Più che delle chiusure di campagna elettorale, alcune forze politiche, a dire il vero nel novero della destra di governo più che altro, hanno messo in piedi dei cabarettismi piuttosto grossolani, patetici al punto da risultare per davvero imbarazzanti. Il fatto che questo imbarazzo non sia una oggettività manifesta a tutte e tutti ci porta alla considerazione riguardante un diffuso analfabetismo di ritorno in merito ad una altezza del dibattito politico e sociale, culturale e civile che è, oggettivamente, divenuto sempre più povero e di basso livello.

Quando Umberto Eco scriveva della fenomenologia di Mike Bongiorno, non lo faceva per denigrare lo storico, iconico e immortale conduttore televisivo, ma per significare che era esattamente ciò che l’Italia voleva vedere, ascoltare e con cui preferiva divertirsi o, peggio ancora, provare ad acculturarsi mediante le domandine da telequiz serale.

Tuttavia oggi tocca rimpiangere la televisione di allora. E non soltanto perché l’inesistenza di Internet e del fenomeno social costringeva ad uno sforzo maggiore di partecipazione diretta rispetto a ciò si diceva in tv, così pure per quel che riguardava i comizi in piazza. Ma più ancora perché la traduzione pratica delle grandi ideologie di massa travalicava il momento elettorale ed era, per moltissime persone, un impegno ininterrotto, una parte della loro esistenza.

Oggi questa funzione l’ha ancora, parzialmente, il volontariato civile, ma la crisi dei corpi intermedi, seppure mediamente grave rispetto a quella davvero verticale dei partiti e dei movimenti politici, si è fatta sentire nel momento in cui al ventennio berlusconiano si è andato via via avvicendando un metodo partecipativo del tutto individuale, anti-assembleare.

La società liquida decritta da Zygmunt Bauman ha incluso anche la considerazione di questi fenomeni di trasformazione repentina di una politica che è transitata dal collettivismo al singolarismo, dal comune al particolare, dal sociale all’antisociale come elementi di una novità modernista che è stata spacciata per il paradigma necessario alla riconquista dei valori di un tempo, cancellati – secondo una narrazione abbastanza consolidata – dal “buonismo” della sinistra e dal suo solidarismo quasi aprioristico.

Ed a questa velocità della mutevolezza dei circuiti politici e dei cortocircuiti innescati dalla confondibilità delle fisionomie di ogni singola forza con un’altra, corrisponde un oblio quasi connaturato all’anti-ideologismo ipermoderno, propagandato come vera eccezionalità dell’essere oggi assolutamente pragmatici nel relazionarsi con i veri problemi tanto nazionali quanto globali.

Per essere al passo coi tempi, raccontano dalle televisioni e dai canali social i più sconfortati teoremi dell’acefalismo cronico delle destre sovraniste, populiste e neo-post-fasciste, serve qualcosa di molto differente dall’andare alla radice delle tematiche che dominano l’epoca sconvolgente di guerre, pandemie e ribollimenti liberisti. Serve la superficialità, lo stare a galla, senza guardare sotto la superficie delle acque in cui si imputridisce.

La velocità della comunicazione è merito e metodo al tempo stesso di una riformulazione più generale delle relazioni quasi antropologiche dell’attualità di un contesto in cui, mai come ora, siamo indotti a recepire migliaia di messaggi ogni giorno provenienti da supporti e da mezzi di informazione che surclassano quelli classici: giornali e canali televisivi sono indubbiamente ancora strumenti attraverso cui si conosce, si sa, si comprende.

Ma il tam tam internettiano è divenuto preponderante, tanto da farci domandare perché utilizziamo ancora volantini e manifesti per fare campagna elettorale. La risposta è piuttosto semplice ma non è scontata: il contatto diretto con le persone, per quanto minimale in termini numerici possa apparire, è essenziale se si vuole impedire lo scadimento ulteriore della politica in un mero esercizio di geometria amanuense in cabina elettorale e nulla più.

