Alle 5 del pomeriggio di giovedì 30 maggio, dopo sei settimane di dibattimento e solo due giorni di camera di consiglio, a Manhattan, una giuria (composta da sette uomini e cinque donne) ha consegnato al giudice Merchan un verdetto unanime di colpevolezza di Donald Trump in relazione a tutti e 34 i capi di imputazione per i quali Alvin Bragg (l’accusa), aveva esercitato l’azione penale. Si tratta di un evento di portata storica: è infatti il primo caso di accusa e condanna penale di un ex presidente degli Stati Uniti, per di più in corsa elettorale per un nuovo mandato e in vantaggio nei sondaggi sul suo avversario Joe Biden. Sono circostanze particolarissime, che aprono interrogativi inediti e problematiche inesplorate e rischiano di mettere in definitiva crisi quella separazione fra diritto e politica che, dalla modernità in poi, è stata posta a fondamento delle democrazie occidentali.
Partiamo dall’accusa, rivelatasi fondata a giudizio dei 12 giurati, i quali (soli) hanno giurisdizione sui fatti. Invero, l’appello – che Trump certamente inoltrerà alla Corte di secondo grado – potrà riguardare soltanto possibili errori di diritto, non il fatto. La giuria era chiamata a deliberare se Trump avesse falsificato 34 documenti con cui aveva pagato il suo ex collaboratore Michael Cohen, apparentemente per servigi legali, in realtà – secondo l’accusa – per coprire un rimborso di 130.000 dollari da questi effettuato a favore della porno star Stormy Daniel (con la quale Trump avrebbe avuto una relazione sessuale) al fine di eliminare ogni notizia che potesse danneggiarlo nella campagna elettorale del 2016, risultata poi per lui vittoriosa. La costruzione dell’accusa era perciò relativa a una fattispecie criminosa così detta a dolo specifico: quella di falsificazione di documenti contabili, realizzata al fine di interferire – in accordo con altri (conspiracy) – con mezzi illeciti nell’elezione presidenziale del 2016. La mera prova della falsificazione di documenti contabili non avrebbe consentito una condanna di Trump per felony (reato più grave paragonabile a un nostro delitto) sia pur di livello molto basso (E), ma soltanto una per misdemeanor (paragonabile a una nostra contravvenzione), con corrispondente pena assai ridotta. Era il collegamento con l’illecita interferenza nelle elezioni, che avrebbe permesso una sanzione a scelta del giudice fra un affidamento in prova (probation) e quattro anni di pena detentiva per ogni fattispecie criminosa. Non solo: era quel collegamento che, qualora condannato, avrebbe reso l’ex presidente un felon, con il discredito presso l’opinione pubblica che da quell’etichettatura gli sarebbe potuto derivare. Anche perché si sarebbe in tal modo dimostrato che nel 2016 l’ex presidente aveva voluto ingannare i propri elettori, nascondendo loro aspetti importanti della sua personalità che avrebbero potuto compromettere la sua elezione a presidente. Era però un collegamento difficile da provare, perché convincere la giuria circa l’esistenza di un elemento soggettivo come il dolo specifico – la finalità cioè per cui le falsificazioni erano state realizzate – non è banale. È tuttavia un collegamento che alla fine la giuria ha ritenuto provato, con grande soddisfazione del prosecutor, Alvin Bragg, che col caso Trump aveva messo in gioco la propria carriera.
