Tanta storia è passata da quando Enrico Berlinguer si diceva, in un contesto internazionale completamente diverso da quello attuale, di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della NATO rispetto a quello del Patto di Varsavia. Lo scopo difensivo dell’Alleanza atlantica è venuto meno nel momento in cui il carattere della deterrenza si è progressivamente esaurito proprio con la scomparsa della contrapposizione tra i blocchi determinatisi con la Guerra fredda e la trasformazione del bipolarismo in unipolarismo occidentale, statunitenese e, per l’appunto, nordatlantico.
Col crollo del Muro di Berlino e la fine dell’impero sovietico, il Patto di Varsavia venne meno, la NATO no. Ciò nonostante, a Michail Sergeevič Gorbačëv prima, a Borís Nikoláevič Él’cin dopo, che chiedevano garanzie in merito ad un uguale impegno occidentale, se non proprio di scioglimento dell’alleanza, quanto meno di permanenza entro i suoi confini, i presidenti americani e le loro amministrazioni garantirono di tutto punto: non avanzeremo nemmeno di un centimetro.
La promessa solenne fu naturalmente una disillusione quasi immediata. La NATO prese ad espandersi, a rinforzare i suoi arsenali, ad espandere le sue basi, ad inglobare nuovi paesi dell’Est Europa fino a lambire quelli che erano stati i confini della vecchia Unione Sovietica. Dal Baltico al Mar Nero.
La penetrazione occidentale in quel settore che era stato, almeno per oltre mezzo secolo dopo la Seconda guerra mondiale, e storicamente per quanto riguardava tutti i secoli dei secoli precedenti, un’area di azione egemonica di San Pietroburgo prima e Mosca poi, aveva di fatto inaugurato una nuova era espansionistica a stelle e strisce.
Stelle tanto americane quanto europee, quanto anche le seconde fossero molto più modernamente sbiadite e scolorite dall’influenza di Washington su una politica estera bruxelliana molto debole, preda delle divisioni interne e incerta se guardare al contempo tanto al di qua dell’Oceano Atlantico quanto al di là dei confini della Sublime Porta, proiettandosi in quella novella Via della Seta che era l’apertura del mercato cinese ed asiatico a tutto un nuovo mondo di conquiste neocoloniali di stampo imperialista ma fatte senza troppe guerre col vezzo presuntuoso dell’”esportazione della democrazia“.
Cinesi, indiani e indonesiani, così come russi, coreani e giapponesi non hanno avuto mai bisogno di circonlocutorie perifrasi per giustificare l’espansionismo di commerci, per abbracciare il liberismo ultimo-novecentesco e fare concorrenza al titano americano che, dopo le crisi economiche del 2008-2009, veniva fuori dalla sua bolla speculativa tutta interna che si era rovesciata nel disastro mondiale di un cataclisma anche ecologico che iniziava ad affacciarsi con prepotenza sulla scena globale.
La moltiplicazione attuale dei conflitti è la conseguenza di un irrigidimento militaristico da parte degli Stati Uniti d’America che, è bene sempre ricordarlo, sono almeno ancora oggi – non si sa poi se dovesse essere eletto Trump al posto di Biden nel prossimo autunno – i principali finanziatori dell’Alleanza atlantica.
Nota opportunamente un grande studioso di economia internazionale quale è Thomas Piketty, nel suo lungo e importante studio “Il capitale nel XXI secolo” (edito da Bompiani), che a fronte della grave crisi che ha attanagliato l’Europa nel corso del Novecento (con ben due guerre mondiali che l’hanno interessata totalmente), proprio le guerre non hanno aiutato il capitalismo ad evolversi.
Almeno non sul piano finanziario. La NATO, come presidio difensivo è, oltremodo, risultata un costo esorbitante sulle economie nazionali e ha pesato in modo molto netto e diretto sui bilanci statali. Se veniamo a tempi più vicini alla stretta attualità odierna, per ogni anno intercorso nel decennio che ci separa dal 2013, i paesi dell’Unione Europea hanno speso circa mille miliardi di euro per sovvenzionare le attività dell’Alleanza. Esperti del settore analisi militari e difesa hanno calcolato che si tratta del 56% della spesa militare mondiale.
