materialmente intesa. Un pauperismo della democrazia ridotta a democratura, a formalismo cui aggrapparsi per non scadere ulteriormente in una orbanizzazione in cui ci troviamo già alle soglie del precipizio.

In una Italia in cui è il governo a dettare la linea che la giustizia deve seguire, è abbastanza certo che ogni tipo di repressione poliziesca sarà seguita da un giudizio viziato dalla linea politica dell’esecutivo. Se ne ha un chiarissimo esempio nell’Argentina iperliberista di Javier Milei. Così come lo si vede molto chiaramente, per venire quasi alle porte di casa nostra, nel modo in cui la giustizia ungherese tratta i detenuti sgraditi al governo di Orbán.

Per questo parlare di “orbanizzazione” delle nostre istituzioni non è una iperbole lessical-politica, una esagerazione propagandistica anti-destra. È la risultanza di una addizione di fattori che stanno trasformando la vita pubblica e politica del Paese in altro da quello che è sempre stata, nonostante il ventennio berlusconiano, nonostante i molti tentativi di alterare gli equilibri tra i tre poteri dello Stato, tra i tre pilastri fondanti la Repubblica.

Nelle maglie del testo licenziato dal governo, la controriforma sulla giustizia contiene un attacco diretto al Consiglio Superiore, fatto passare dalla maggioranza come un rinnovamento essenziale e doveroso delle sue funzioni di amministrazione dei rapporti tra le procure e i tribunali. Il riferimento è al sorteggio dei membri del CSM che sostituirà l’attuale nomina. Che messaggio se ne ricava se non quello che l’organo di autogoverno dei magistrati non è in grado di affidarsi ad un giudizio proprio, ma semmai deve ricorrere alla “sorte“?

Fatto poi che, nemmeno a dirsi, è vero in parte. Perché il sorteggio, ad esempio, dei membri nominati dal Parlamento avverrebbe in una rosa di nomi scelta dalle Camere a maggioranza semplice si deve dedurre, visto che – almeno leggendo il testo fino ad oggi prodotto da Palazzo Chigi – non è presente nessun tipo di quorum qualificato in tal senso. Che ne viene fuori se non una prepotenza della maggioranza anche in questo versante? Sarà chi ha maggiori consensi ad esprimere quella rosa di nomi in cui verranno sorteggiati i componenti del CSM.

La sorte, quindi, c’entra ben poco, se non come convitato di pietra che assiste a spartizioni di cariche preventivamente intese, per cui tra Tizio, Caio e Sempronio sarà indifferente chi passerà, visto che l’accordo sarà già stato siglato e chi non sarà scelto avrà altre compensazioni. Possiamo esserne tristemente ma non mestamente certi. Fino a qui, il quadro che viene alla luce è quello di una umiliazione della magistratura repubblicana. Antonio Tajani, trionfalmente, ha proclamato: «Si corona il sogno di Berlusconi».

Una nemesi storica del Cavaliere che si abbatte sull’Italia povera, divisa in classi sempre meno vicine fra loro, in cui le diseguaglianze aumentano, in cui la guerra pesa come un macigni nei risvolti economici di un paniere della spesa le cui percentuali di costi quotidiani balzano alle stelle. Ma per il governo di Giorgia Meloni tutto va bene, madama la marchesa.

Premierato, autonomia differenziata e ora controriforma sulla giustizia. In più l’attacco spietato ai diritti del mondo del lavoro che rimane iper-precario. Giovani universitari che si pagano gli affitti delle stanze lavorando per cinque, sette euro all’ora, mentre in Parlamento non fa un passo avanti la proposta del salario minimo sociale a dieci euro all’ora indicizzato al costo della vita e totalmente a carico degli imprenditori. Il rischio di una implosione sociale è nei fatti e viene utilizzato dalla destra per far passare un disegno autocratico mina alle fondamenta lo Stato democratico.

La Repubblica Italiana per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi pare sbiadire sempre di più, venendo meno i presupposti di uguaglianza dei diritti, dei doveri, di separazione dei poteri, di indipendenza vicendevole tra loro, di autonomia e di rispetto dei ruoli affidati ai gangli dello Stato dalla Costituzione.

Non si tratta di chiacchiere, ma di una traduzione letterale delle tante preoccupazioni che per primi i giuristi e i costituzionalisti segnalano con tutte le cautele del caso. Infatti, prima che il testo approvato dal governo Meloni arrivi all’ultimo passaggio parlamentare, il percorso è ancora molto, molto lungo e, quindi, c’è la concreta possibilità che gli inciampi siano sul suo cammino e che, alla fine, la stessa riforma si sfracelli al suolo.

Non bisogna però augurarselo e attendere gli eventi. Bisogna contrastare con una grande partecipazione popolare unitaria i tre disegni di mutamento epocale autoritario, inegualitario e antidemocratico che Meloni, Salvini, e Tajani vogliono portare avanti: il trittico premierato-autonomia differenziata-giustizia, nel nome della preservazione delle fondamenta costituzionali, dai diritti sociali alle libertà civili, va ostacolato con ogni mezzo politico a disposizione.

L’obiettivo deve rimanere quello di mandare a casa questo governo eversivo, che sovverte la Repubblica, che ne calpesta l’essenza primigenia che origina dalle grandi esperienze risorgimentali e resistenziali in cui al centro dell’idea di Italia che si aveva e si voleva costruire c’era anzitutto l’uguaglianza sociale e civile di tutti i cittadini. Gestita sulla base dell’interesse comune e non dei particolarismi localistici. Garantita da un diritto equanime e non da giudici soggetti al potere esecutivo, seppure indirettamente.

Preservare l’indipendenza della magistratura oggi ha questo specialissimo valore: aggiungere al complicato quadro delle lotte in essere un altro tassello. Non ci è permesso deflettere, affidarci alla sorte, agli eventi. Tutto può solo peggiorare se non agiamo, se non ci impegniamo considerando l’importanza della condivisione delle lotte contro le riforme incostituzionali del governo meloniano. L’unità qui prescinde dal colore politico, perché la difesa dei diritti fondamentali riguarda tutte e tutti.

Quindi, chiaro il disegno eversivo del governo, va messo in piedi movimento di popolo che si schieri a tutela di sé stesso nel proteggere la Costituzione, il Parlamento, il regionalismo, l’indipendenza della Magistratura da qualunque altro potere dello Stato. Bisogna fare presto, perché “il nemico si fa d’ombra e si ingarbuglia la matassa“, sotto le mentite spoglie del patriottismo, della vicinanza ai più deboli, della tutela dei diritti e dei doveri.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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