Il volantino dato a mano, anche e soprattutto a chi ti contesta e ti obietta la sua contrarietà, è una forma di contatto quasi fisico delle idee che si mettono a confronto tramite una percezione differente rispetto a quella mediata dall’impersonalità da social, indubbiamente molto più gravosa nell’alimentare l’inedia civica, la disaffezione, il distacco, la separazione tra cittadino, partiti e poi istituzioni.

La causa di questo frazionamento, tuttavia, non imputabile soltanto ad una questione di comunicazione. L’ipocrisia cinica di un ampio settore della politica di palazzo e della democrazia rappresentativa ha fatto la parte del leone nel logoramento della fiducia, nella estenuante coinvolgimento popolare sulla base di promesse mai mantenute. Ogni volta che la sinistra ha messo in essere politiche di tutela dei profitti piuttosto che del lavoro, ha tradito il suo elettorato e ha regalato alle destre lo scettro di una credibilità che non hanno mai veramente avuto.

Arrivando all’escrementizia campagna elettorale di oggi delle forze conservatrici e neoautoritarie, là dove si fa dello spettacolo provocatorio che si fa beffa dei valori costituzionali, delle fondamenta antifasciste della Repubblica, dei diritti fondamentali di ciascuno e di tutti propalando una legittimità dell’anti-antifascismo come espressione di una neo-cultura che deve avere una sorta di cittadinanza autoctona derivante dalla Storia italiana, la crisi culturale è quanto mai evidente.

Disarmante sarebbe l’aggettivo giusto, se non suonasse beffardo, visti i tempi di guerra in cui siamo immersi fino ed oltre il collo. I veri espulsi da questo circo dei nuovi mostri di una politica che non conosce mai il peggio del peggio sono, alla fine, gli enormi problemi sociali, civili ed umani che l’Europa dovrebbe affrontare coniugando le spcificità nazionali e sintetizzando le soluzioni.

Invece dei migranti si è parlato soltanto finché erano funzionali al telegiornalizio bombardamento quotidiano di esternazioni sull’invasione dall’Africa e dell’Asia, così da permettere alle forze di estrema destra di crescere nei consensi di chi è meno attrezzato culturalmente per formarsi un pensiero critico e approfondito in merito.

Della questione climatica, al pari di quella migratoria, si tratta soltanto per accucsare di una qualche forma di non ben precisato terrorismo i giovani di Ultima generazione che, con metodi di protesta non del tutto facili da far passare nella comprensione dell’opinione pubblica (e su questo dovrebbero riflettere per modificarli e ottenere maggiore sostegno popolare), richiamano l’attenzione sul precipizio climatico, sul baratro ecologico in cui precipitiamo di minuto in minuto.

Per quanto concerne la guerra che ci è vicina e quella che ci è più lontana, la contesa a destra si è fatta serrata in questi ultimi giorni di campagna elettorale: in una competizione proprozionalista ognuno si gioca il tutto per tutto e, come ricaduta nazionale postuma al voto, gli equilibri dentro la maggioranza di governo. Il pacifismo, ad uso e consumo del tasso di crescente ipocrisia, è entrato così negli anatemi tanto salviniani quanto schleiniani.

Non siamo arrivati al punto di sentir dire “Non un soldo, non un uomo per la guerra imperialista“, ma in alcuni manifesti a fondo giallo sparsi per l’Italia la prossimità in tal senso è stata pericolosamente raggiunta. Salvo poi, in Parlamento, predisporre e votare pacchetti di aiuto all’Ucraina il cui governo ospita una guerra della NATO contro la Russia e combatte contro una invasione provocata dal risiko del multipolarismo riemerso in questi decenni.

C’è chi ha messo nel simbolo storico la dicitura “pace“; chi se ne è fatto alfiere nel nome della coesione europea e della difesa delle frontiere democratiche contro il satana dell’Est; chi, più onestamente, ha confessato di non poter fare a meno di utilizzare il tema del pacifismo proprio perché si è in campagna elettorale.