Certo, riguarda tutta la parte occidentale del pianeta, quindi l’asse euro-americano, ma è comunque un costo veramente esorbitante che, ultimamente, Stoltenberg ha riportato all’attenzione proprio dei paesi impegnati nella guerra di Ucraina per esigere che i loro bilanci, proprio alla voce “spese militari” e, segnatamente, per la NATO, aumentassero la percentuale di risorse impiegate fino e oltre il 2% del PIL.
Siccome l’analisi di Piketty è fondata su una serie di ricerche veramente molto particolareggiate e meticolose, supportata da dati inoppugnabili, e siccome ci rivela che, alla fine, il capitalismo moderno non ha poi tratto tutto questo giovamento dalle guerre, viene da chiedersi quale senso abbia il mantenimento in vita della NATO.
Il rapporto tra spesa sociale e spesa militare è andato sempre e soltanto a svantaggio della prima, creando i presupposti per una economia di guerra permanente, piuttosto carsicamente nascosta nelle pieghe dei bilanci nazionali e, quindi, nelle loro intenzioni segretamente disposte in concerto con il disegno euro-atlantico di espansione politico-amministrativa ed economico-militare verso est. Le guerre novecentesche hanno procurato distruzioni materiali ingenti, affari ricostruttivi per molti comparti industriali, ma anche un costo in termini di ricomposizione sociale veramente ingente.
A questi elementi così macroscopici è dovuta, tra l’altro, la discesa vertiginosa del rapporto tra capitale reddito che si è registrata – nota sempre molto bene Piketty – tra le due guerre mondiali: dal 1913 fino al 1950 almeno. Da notare che i maggiori effetti delle crisi economica, dell’impoverimento costante, del calo del risparmio, dell’insopportabilità dell’esistenza materiale da parte delle grandi masse si registra assolutamente in Europa, mentre negli Stati Uniti ha riverbero differente, si insinua nella Repubblica stellata come condizione di puro riflesso.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale la giustificazione dell’esistenza della NATO era data, come già detto, dal fattore della deterrenza nei confronti del blocco dell’Est, del sovietismo, di tutta una parte del mondo che era egemonizzata da Mosca, in cui la Cina non aveva questo ruolo di superpotenza economico-imperialista che invece ha oggi e che, proprio nel settore asiatico, vede affiancarsi l’India in forte crescita. Quel concreto alibi si era eroso e stava del tutto crollando con la fine del multipolarismo di vecchio stampo.
Per ridarsi un senso, smentendo le parole del presidente francese Macron che, poco proprio prima dell’invasione russa dell’Ucraina, aveva dichiarato l’Alleanza quasi in stato di coma permanente, molto vicina orma ad un rigor mortis più che evidente, la spinta geopolitico-strategica statunitense ha riqualificato il ruolo della NATO nel cuore dell’Europa e l’ha spinta provocatoriamente verso la Russia. Non dimentichiamo mai che, prima delle adesioni dei Paesi Baltici, di quelli dell’Est europeo e, per ultimi di Svezia e Finlandia, già la Turchia era (e rimane con tutte le sue contraddizioni) un aderente all’Alleanza.
Espansionismo ai limiti del vecchio blocco orientale, riarmo a tutto spiano e intervento nelle guerre sparse per il pianeta sotto l’egida delle coalizioni euro-nordamericane, hanno ringalluzzito l’organizzazione. Ma sono soprattutto i conflitti sorti nei Balcani prima e in Ucraina poi ad aver regalato alla NATO una nuova vita, seppure a fasi alterne, seppure non sempre linearmente certa di essere la soluzione migliore per il protrarsi di questo costosissimo carrozzone di militarismo imperialista.
