Kiev, la nostra Normandia. Titolo secco per la prima pagina di La Repubblica, corredato dalla foto in cui Joe Biden saluta paternamente Volodymyr Zelensky, con alle spalle un sorridente Macron. La commemorazione del D-Day diventa un’occasione ghiotta per il quotidiano diretto da Maurizio Molinari per imporre il paragone tra i nemici di allora (i nazisti) e quelli di oggi (i russi). Per Anais Ginori è tutta una questione di dettagli: il suo articolo trasuda empatia per il presidente ucraino, che “si china e viene avvolto nell’interminabile abbraccio di un veterano”. Una scena ricca di pathos che sembra sgusciata dalla sceneggiatura di un polpettone hollywoodiano (e non a caso poco più in là ci sono Steven Spielberg e Tom Hanks). Mentre la fiction e la realtà si fondono e si confondono nella cronistoria dell’inviata di Repubblica, il soldato americano, sopravvissuto al D-Day si rivolge a Zelensky dicendogli: «Sei il Salvatore della gente, mi fai venire le lacrime agli occhi». E la commozione dovrebbe assalire e mandare in cortocircuito il lettore, convincendolo che la guerra, in fondo, è un sacrificio accettabile pur di sostenere il “Salvatore” ucraino nella sua guerra di liberazione contro l’“invasore” russo.
Le celebrazioni dell’ottantesimo anniversario che decise le sorti della Seconda guerra mondiale è un pretesto sfacciato per rilanciare la chiamata alle armi e inculcare nell’immaginario collettivo l’ennesimo spauracchio: la Russia che avanza, il nemico alle porte. «Ogni generazione ha il suo D-Day», ha enunciato Joe Biden dalle spiagge della Normandia ed Enrico Franceschini accoglie con enfasi l’invito del presidente americano a “non arrendersi ai dittatori”, per lanciare l’attuale sfida “da cui dipende il destino dei popoli”: liberare Kiev dall’occupazione russa. “La nostra Normandia” richiede, infatti, il “massimo sacrificio”, precisa l’editorialista, evocando così lo spettro della guerra che aleggia sempre più prepotentemente in Occidente.
Il parallelo con il sostegno a Kiev che riecheggia sulle prime pagine dei giornali non può che suscitare una riflessione su un’altra invasione, quella della propaganda NATO che si riverbera sui quotidiani italiani, piegando la storia agli interessi delle élite guerrafondaie, preda di quell’«estasi bellicosa» lamentata nei giorni scorsi da Peskov. Il caso di Repubblica, infatti, non è isolato. Il paragone improprio con Kiev rimbalza sulle prime pagine della corazzata cartacea e digitale del Belpaese. Per Stefano Montefiori, corrispondente del Corriere della sera, è Un D-Day per Kiev, un’occasione per chiamare alle armi tutti coloro che hanno a cuore la “libertà”. Nessun accenno ai milioni di morti, alla violenza e alla distruzione che una guerra nel cuore dell’Europa potrebbe comportare. La Stampa personalizza il paragone, e il D-Day diventa non solo di Kiev, ma più nel dettaglio “di Zelensky”, che viene salutato “da un’ovazione” e “A difendere la democrazia è un’altra generazione, c’è il cambio della guardia”. A scanso di equivoci, l’inviato del quotidiano torinese spiega che «il terreno di questa sfida resta il cuore dell’Europa, allora la Francia da liberare dal giogo nazista, oggi l’Ucraina invasa dal ‘tiranno’ Putin, attributo che Biden torna ad appiccicargli».
Il Foglio (Normandia, Kharkiv) ricorda, invece, che Putin «calpesta la memoria collettiva e la utilizza per giustificare la sua guerra ingiustificata contro il nazismo immaginario dell’Ucraina», rispolverando indirettamente l’operazione di riverniciatura e falsificazione della realtà, volta a romanzare i neonazisti ucraini “che leggono Kant”, ricorrendo a veri e propri virtuosismi, equiparandoli, come aveva fatto il Secolo d’Italia, agli “Spartani alle Termopili”. Se negli ultimi due anni i media occidentali hanno fatto da grancassa della propaganda per avallare la decisione dei governi occidentali di armare l’Ucraina contro l’“invasore”, ora la narrazione punta a legittimare l’escalation e suggellare la chiamata alle armi, avvertendo che Putin, qualora sconfiggesse le truppe di Kiev, non si fermerebbe all’Ucraina, ma potrebbe anzi invadere l’Europa, arrivando fino al Portogallo.
La sentenza latina “Si vis pacem, para bellum” rimbomba malamente nelle esternazioni di Biden, Zelensky e Macron e si propaga come un virus mentale sui mezzi di informazione. Sono mesi, ormai, che si tenta la fuga in avanti auspicando la militarizzazione dell’Europa. Il leit motiv è il seguente: «La Russia non può e non deve vincere questa guerra». Ripetendolo all’infinito come un mantra, i poteri guerrafondai dell’Occidente sperano che lo slogan venga introiettato dalle masse e creduto. Creduto al punto da richiedere sacrifici collettivi per “difendere” l’Europa dall’Orso russo. La sottile linea rossa che si rischia di varcare è sotto gli occhi di tutti, ma i media continuano ad aizzare l’opinione pubblica contro il “nemico”, dispensando tonnellate di moralità e di cronache strazianti, anziché delineare i rischi concreti di questo rigurgito di belligeranza.
[di Enrica Perucchietti]