L’impietoso spettacolo della chiusura delle campagne elettorali è il meglio che può offrire oggi la politica italiana in epoca meloniana? Parrebbe di sì. Ma sarebbe ingiusto ridurre tutta la politica del nostro Paese al vannaccismo, al bellicismo neonazi-onalistico, al rinvigorimento muscolorare di mascelle, pettorali e bicipiti di un linguaggio prettamente esaltato da una sapidità pelosa che stona con anche una basilare esigenza di sufficiente sincerità dei candidati.

Le proposte di cambiamento dell’Europa ci sono. Sono anche pluralemente enunciate nei programmi di parecchie formazioni politiche. Ma se la pace diviene il fulcro di un punto di svolta, il centro di un mutamento epocale rispetto alla tragedia bellica dell’oggi, che configura scenari tutt’altro che rassicuranti nella prossimità dell’immediato domani, allora l’equazione tra il dire e il fare si assottiglia e di partiti e liste veramente pacifiste ne rimangono pochissime.

Parlare e discutere seriamente delle questioni internazionali, che condizionano la nostra vita giorno per giorno, a cominciare dal momento in cui andiamo a fare la spesa o riempiamo il serbatoio della moto o dell’auto di benzina, vuol dire ideologizzare il tema, perché senza una precisa idea della pace e del suo ruolo fondatore di una nuova politica antimilitarista e anti-imperialista, senza un collegamento diretto tra il disarmo e un nuovo ecologismo non c’è partita.

Non c’è schietta sincerità in quei ragionamenti che mettono insieme l’esigenza della vittoria totale ucraina (e quindi della NATO e degli Stati Uniti d’America) sulla Russia e la necessità della pacificazione tra i popoli. Non può esserci sincerità politica là dove si sostiene il diritto dei palestinesi ad esistere come popolo e magari anche come nazione e, al contempo, si è, immediatamente dopo il 7 ottobre, dato il nulla osta (im)morale ad Israele per attaccare Gaza.

Se, però, almeno il dibattito fosse in questi termini, il livello della campagna elettorale prima e delle impietose chiusure di piazza poi sarebbe stato più alto e la considerazione dell’Europa sarebbe andata oltre il tornaconto governativo e di maggioranza. Fa bene Giorgia Meloni ad essere preoccupata per il tasso di astensionismo che potrebbe aumentare e recare nocumento anche alle destre.

È una inquietudine che sarebbe dovuta diffondersi molto prima del giorno antecedente il voto per il Parlamento di Strasburgo. Ma un disagio di questa natura è possibile domandarlo come forma di apprensione per la tenuta democratica anche italiana a chi sta facendo di tutto per rendere le istituzioni meno coese, aumentando le diseguaglianze da nord a sud, prospettando un regime autoritario fondato sul premierato e su un formale mantenimento costituzionale della separazione dei poteri?

Evidentemente non possiamo chiedere tutto ciò a Meloni, Salvini e pure a Tajani o Lupi. Dobbiamo esigerlo invece dalle forze di opposizione che, onestamente, a parte l’eccezione di Pace Terra Dignità di Michele Santoro e Raniero La Valle, paiono tutte quante preoccupate per una formazione di una maggioranza europea che possa riproporre lo schema vonderlayano che piace tanto anche a Macron.

Lo stesso presidente francese che auspica l’invio di brigate NATO in Ucraina, mentre Pistorius in Germania parla della necessità di prepare la repubblica federale ad una proabilità di guerra alle sue porte nel 2029. Ci sarebbero stati mille motivi per discutere davvero di politica internazionale e nazionale in dibattiti che avrebbero fatto crescere l’intelligenza, la cognizione, la criticità dell’elettorato nel dovere-diritto della sua scelta.

Ha prevalso, se non nella maggioranza dei casi almeno in una buona fetta di minoranza, una tentazione spettacolaristica e sensazionalistica del voto. Un degrado socio-civico-culturale che fa parte del melonian-salvinismo. In partita e competizione per questi giorni. A braccetto a Palazzo Chigi ieri, oggi e domani.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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