La domanda però a questo punto è: si è voluto così raggiungere solo un risultato giuridico (la condanna penale, cioè, del colpevole di un reato) o anche un obiettivo politico (ossia la possibile sfiducia nei confronti dell’ex presidente, oggi candidato in pole position alle prossime presidenziali, di una parte dell’elettorato, che il 5 novembre prossimo altrimenti lo avrebbe votato)? È questo il tasto dolente del giudizio che si è concluso giovedì 30 maggio a Manhattan. È l’impressione, cioè, di una sua forte commistione con il piano politico, laddove non solo il giudice Merchan ha una figlia che oggi lavora per la campagna presidenziale di Biden e lui stesso ha contribuito (sia pure con soli 35 dollari) a finanziare l’attuale presidente durante le scorse elezioni contro Trump; ma soprattutto Alvin Bragg, il prosecutor, nel 2021 è risultato eletto in qualità di candidato per il partito opposto a quello per cui Trump corre a novembre. Il problematico intreccio fra politica e diritto scaturente dalle elezioni popolari – spesso partitiche – dei prosecutors (e dei giudici) statali statunitensi, che già normalmente (almeno agli occhi di un europeo) appare preoccupante, nel caso di Trump si è presentato ancora più allarmante. A differenza di quel che accade di solito, è infatti difficile immaginare che di fronte all’ex presidente la giuria (responsabile come si è detto dell’accertamento dei fatti) potesse davvero ristabilire un principio di terzietà. Nel clima politicamente polarizzato e surriscaldato delle imminenti elezioni in cui Trump si ripresenta come candidato alla presidenza degli Stati Uniti, i 12 giurati erano invero stati tutti selezionati fra i residenti di Manhattan, un contesto geografico in cui la stragrande maggioranza degli elettori si esprime a favore del partito democratico. Arduo credere che la richiesta del giudice di mettere da parte la propria visione politica abbia davvero potuto essere assecondata da parte di quei 12 che, anche se investiti pro temporedel ruolo decisorio, non possono che essere pur sempre rimasti donne e uomini imprigionati nei loro ineliminabili pregiudizi.
È in questo quadro che l’odierna condanna di Trump presenta seri rischi per la tenuta democratica del sistema e ciò non soltanto per le ripercussioni che essa potrà avere sui suoi esaltati fans, ma anche e soprattutto per la parvenza di un diritto al servizio della politica che ne è scaturita. Così mentre Trump – allargando la sua base di finanziatori elettorali – subito dopo il verdetto dei giurati ha raccolto fondi per la bellezza di 53 milioni di dollari da parte di coloro che ritengono che la condanna sia stata di tipo politico; i repubblicani, superando ogni precedente divisione interna e richiamando sarcasticamente l’accusa mossa a Trump, l’hanno definita «un chiaro esempio di interferenza nelle elezioni e un’assoluta presa in giro del principio di legalità» gridando al lawfare, ossia all’uso strumentale del diritto a fini politici (https://www.nytimes.com/2024/05/30/us/politics/trump-verdict-republicans-reaction.html). Se, dunque, la mossa vittoriosa dell’accusa, in luogo di rivelarsi un ostacolo alla vittoria di Trump, dovesse dimostrarsi una spinta alla sua riuscita presidenziale, negli Stati Uniti il rischio serissimo è che il diritto diventi davvero un puro strumento di lotta politica. Già oggi Charlie Kirk, il fondatore di Turning Point USA (un gruppo politico conservatore), suggerisce che i prosecutors statali repubblicani dovrebbero subito iniziare delle indagini nei confronti di tutti i politici democratici: «Quanti procuratori locali o statali hanno delle pietre da lanciare? Esercitate l’azione penale nei confronti della sinistra, altrimenti perderete l’America» ha scritto in un post online (https://x.com/charliekirk11/status/1796311370977395044). Trump, d’altronde, ha già promesso che il suo primo atto da presidente consisterà nello scatenare il dipartimento di giustizia contro i suoi avversari politici.
La campagna elettorale per ora continua e l’11 di luglio il giudice Merchan dovrà stabilire la pena per Trump, che in ogni caso presumibilmente applicherà secondo un principio di assorbimento e non in via cumulativa: assegnerà, cioè, una sola pena per tutte le 34 fattispecie di reato per cui l’ex presidente è stato condannato. Se poi verrà accolta la sua domanda di sospensione della pena in fase di appello, Trump potrebbe rimanere a piede libero fino alle elezioni. In caso contrario, e qualora la pena irrogata sia una sanzione detentiva, si assisterà alla surreale situazione di un candidato presidenziale, in vantaggio sull’avversario, costretto a fare campagna dietro le sbarre. E chissà che questa non rappresenti per molti perfino un’ulteriore ragione per votarlo!