Fabrizio Venafro

Uno dei problemi del vivere in stati non democratici è la possibilità che la popolazione sia gettata in un conflitto bellico suo malgrado. Dal tintinnio di sciabole che si ode oggi in Europa, possiamo nutrire seri dubbi che i nostri siano stati democratici. Se così fosse, non sarebbe normale che un capo di stato parli della guerra come di un orizzonte probabile quando la sicurezza della propria popolazione è lungi dall’essere messa in pericolo. Ma la realtà è che noi non viviamo in sistemi democratici. Forse viviamo in delle liberal-democrazie, ma queste sono lungi dallo spartire qualcosa con il concetto di democrazia. Il termine nasce nel sistema delle polis greche e indica un tipo di governo in cui il popolo esercita direttamente il potere. E il popolo poteva decidere di qualsiasi questione, compresa la guerra. Oggi sarebbe impensabile un potere del genere nelle mani dei cittadini. Nessuna guerra moderna è stata decisa dal popolo. Tutta la retorica liberale, dal XIX secolo in poi, si è concentrata sulla possibilità di conciliare la prassi democratica con il suo rovesciamento di senso. Ossia su come conciliare il termine democrazia con la privazione del potere decisionale in capo al popolo. Persino un tema grave e vitale come la guerra esula dal potere decisionale del popolo.

C. B. Macpherson, nel 1977 con il suo  La vita e i tempi della democrazia liberale, distingue tre modelli teorici della democrazia liberale. Il primo è quello che ha al centro l’utilitarismo di Bentham e James Mill, per i quali la democrazia deve far ottenere la maggior felicità per il maggior numero di persone possibili. La felicità in quel modello consiste nel possesso di beni materiali, quindi è misurabile con la quantità di  beni posseduta. Il secondo prende vita da John Stuart Mill, per il quale la felicità non corrisponde al possesso materiale di beni ma alla possibilità che gli individui hanno di coltivare le proprie qualità morali e intellettuali.  Rispetto agli utilitaristi, Mill si pone il problema  delle disfunzioni provocate dal sistema capitalista con il portato di ingiustizia e disuguaglianza.  Lungi dal rifiutare tale sistema, non riconoscendo che le disfunzioni sono il portato dei meccanismi insiti al capitalismo, pensa di riformarlo attraverso l’estensione del suffragio a tutti i cittadini, donne comprese, e attraverso la promozione di un sistema di cooperative di produttori. Ma per evitare un dominio di classe, teorizza il voto plurimo che favorisce le persone con una certa istruzione e con un determinato censo. La teoria di Mill incontrerà rinnovato vigore nella prima metà del Novecento, quando si rende manifesto che il voto delle classi popolari non porta a un dominio di classe. Il terzo modello è quello che parte dalle osservazioni di Schumpeter e viene ripreso dalla scienza politica novecentesca. La democrazia è completamente avulsa da qualsiasi fine e consiste meramente in un metodo che deve avere determinate regole. La classe politica perde il ruolo di rappresentanza, perché non si può rappresentare chi non è in grado di assumere delle decisioni razionali e consapevoli. E la stragrande maggioranza della popolazione è in tale stato di minorità. Gli individui, più si allontanano dalla propria sfera lavorativa e familiare, più sono incapaci di comprendere i fenomeni che sono chiamati ad analizzare. L’unica decisione che possono prendere i cittadini è la scelta tra attori politici che svolgono il ruolo di imprenditori elettorali e che agiscono come i produttori sul mercato economico, mettendo in campo delle vere e proprie campagne di marketing politico. Le persone non scelgono in base a programmi, che tra l’altro non sono realmente alternativi, ma in virtù delle corde emotive che gli imprenditori riescono a far vibrare.

Se la scienza politica novecentesca, attraverso la sua descrizione, ha avuto il merito di alzare il velo di ipocrisia delle liberal-democrazie, ha giustificato lo stesso sistema affermandone l’ineluttabilità, dati i caratteri dell’individuo, le sue propensioni e i suoi interessi. La democrazia corrisponde a un metodo che deve avere determinati requisiti, quali pluralità dell’offerta politica e delle opinioni, libertà di stampa, di associazione, di riunione. In realtà, la pluralità dell’offerta politica è solo di facciata. La pluralità di opinione viene sempre più contrastata, come abbiamo visto prima durante la pandemia poi con i conflitti ucraino e medio-orientale. La libertà di espressione e di manifestazione si deve misurare con un apparato repressivo sempre più feroce. In sostanza, anche la forma tanto cara alla scienza politica novecentesca viene meno.

Macpherson pensava a un quarto modello che chiamava democrazia partecipativa e la cui realizzazione era favorita dalla consapevolezza da parte della popolazione delle disfunzioni del capitalismo in termini di costi ambientali e umani. Ma l’autore scriveva alla fine degli anni Settanta, ossia nel momento più caldo delle proteste anticapitaliste e probabilmente nella fase più matura delle democrazie liberali occidentali. Con la reazione neoliberale degli anni Ottanta e il successivo crollo dell’URSS, tale prospettiva è stata spazzata via. La realtà è stata resa più aderente alla teoria schumpeteriana e più adatta a un turbocapitalismo che, in nome dell’ideologia del mercato concorrenziale, ha fatto strame del pluralismo ideologico. Non di fine dell’era delle ideologie bisogna infatti parlare ma della fine del pluralismo ideologico.

I centri del potere globale sono sempre più autoreferenziali. La guerra ucraina è stata preparata oltreoceano per poi essere scatenata dalla Russia. Una reale volontà di pace non è mai stata contemplata nei centri della decisione globale, e questo nonostante le popolazioni non abbiano propensione bellica. Oggi, la prospettiva della guerra, per l’insensatezza e il potenziale distruttivo che la caratterizzano, richiama alla mente l’inutile strage  degli inizi del XX secolo.

Probabilmente, alla base, c’è l’idea che la guerra, col suo corollario di distruzione, morte e ricostruzione, è l’unico modo per far ripartire un’economia stagnante. O ridare vitalità a un capitalismo di cui la crisi ambientale mette in luce contraddizioni insanabili. Ma occorre comprendere che un eventuale conflitto non avvantaggerebbe l’Europa, fulcro dello scenario bellico. Quel tramonto dell’Occidente, che Oswald Spengler intravedeva alla vigila del Prima guerra mondiale, sarà portato a compimento dalla Terza. D’altra parte, siamo in linea con quanto prevede uno studio di Goldman Sachs sulle maggiori economie mondiali nel 2075. Nessun paese europeo figura tra le prime dieci potenze. 

Ora, le elezioni europee costituiscono l’occasione per contrastare i folli disegni della classe dirigente del vecchio continente. Se è vero che i cittadini sono tali solo nella cabina elettorale, per poi tornare sudditi appena ne escono, vi sono altresì circostanze in cui tale momento sovrano è gravido di conseguenze. Fare una scelta sulla base di una propensione per la pace o la guerra delle liste in competizione, costituisce l’unico strumento che le popolazioni, che non condividono il fatto che quello bellico sia uno scenario probabile, posseggono per riaffermare la propria sovranità. Porre la pace al centro della scelta elettorale rappresenta l’unico comportamento sensato e un’iniezione corroborante di una democrazia fortemente claudicante

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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