Non di meno rispetto alle singole politiche economiche nazionali, anche il mantenimento in vita dell’Alleanza si è uniformato alla logica del mercato globale. In particolare quello degli armamenti. Il riarmo ha assunto il carattere di inversione di tendenza, rispetto al disarmo che era stato un pseudo-impegno di tante conferenze mondiali dei G7, G8 e G20, al pari della riduzione delle emissioni climatiche entro decenni ampiamente superati dalla tragica velocità di mutamento del clima.
Di pari passo con la crisi del capitalismo liberista degli ultimi vent’anni, l’industria delle armi ha sollecitato la politica statunitense a farsi portavoce di finzioni democratiche nel nome della liberazione di popoli interi da pericoli terroristi reali, creati nei lustri passati proprio per assicurarsi delle basi di sostegno, delle nuove teste di ponte imperialiste che si sono rivoltate contro il padre-padrone nordamericano. Così è stato per Al Qaeda, così per altri mostri fatti a propria immagine e somiglianza: dalle petromonarchie del mondo arabo fino alle ultime guerre che hanno incendiato il Medio Oriente.
La NATO si è tenuta entro i confini euro-atlantici ma ha preparato, passo dopo passo, una sollecitazione provocatoria che ha finito per deflagrare nel conflitto del Donbass. Lì è stata colta l’occasione per regolare i conti con la Russia. Lì Putin stesso ha colto questa stessa occasione per scrollarsi dai confini sempre più vicini la presenza armata di tutto punto degli Stati Uniti d’America. La sorte degli ucraini e dei russi è nel mezzo di questa riorganizzazione geo-strategico-militar-politica di un mondo che deve fare i conti con un multipolarismo tutt’altro che equilibrato ed equilibrante.
Per evincersi di ciò, basta osservare le destinazioni di gran parte del bilancio statale americano in tema di armamenti. Le direzione sono tre: Ucraina, con missili dati ormai per colpire direttamente il territorio della Federazione russa; Israele, dove un giorno Blinken biasima Netanyahu e il giorno dopo Biden ne approva la politica criminale di aggressione a Gaza e Rafah nel nome della lotta al terrorismo; Taiwan, circondata dalle operazioni navali cinesi in risposta all’elezione di un presidente iper-indipendentista e, chiaramente, iper-filo-statunitense.
La sorte della NATO non è disgiunta dai progetti di politica internazionale di Washington che guardano al Medio Oriente o all’Asia. Fa tutto parte di una agitazione globale che prevede lo stato di guerra permanente come strato fondamentale su cui basare l’incertezza economica che deve trovare una sua ridefinizione a breve termine. Ciò vuol dire che la scelta del grande capitalismo mondiale è quella non del compromesso con il mondo del lavoro, con le grandi masse di salariati e di poveri che impoveriscono o muoiono di indigenza e inedia.
La scelta è lo scontro frontale tra le potenze per un dominio planetario che tiene conto dei miliardi di poveri e di sfruttati soltanto come nuova carne da cannone, come merce di scambio nelle situazioni di peggiore crisi. Da utilizzare con o senza divise addosso. La pianificazione delle guerre è la precondizione, almeno oggi, per un controllo della crisi globale: tanto quella economica e finanziaria quanto quella ecologica e ambientale. Quest’ultima, in particolare, è ingestibile se non si inverte la rotta. Le conseguenze sono già sfuggite di mano alle centrali politiche delle grandi potenze.
L’Europa figura sempre di più come una depandance americana, mentre la povertà aumenta, il disagio sociale conseguentemente si fa brodo di coltura dei nazionalismi e dei peggiori istinti conservatori, retrivi e di destra. Il superamento della NATO e la via del disarmo sono l’unica soluzione rivoluzionaria per aprire la strada ad una nuova serie di politiche sociali.
Fuori dall’economia di guerra per entrare in una economia di base, in una modernità che prescinda dall’orrore dei mercati delle armi e da tutto quello che producono. Compito del progressismo, oggi, è questo. Nell’immediato, nell’urgenza della drammaticità dei tempi in cui noi sopravviviamo ancora, molti, molti altri muoiono disperatamente.
MARCO SFERINI